martedì 28 aprile 2009

Cos’è stato il ‘68?




Lunedì 20 aprile 2009. Circolo futurista Casal Bertone. Si è tenuta una conferenza per presentare il nuovo libro di Mario Michele Merlino: E venne valle Giulia. Un ragazzaccio in camicia nera racconta.

La conferenza, che ha visto come relatori un ispirato Ugo Maria Tassinari, Adriano Scianca, Gabriele Adinolfi e, ovviamente, l’autore del libro Mario M. Merlino (in foto), appare fin dall’inizio un insieme di considerazioni sul 68 in un’ottica tutt’altro che meramente storica, ma a spiccare maggiormente è stato il lato analitico in quanto ognuno ha dato un proprio senso e una propria interpretazione di ciò che il fenomeno in questione ha rappresentato: scintille di rivoluzione, risveglio pagano, ricerca e scoperta del sesso come risposta/reazione ai puritani moralismi imperanti nella repubblica della D.C. Epoque, metafora di una bellezza precocemente appassita, fallimento annunciato, fine di qualcosa più che punto di inizio.

Entrando più nello specifico, inizio la mia trattazione usando le parole che Merlino ha utilizzato nel suo libro: cosa fu il ‘68? Fu «[...] quella generazione che visse, un po’ stonata e con qualche sgrammaticatura di eccesso, la poesia del XX secolo, a cui, nonostante tutto, è rimasta fedele... in quei giorni i ragazzi scoprirono la gioia di ridere. Anche questa, dono inaspettato, frattura con insulse e mediocri interpretazioni d’un Fascismo cupo e funereo».
Scegliendo Brasillach come guida (anche se l’autore lo considera più come un fratello), Merlino vede il ‘68 come lunione della rivolta generazionale con la volontà politica aldilà delle ideologie. Segno particolare è il sorriso, sorriso che illumina una moltitudine di giovani volti; sorriso che nasce come spontanea risposta alla fatidica domanda che tutti noi ci siamo posti, che tutti noi ci porremo: cosa faremo da grandi? È questo, secondo me, il senso, fortemente estetico, che Merlino vuol dare al suo personale racconto. Le proteste giovanili divengono la caratterizzazione della bellezza: sono i sorrisi, è la gioventù, è la volontà creatrice che, unitisi alla speranza che “da grande farò” quello per cui oggi mi sono battuto, hanno fatto vivere quei 15 giorni di marzo. Il bello come forza vitale dunque, il sorriso come volontà di costruire un futuro che da quello stesso sorriso tragga radiosità, la gioventù come caratteristica dell’aggregazione sono però tutte metafore che nel giro di due anni perderanno la loro forza fino a scomparire. L’appassimento di questa bellezza coinciderà col radicalizzarsi delle ideologie politiche. Dopo il 16 marzo – data simbolo della spaccatura del movimento e conseguente fine dell’unione generazionale dovuta all’attacco perpetrato dalle forze reazionarie del M.S.I. guidate da Almirante e Caradonna contro gli studenti nella facoltà di Lettere – i volti dei ragazzi, fino ad allora così felici nella consapevolezza di perseguire una battaglia comune che andava oltre i confini sanciti dall’ideologia, divennero via via più spenti. L’unica rivoluzione che si compì fu quella che vide il trionfare delle logiche di una politica che di lì a poco portò all’estremizzazione delle divisioni destra/sinistra i cui esiti, purtroppo, conosciamo tutti. L’unione generazionale, così compatta nel combattere i simboli di un sistema nel quale non si riconosceva in quel 1° marzo 1968, nell’avvenimento che prenderà il nome di “battaglia di valle Giulia”, si sgretolò e nel giro di due anni gettò quella stessa generazione e quella successiva nella stagione grigio piombo dove «la spranga fu sostituita dalla p-38».

Osservando il ‘68 da questa angolazione, risulta più corretto percepire tale fenomeno come “fine di qualcosa” e, in questo senso, l’intervento di Gabriele Adinolfi è chiarissimo: la data che segnò il ‘68 come fine fu, ancora, quel 16 marzo di cui sopra. Da li in poi, infatti, il movimento fu guidato dai partiti politici che fino ad allora erano stati, per volontà degli stessi manifestanti, messi ai margini della protesta. Quello che fu un risveglio pagano caratterizzato dal rifiuto del moralismo di puritani, stalinisti e clericali, e dal tentativo di «unire la pelle col sole» fallisce. Il movimento si spaccò in tante particelle e gruppuscoli («chiesette» le ha definite Adinolfi), inserendosi in una situazione che fece ripiombare l’Italia in una sorta di guerra civile che gettò nel ghetto le realtà politiche che tale guerra intrapresero.

Per concludere riporto l’intervento di Ugo M. Tassinari.
Dopo aver confermato che lo spirito del ‘68 fu quello dell’aggregazione generazionale aldilà delle ideologie, Tassinari ha raccontato che in quel periodo ci fu un’apertura degli uni verso gli altri, apertura testimoniata dal fatto che culture di destra e sinistra si influenzarono a vicenda. Lui stesso ammette, per esempio, che nel movimento operaista veniva letto ed apprezzato Carl Schmitt, o che i film di Sam Peckinpah, considerato da Tassinari un anarco-fascista, esaltavano ed appassionavano i “compagni”. Anche sul versante-destra avvenne lo stesso tipo di apertura: Jack Kerouac e lo stile di vita on the road diviene fonte di ispirazione per parte dei ragazzi di destra, Merlino in primis; e lo stesso dicasi per il taglio dei capelli, per la lunghezza della barba e per l’indossare l’eskimo.
Ma ciò che realmente si ricercava dalla contestazione del ‘68 era, per Tassinari, la totale libertà sessuale, tant’è vero che finirà per dire che sì, il ‘68 è stato tutto sommato un bel periodo, ma lui ha preferito di gran lunga il 69... :-)

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venerdì 24 aprile 2009

Democrazia: realtà e prospettive

In questo lungo ma appassionante ciclo di articoli (“Democrazia. Anatomia di un falso”) abbiamo analizzato – seppur “a volo d’uccello” – i vari aspetti della Democrazia, sia in senso diacronico che sincronico. Malgrado una retorica capziosa e speciosa, abbiamo visto che la Democrazia non è ciò che dice e pretende di essere: non ha resistito alla prova dei fatti. Eppure esistono margini d’intervento concreti, dei quali deve assolutamente tener conto un politico degno di questo nome, che abbia realmente a cuore le sorti del suo popolo, affinché esso torni finalmente protagonista attivo della Storia. Nessuno meglio di Francesco Polacchi poteva dunque riassumere i punti-cardine di questo ciclo, illustrandoci inoltre – cosa più importante – le prospettive che si offrono a noi per un’azione politica che, al di là di ogni sterile critica meramente distruttiva, possa riportarci – come Comunità e come Popolo – ad essere artefici del nostro destino.




«Democrazia significa semplicemente far bastonare il popolo dal popolo in nome del popolo. L’abbiamo smascherata»

(Oscar Wilde)


Eccoci qui, dunque, a tracciare le somme di questo ciclo di articoli sulla democrazia.
Democrazia. Un concetto giustamente definito meta-storico e che oggi è divenuto sinonimo di tutto ciò che può essere “bello, buono e corretto”.
Democrazia. Al di fuori di essa nessuno può.

È proprio da questo principio che nasce la nostra critica.
Nei precedenti articoli è emerso che l’idea che questa parola porta con sé (democrazia = potere del popolo) è spesso stata tradita dal tempo o dall’istinto dell’uomo che nella storia ci ha dimostrato di essere incapace di sapersi organizzare in strutture rette dal pensiero debole. È questo pensiero infatti che ci fa capire che “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”.

Così come si parla di socialismo reale, infatti, è doveroso distinguere tra democrazia ideale e democrazia reale. La prima idealizzata ad Atene quando era una polis, negli Stati Uniti d’America e in Francia durante le rivoluzioni, durante il periodo risorgimentale e poi a seguire da una buona parte dell’intellighenzia post-II Guerra Mondiale, la Democrazia si è sempre scontrata con i fatti. Così come fu ucciso Socrate – il più grande processo politico della storia dopo Norimberga – fu compiuto il genocidio degli indiani d’America, in Francia la democrazia si conquistò anche con la ghigliottina, e nel periodo attuale essa si mantiene in vita con la demonizzazione dell’avversario attraverso l’uso dei media o quello indiscriminato della magistratura, delle leggi. La famosa divisione istituzionale dei poteri è infatti una faccenda passata. Essa presuppone infatti che l’entità-Stato abbia la sovranità su stesso. Basta pensare all’emissione e alla proprietà delle banconote per capire che così non è più. E poi quello che un tempo era definito il “quarto potere” – la stampa – oggi è di per sé strutturale al potere stesso. Nell’epoca della comunicazione rapida e immediata essa è pertanto influente delle dinamiche che si vengono a creare, non più semplice osservatrice.
E questo comunque non è un fenomeno prettamente odierno, se si pensa che alla manipolazione “mediatica” del pensiero altrui si era dedicato anche Platone, che ci parla di teatrocrazia (Leggi, III 693 a-702 e), in quanto molti spettacoli teatrali avevano evidentemente scopi denigratori o volevano condurre l’opinione pubblica sulle proprie posizioni.

Tutto ciò lascia credere al cittadino, al popolo, di detenere un vero potere. Egli è informato dei fatti, ne è a conoscenza. Si crede veramente partecipe alla vita politica dello Stato. Nonostante sia banale ricordare come una singola crocetta nelle tornate elettorali non faccia di un uomo l’artefice delle scelte di una nazione, credo sia doveroso farlo in virtù del fatto che oggi l’appartenenza alla vita politica si consuma squisitamente durante le elezioni.
È una delega. Per pigrizia? Forse, ma tale rimane. Quindi il popolo di fatto delega a qualcun altro l’amministrazione della cosa pubblica e questo qualcun altro, secondo l’articolo 64 della costituzione italiana, non ha vincolo di mandato. Quindi può dire una cosa e farne completamente un’altra all’insaputa del popolo stesso, che evidentemente non ha però la voglia di partecipare.

La tanto conclamata democrazia diretta infatti può avere luogo? Sicuramente non al governo o negli organi centrali dello Stato così composto. Sicuramente però esistono delle vie di mezzo in cui la partecipazione diretta della cittadinanza all’amministrazione di enti pubblici può funzionare. Nei municipi e nei piccoli comuni ciò può avvenire creando assemblee pubbliche in cui si affrontano i problemi reali e in cui si condividono, per esempio, i bilanci. Nelle aziende la partecipazione degli operai alla gestione e agli utili (socializzazione) può essere vista come una forma di potere del popolo. Se poi da questo principio si partisse e si cercasse di creare una camera complementare al Parlamento che funga da rappresentanza delle componenti economiche del Paese si otterrebbe la possibilità attiva e diretta di ogni singolo operaio di potere arrivare, secondo meriti e capacità, alle camere dell’esecutivo in una crescita costante e dinamica della nazione.

Ma il problema fondamentale è un altro. Per esserci un potere del popolo prima deve esserci un Popolo. Il Popolo non è semplicemente l’unione di cittadini “liberi”. Quella è una massa. Il Popolo è un insieme di individui che abbiano coscienza di sé, delle proprie origini, della propria storia, delle dinamiche evolutive delle loro leggi e istituzioni, e che veda nel bene di tutti la finalità del proprio essere. Un Popolo che sia cosciente, insomma. Oggi è evidentemente impossibile.
Nel precedente articolo è stata citata a più riprese la frase di Moeller van den Bruckdemocrazia è la partecipazione del popolo al proprio destino”. Essa fa riferimento comunque alla democrazia ideale, cioè nella speranza che ciò possa realmente verificarsi. Allo stato attuale della situazione non è il Popolo che decide, bensì il numero maggiore di “tifosi” per una delle fazioni in campo. E qui nasce un nuovo paradosso. Più fazioni ci sono e più sembra ci sia democrazia. Anche se ci fossero cento partiti differenti che però dicono la stessa cosa con forme differenti si penserebbe di essere in democrazia. È un’illusione a cui il cittadino del terzo millennio è portato. La possibilità di scegliere uno di questi club non può essere confusa con libertà e quindi non assimilabile alla parola “democrazia”. È una speculazione elettorale.

Il problema più grande nell’affrontare questa tematica è però quello circa il futuro di questo concetto. L’errore più grande che si fa solitamente è quello di credere che essendo ormai approdati a questa forma di governo essa rimarrà immutabile nei secoli per una presunta superiorità rispetto alle altre forme d’amministrazione del potere. A tal proposito Benito Mussolini dice una cosa importante: «Le dottrine politiche passano, i popoli restano». Con ciò si può intendere che anche le forme di governo siano soggette ad avere parabole discendenti ed essere superate da nuove. Nonostante ciò, è difficile prevedere cosa avverrà nel futuro. Se ci fosse un Palazzo d’Inverno da assaltare, sarebbe tutto più facile. Il potere oggi è poliedrico e polarizzato in più centri. Molti di essi dipendono/influenzano a più livelli l’economia. Parafrasando ciò che ha scritto Gabriele Adinolfi su Nuovo Ordine Mondiale, c’è un’impossibilità di competere con certi “mostri sacri” della politica e dell’economia ad armi pari. Bisogna quindi partire dalle piccole attività conquistando un’indipendenza e un’autonomia rispetto al mondo globalizzato attuale. Esse però devono essere il braccio e non il cuore di un qualcosa che è molto più importante: la Comunità.

Francesco Polacchi

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martedì 21 aprile 2009

Democrazia come partecipazione: Moeller van den Bruck


«La democrazia è la partecipazione di un popolo al proprio destino»


di Adriano Scianca


Si fa presto a dire “democrazia”. Termine che mette effettivamente i brividi, a chi abbia un po’ di esperienza circa il modus operandi dei “democratici” d’Italia e del mondo. Ma si può essere sostenitori della democrazia nonostante i democratici? Può una democrazia essere organica, comunitaria, nazionale, antiliberale e antioligarchica? In un’epoca di tecnocrazia e grandi potentati transnazionali che espropriano i popoli di ogni brandello di sovranità può la partecipazione essere la bandiera di una politica non conforme? Arthur Moeller van den Bruck (1876 – 1925, in foto) avrebbe risposto in modo affermativo a tutte queste domande. Ma andiamo con ordine. Chi era, innanzitutto, l’autore che porta un nome tanto imponente e ridondante?

Nato il 23 aprile 1876 a Solingen, Moeller è considerato uno dei padri nobili e degli spiriti animatori della vasta corrente di pensiero conosciuta come “Rivoluzione conservatrice”. Chiamato Arthur dal padre in onore di Schopenhauer, il futuro cantore dei “popoli giovani” comincia, nelle sue prime uscite pubbliche, ad affiancare al cognome paterno anche quello – di origine olandese – della madre: Elise van den Bruck. Si forma su Nietzsche, Dostoewskij, Langbehn, Chamberlain e Gobineau. Nella giovinezza un po’ bohémien fa la conoscenza di Rudolf Steiner, August Strindberg, del pittore völkisch Fidus, Edvard Munch, Dimitri Merezkowskij, Theodor Däubler ed Ernst Barlach. Dal 1904 al 1910 scrive l’opera enciclopedica Die Deutschen (I Tedeschi) un ritratto dei maggiori geni della cultura tedesca, mentre nel 1906 inizia la traduzione delle opere complete di Dostoewskij. Nel 1913 pubblica Die italienische Schönheit (La bellezza italiana). Nel 1914 parte volontario. Nel 1916 pubblica Der prussische Stil (Lo stile prussiano) e, dopo la disfatta, nel giugno 1919 lo troviamo tra i fondatori dello Juniklub, comunità nazionalconservatrice di Berlino, e di Gewissen, importante rivista nazionalista. Del 1919 è il suo saggio politico Das Recht der jungen Völker (Il diritto dei popoli giovani). Nel 1923 pubblica invece il suo libro più celebre, Das dritte Reich (Il terzo Reich, traduzione italiana di Luciano Arcella, Settimo Sigillo, Roma 2000). Nel 1925 si suicida a Berlino.

Nel suo saggio più celebre, che porta un titolo oggi piuttosto impegnativo come Il terzo Reich (ma ricordiamo che il testo uscì 10 anni prima dell’ascesa al potere del nazionalsocialismo e che l’autore si tolse la vita otto anni prima che Hitler divenisse cancelliere), Moeller traccia una originale visione politica basata su alcune istantanee fissate in modo vivido e caustico. Il libro è in effetti composto da diversi capitoli, ognuno dei quali prende le mosse da un termine del lessico politico e da una breve frase introduttiva. Das dritte Reich, per fare un esempio, si apre con il capitolo intitolato “Rivoluzionario – Vogliamo vincere la rivoluzione”, seguito da “Socialista – Ogni popolo ha il suo socialismo”. E così via. Ora, il quarto capitolo del saggio è dedicato esattamente alla democrazia ed ha per titolo: “Democratico – La democrazia è la partecipazione di un popolo al proprio destino”. Frase già di per sé rivelatrice, non c’è che dire. Come nel resto del libro, Moeller prende le mosse dalla situazione concreta della Repubblica di Weimar, per poi passare a considerazioni di tipo più generale. Leggiamo quindi l’inquadramento generale del problema in questi termini: «La democrazia è la partecipazione di un popolo al proprio destino. Ed il destino del popolo, dovremmo dire, è pertinenza del popolo. La domanda è sempre la stessa: come è realizzabile una effettiva partecipazione?». Con il Parlamento, risponderebbe il liberale. Moeller la pensa diversamente. Per lui il Reichstag è «la struttura incaricata della diffusione delle frasi fatte». Il problema, per il teorico della konservative Revolution, non sono tuttavia le istituzioni, ma lo spirito che le anima. La democrazia, scrive Moeller, esiste da prima del Parlamento. Essa era anzi intrinseca nella mentalità degli stessi antichi Germani. «Fra i neoconservatori – spiega Alain de Benoist – la nozione di Reich non è a priori antagonistica nei confronti della democrazia. Di fronte a questo tipo di regime, i membri dello Juniklub non professano, d’altronde, alcuna ostilità di principio. Cercano piuttosto di creare una “democrazia tedesca” – così come si pronunziano per un “socialismo tedesco”. È un atteggiamento, molto caratteristico in loro, mirante a “nazionalizzare” una dottrina piuttosto che non a respingerla».

Esiste una democrazia tutta tedesca, quindi, che non ha a che fare con il parlamentarismo. Quest’ultimo «in Germania non ha nessuna tradizione», e la Germania stessa «è un paese troppo nobile per il parlamentarismo». In questo quadro, «la volontà di democrazia è volontà di autocoscienza politica di un popolo: essa è la sua autoaffermazione nazionale. La democrazia è l’espressione dell’autostima di un popolo, oppure non è nulla».
In concreto, «si potrebbe immaginare in Germania una democrazia che si prenda cura soprattutto della vita del popolo, che sia in grado di radicare la repubblica nella specificità del paese, nella differenza delle componenti etniche e nell’armonia generale del popolo. Non la forma dello Stato, ma lo spirito dei cittadini realizza la democrazia. La sua base è il senso del popolo […]. Se vogliamo salvare la democrazia tedesca dobbiamo rivolgerci lì dove l’elemento umano e l’elemento tedesco non sono stati contaminati: al popolo stesso, al carattere originario di questo popolo, che può sussistere anche in questo Stato. E potremmo forse dire che vi sarà vera democrazia in Germania solo quando non vi saranno più “democratici”. Vi sono popoli che si sono sollevati mediante la democrazia. Vi sono altri popoli che sono andati in rovina con la democrazia. La democrazia può significare stoicismo, concezione repubblicana, inflessibilità, durezza. Ma allo stesso tempo può significare liberalismo, chiasso parlamentare, lassismo».

Ora, cosa ci trasmettono queste parole al di là della problematica “tedesca, troppo tedesca” e fatti salvi tutti i mutamenti di contesto dal 1923 a oggi? L’idea, ad esempio, che la partecipazione è la base di ogni organismo politico sano, così come la decisione ne costituisce l’altezza e la selezione la profondità. L’intuizione che dall’èra delle masse non si torna indietro e che essa rappresenta il campo di battaglia in cui si scontrano differenti concezioni del mondo. La consapevolezza che le battaglie antistoriche sono sempre perdenti e che è necessario “cavalcare la tigre” dei fenomeni in atto senza essere da loro cavalcati. Ma di tutto questo, va da sé, ci sarà tempo di riparlare.

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venerdì 17 aprile 2009

60 anni di Partitocrazia italiana


«Vi sono almeno 50 compagni capaci di fare il prefetto meglio di me! Niente da fare. Valiani mi oppose le esigenze politiche della spartizione delle cariche tra i 5 partiti del comitato. Se non andavo io, il partito perdeva l’incarico ambito di prefetto politico di Milano. Ci ho pensato più tardi: le lottizzazioni contro le quali ho protestato e protesto tuttora, partirono proprio da noi, dall’antifascismo nel suo momento più militante, quello dell’insurrezione conclusiva». Parole pronunciate dal recentemente scomparso Vittorio Foa (in foto), presunto maestro di onestà e libertà, davanti al fallimento dei suoi sogni.

Una disincantata analisi che ci aiuta a comprendere l’anomalia tutta italiana di un sistema democratico che nasce dal suo aspetto degenerativo: la partitocrazia. Essa si insedia nelle istituzioni sin dal 1944, quando si era cancellata brutalmente ogni traccia del passato, ma non ve n’era ancora alcuna del futuro.
I partiti “nati” dalla resistenza provvedono subito a spartirsi cariche e compensi, e a creare apparati burocratici clientelari ed invadenti. Aggravante imperdonabile: più che dal reale consenso popolare furono spinti al potere da atti terroristici (si pensi a Via Rasella), da falsificazioni e propaganda (ad esempio, delle semplici scaramuccie furono fatte passare come le eroiche “quattro giornate” di Napoli) ed ordini di potenze straniere (dai diktat staliniani ai dollari americani).

Fattore decisivo fu il non voler riconoscere (da parte dei “padri costituenti”) a detti partiti veste giuridica, né di diritto privato né pubblico: permettendogli così di esercitare il loro arbitrio senza controlli e responsabilità. Da un Regime che cercava di immettere «tutto nello Stato» si passò all’esatto contrario. Un subdolo stato “illegale” (quello appunto dei partiti) deteneva i reali poteri decisonali finanziandosi per di più illecitamente (e nulla cambiò la successiva istituzione del finanziamento pubblico).

Vista la sua natura non avrebbe potuto fare altrimenti, come arrivò a riconoscere Craxi nel triste discorso del 3 Luglio 1992 (in foto), davanti ad un Parlamento sbigottito quanto colpevole: «I partiti hanno ricorso e ricorrono a risorse aggiuntive in forma illegale o irregolare (...) se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora tutto il sistema sarebbe criminale (...) non credo ci sia nessuno in quest’aula che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario (...)». E infatti nessuno si alzò... [guarda il video]
La politica italiana fu quindi diretta per 50 anni da un “comitato d’affari” che, per il modo in cui era nato e le idee (?) da cui era guidato, non riuscì mai a fare i veri interessi della Nazione (se si eccettuano sparuti episodi).

Il paese è stato un perfetto esempio di partitocrazia (termine coniato dal giurista G. Maranini già nel 1949) al suo “massimo splendore”, che «occupa ogni spazio possibile per compensare in termini di potere la perdita di consenso» (come disse lo storico Marco Gervasoni). Il reale potere decisionale dei cittadini viene svuotato e l’unica sintesi che si realizza è quella tra i vantaggi dei governanti. Questo stato di cose fu interrotto non da un ravvedimento della classe politica italiana, ma solamente dall’entrata in campo di forze economiche esterne, ovvero la “massoneria internazionale” di cui ha parlato il Sottosegretario agli Esteri Stefania Craxi (in foto) nella conferenza del 1 Aprile 2009 a CasaPound. Francesco Cossiga, con una delle sue celebri “picconate”, rivelò le modalità: un incontro sul panfilo Britannia in cui i banchieri della City dettarono le condizioni della svendita del patrimonio pubblico italiano ai maggiori esponenti finanziari italiani (Prodi e Draghi in primis).

Compiuto tale scempio ed eliminato il massimo capro espiatorio Bettino Craxi (perché lui sì e il PCI, parimenti colpevole a livello locale e coperto di rubli, no?), tutto è tornato nella paludosa “normalità democratica”.
Le elezioni sono diventate (se possibile) ancor più momento di “scelta apparente” e la vita del popolo ha continuato ad essere guidata da potenze, interessi e dinamiche ad esso estranei. Il “comitato daffari” partitico si è rinnovato per trovarsi peggiore di prima: vista l’inesistenza di un’entità statale organica e superiore (o almeno di un’istituzione quale è tradizionalmente la Monarchia in Inghilterra), esso ha continuato ad agire secondo la sua natura: portando avanti interessi di casta a danno della collettività, il cui intimo significato gli è sconosciuto.
Per non avere problemi, i “camerieri dei banchieri” hanno accentuato il servilismo verso i poteri forti (Pound resta ancora il miglior “filtro” per capire l’economia), senza farsi mancare stretti rapporti con la criminalità organizzata (che ha introiti da capogiro, e spesso e volentieri decide le elezioni al Sud).

Ma il “sovrano” e “libero” popolo italiano non ha trovato di meglio che combattere e pontificare (60 anni dopo molti hanno ancora la bava alla bocca) contro chi aveva cercato e spesso trovato la soluzione al problema economico (IRI, Corporazione, Socializzazione delle imprese), messo fuori legge la massoneria, debellato le mafie, acquisito indipendenza sul piano internazionale e modernizzato il paese (gli edifici fascisti allAquila sono rimasti in piedi, non serve aggiungere altro).

Risultato: ci troviamo con la possibilità, grazie ad una magica X sulla scheda, di poter cambiare e migliorare il paese... sciegliendo tra candidati corrotti, manovrati e complici della rovina in cui ci troviamo. Non sono pochi quelli che, pur sapendolo, votano lo stesso “turandosi il naso” o per mero interesse. Democrazia?

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mercoledì 15 aprile 2009

Infinito ‘800

Il nostro articolo Rivoluzione Francese e Democrazia giacobina (leggi), firmato da Francesco Polacchi, ha suscitato interesse e aperto un dibattito sul noto settimanale on-line di Miro Renzaglia (“Il Fondo”). Il pezzo (Infinito ‘800: leggi) porta la firma di Francesco Mancinelli, che ringraziamo vivamente.

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martedì 14 aprile 2009

Democrazia e capitale


«Oggi il nome democrazia è rimasto alle usurocrazie, o alle “daneistocrazie”, se preferite una parola accademicamente corretta, ma forse meno comprensibile, che significa: dominio dei prestatori di denaro»

(Ezra Pound)


Un importante fattore che promuove il potere politico dello Stato liberale, tipico delle odierne democrazie, è stato l’avvento di un’economia di mercato connessa ad un modo di produzione capitalistico sotto un principio economico liberista. Quando si parla di liberismo e capitalismo, si definiscono due teorie economiche ben distinte, ma sicuramente concilianti nel mondo occidentale di oggi. Il liberismo, teorizzato dal celeberrimo Adam Smith (1723 – 1790, in foto) alla fine del Settecento, è il principio del libero scambio delle merci che afferma il valore dell’iniziativa privata opponendosi ad ogni intervento statale, mentre il capitalismo, in senso stretto, indica esclusivamente un sistema economico e sociale nel quale i mezzi di produzione appartengono a coloro che hanno investito i capitali. Capiamo quindi perché queste teorie economiche non solo possano convivere, ma siano per loro stessa natura, espressione di un’unica concezione del sistema economico.

L’economia di mercato si basa su un libero incontro tra domanda ed offerta di uno specifico bene; nel mercato gli interessi dell’offerente e dell’acquirente sono contrastanti (uno tende ad alzare il prezzo per il proprio guadagno, mentre l’altro desidera comprare ad un prezzo più basso possibile). Questo tipo di economia si basa sul massimo decentramento, visto che il calcolo economico dei singoli offerenti e venditori è il solo elemento che determina il prezzo di ciascuna transizione e, di conseguenza, l’equilibrio generale è la risultante di un enorme numero di contratti conclusi tra i singoli individui.

Lo Stato assoluto contrastava questo tipo di economia. Oggi, invece, va sottolineata l’assenza di unitarietà e coerenza delle leggi vigenti in ogni Stato o Comunità liberale. Sul campo più propriamente economico, l’idea capitalista rende disponibili per gli investimenti dei privati i fattori produttivi, ossia terre e capitali, evitando che lo Stato li assorba per il suo funzionamento sottraendoli al mercato. Pertanto, le nuove modalità di produzione della ricchezza e l’esigenza di garanzia di libertà contro tentazioni assolutistiche, condussero all’affermazione di una “società civiledistinta e separata dallo Stato. Lo Stato assoluto rendeva la società oggetto di gestione politica, invece lo Stato liberale riconosce e garantisce la capacità della società civile e del mercato di auto-gestirsi e sviluppare autonomamente i propri interessi.

Attualmente, l’indebolimento del controllo dello Stato sul proprio territorio è anche da collegare all’affermazione di quella che viene chiamata globalizzazione, ovvero un mercato internazionale in cui i fattori produttivi si spostano con estrema facilità da un Paese all’altro. Dalla globalizzazione dell’economia discendono varie conseguenze. Prima di tutto, le risorse più importanti, e cioè il capitale finanziario, le informazioni e le conoscenze, che per loro natura non sono legate al territorio, si spostano da uno Stato all’altro alla ricerca di luoghi più convenienti in cui posizionarsi, sfuggendo quasi totalmente al controllo dei poteri pubblici. In secondo luogo, gli Stati sono sempre più influenzati da decisioni che vengono prese fuori dai loro confini, ma che al loro interno hanno considerevoli ripercussioni. Si prenda ad esempio la decisione di grandi investitori di realizzare vendite massicce dei titoli del debito pubblico di un dato Stato, che, mettendone in crisi la liquidità, determinano un rialzo di tassi di interesse e il conseguente aumento del debito dello Stato. Pensiamo anche alle conseguenze sul livello dei prezzi e perciò sul tasso di inflazione, delle decisioni prese dai Paesi produttori di petrolio o da grandi gruppi multinazionali. Per ultimo, si realizza una competizione tra Stati per attrarre imprese e capitali e, in tal modo, per aumentare la ricchezza che esiste e si produce nel loro territorio.

Tutto ciò significa che gli Stati si trovano davanti ad un inevitabile bivio: chiudere le proprie frontiere agli scambi con l’esterno, rischiando impoverimento o tensioni politiche con altri Paesi, oppure garantire la piena libertà di movimento di capitali, di beni e servizi, accettando così di conformarsi alla logica del mercato globale ed alla competizione tra aree territoriali. L’adesione alla seconda alternativa porta una certa riduzione dell’area delle scelte politiche consentite allo Stato.

Lo Stato è formalmente libero di adottare gli indirizzi politici che ritiene più opportuni, essendo in “democrazia”, ma sostanzialmente è costretto a sottostare al giudizio del mercato e, quindi, a seguire indirizzi politici compatibili con le esigenze della competizione internazionale. Concludendo, ve la sentite ancora di parlare di “democrazia” quando lo Stato (“governato dal popolo”) non ha piena sovranità sul proprio territorio visti i condizionamenti del mercato estero?

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martedì 7 aprile 2009

Democrazia e guerra fredda: anatomia di un paradosso



di Carlomanno Adinolfi


Con la fine della guerra mondiale “democrazia” sembra diventare la parola d’ordine per tutti gli Stati protagonisti della scena globale. “Democrazia” diventa il baluardo della modernità e dei popoli contro le “dittature” sconfitte con le armi dall’alleanza finanza-comunismo. Eppure “democrazia” diventa sempre di più una parola astratta a cui ognuno dà diversi significati a seconda talvolta della convenienza, talvolta della matrice culturale in cui essa nasce.
Nell’immediato dopoguerra, quando il mondo comincia ad assumere l’assetto deciso a Jalta dai cosiddetti “grandi” (Roosevelt, Stalin e il proclamatore dell’inizio delle belligeranze, Churchill) i principali modelli di democrazia diventano quello occidentale, di stampo parlamentare, e quello popolare, proprio dei regimi ad est della cortina di ferro.
Ovviamente i rappresentanti dei due modelli rivendicano ognuno la legittimità del definirsi “democratico”.

Le democrazie occidentali

I paesi cosiddetti occidentali, sotto la leadership militare, economica e politica degli Usa, sono tutti fautori di quelle che comunemente vengono definite democrazie parlamentari. Questi paesi ponevano e pongono tutt’ora come concetto cardine della loro democrazia le libertà individuali e la loro difesa in tutti i campi. In questa concezione la massima espressione di libertà è il voto per decidere i propri rappresentanti in parlamento e negli organi di governo territoriale.

Tuttavia il principio fondante di quella che dovrebbe essere una democrazia nel vero senso della parola, ossia “governo del popolo”, viene del tutto a mancare: la partecipazione stessa del popolo al governo e alla vita politica. La partecipazione attiva dei cittadini alla sfera politica nasce e si esaurisce all’interno delle urne nella scelta dei rappresentanti. Da quel momento in poi quella che dovrebbe essere res publica torna di fatto ad essere sfera privata degli eletti a “rappresentanti del popolo”. Se si va ad analizzare a fondo la realtà concreta, infatti, è evidente che solo una piccolissima percentuale della popolazione ha a che fare con la gestione effettiva della politica, e si prospetta una visione che sembra sempre più quella di una oligarchia, piuttosto che quella di una democrazia – visione che diviene sempre più accentuata man mano che i cosiddetti rappresentanti diventano sempre più legati alle lobbies economico-finanziarie.

Altro fattore che faceva degli Stati occidentali delle democrazie solo a parole è il fatto che (altro cardine del mondo occidentale) a vincere sia la cosiddetta maggioranza.
Nei paesi con una moltitudine di partiti nella scena politica, questo, di fatto, sta a significare che al governo, tranne in casi eccezionali, non vada affatto la rappresentanza della maggioranza dei cittadini, ma semplicemente i rappresentanti della minoranza più grande. Nei paesi a sistema proporzionale è poi necessario che queste “grandi minoranze” debbano allearsi con partiti teoricamente più vicini ideologicamente per raggiungere e mantenere il governo. Questo crea altri scenari paradossali con partiti che di fatto sono rappresentanti di una minima parte di cittadinanza che hanno il potere di ricatto politico verso i più grandi, e che possono in questo modo andare al governo a discapito di partiti ben più rappresentativi che si trovano però fuori dalla coalizione vincente.

L’unico caso in cui ad andare al governo è effettivamente la maggioranza, ossia chi si accaparra almeno un voto in più del 50% dei votanti, è quello dei sistemi bipolari in cui di fatto sono presenti solo due partiti ma, fuori dagli Usa, un terzo conta sempre qualcosa, come accade in Germania o Inghilterra. Ma anche qui il paradosso è enorme, in quanto la totalità della popolazione deve per forza riconoscersi in uno dei due schieramenti.
In tutti i casi, comunque, chi raggiunge la cosiddetta maggioranza, sia essa relativa o assoluta, lascia di fatto esclusa dal governo una fetta enorme della popolazione, rendendo il termine “governo del popolo” del tutto inadatto a descrivere il sistema di governo occidentale.

Le democrazie popolari

Paradossalmente gli Stati che durante la guerra fredda si avvicinavano di più al concetto vero di democrazia erano proprio gli Stati sotto influenza sovietica, i quali avevano dalla loro le cosiddette democrazie popolari.

Facendo propria la considerazione di J. J. Rousseau (1712 – 1778), secondo cui la volontà di tutti (volonté générale) non coincide affatto con la somma delle singole volontà, queste democrazie cercarono di scardinare il sistema atomista, secondo cui ognuno deve promuovere i propri interessi a discapito di quelli dell’avversario sperando di andare al governo (o di esservi rappresentato) per veder così attuato il proprio programma personale o quello della propria fazione. Promossero pertanto un sistema che vedeva tutta la popolazione rappresentata da un unico partito: quello comunista.
In quest’ottica si cercò di reintrodurre il concetto di partecipazione attiva della popolazione alla politica, rendendo obbligatoria l’iscrizione al partito, vietando il più possibile la proprietà privata e rendendo, di conseguenza, tutto proprietà dello Stato, facendo sì che ogni lavoratore e ogni fabbrica lavorassero solo ed unicamente per il partito, in un’ottica che vedeva l’economia del tutto assoggettata al volere degli alti gradi del polit bureau che rappresentavano l’intera collettività.

Sebbene però questo sistema fosse, dal punto di vista teorico, più vicino al concetto di “governo del popolo” rispetto alla controparte occidentale, di fatto anche qui il popolo era del tutto estraneo non solo alle decisioni ma anche ai vantaggi del proprio lavoro. Essendo praticamente annullata la sfera individuale a discapito di quella collettiva, la politica economica attuata tramite i cosiddetti “piani quinquennali” non era affatto finalizzata al benessere economico e sociale dei lavoratori, ma piuttosto al benessere – appunto – dell’intera collettività, che – di fatto – era rappresentata dal partito e dallo Stato.

I paradossi dei due mondi

Abbiamo già visto il paradosso secondo cui sarebbe stato più corretto chiamare democrazie quelle popolari piuttosto che quelle occidentali.
Ma ci sono altri e ben più grandi paradossi nei due sistemi.
Nell’ottica sovietica appena trattata, secondo la quale l’individuo è annullato nella collettività, il lavoratore diventa un ingranaggio per il benessere dello Stato e non per se stesso, facendo un lavoro di cui non vedrà mai personalmente i frutti, economici o politici, andando a ricostruire esattamente lo scenario criticato dallo stesso Marx, e facendo dell’economia dei paesi sovietici praticamente un capitalismo di Stato.

Ma il paradosso più grande forse riguarda proprio il mondo occidentale. La volontà esplicita di liberare l’economia e la finanza dal controllo dello Stato favorì non solo l’assoggettarsi delle politiche nazionali alle logiche di mercato, ma soprattutto favorì la creazione e il proliferare di una classe finanziaria internazionale che cercò e riuscì a gestire le politiche nazionali per i propri fini. Questo fece sì che lobbies sovra e inter-nazionali potessero controllare i governi, e che Stati con assai poca sovranità nazionale potessero essere governati di fatto da rappresentanti di aziende o multinazionali straniere. A conti fatti, il mondo occidentale risultò quindi attuare perfettamente il concetto di internazionalismo che il comunismo russo invece aveva abbandonato fin dai tempi in cui Stalin estromise a picconate Trotsky, attuando invece un gigantesco nazionalismo al servizio della Grande Russia.

Il terrore come mezzo di auto-sostentamento dei due modelli

Il clima di guerra fredda che iniziò fin dalla fine della guerra mondiale di certo aiutò il consolidarsi dei due modelli, che furono comunque contrastati per una ventina d’anni dai paesi non-allineati, i quali facevano riferimento a leaders popolari e nazionali come l’egiziano Nasser e l’argentino Perón.

A est della cortina di ferro qualunque contatto con il mondo occidentale era vietato o fortemente “sconsigliato” per la difesa dell’utopia sovietica. Qualunque corrente non conforme a quella dominante di volta in volta nel politburo di Mosca era purgata con esecuzioni od omicidi politici, tacciata d’essere “reazionaria” o comunque “nemica del popolo”. Qualunque tentativo di indipendenza dall’influenza moscovita, o qualunque tentativo di riforma della classe politica anche solo verso il socialismo o la socialdemocrazia, era repressa nel sangue, come nei casi ben noti di Praga, Budapest o in Polonia.

Ma anche in Occidente si fece largo uso del terrore per mantenere lo status quo deciso a Jalta. Con il piano Marshall – di fatto – tutti i paesi europei divennero talmente legati alla politica statunitense, tanto da divenirne praticamente schiavi. Il quotidiano timore per l’imminente scoppio del conflitto nucleare costrinse gli Stati occidentali a fare quadrato dietro agli Usa, e ciò impedì di fatto qualunque forma di ricerca (o di ritorno) di una terza via, tanto politica quanto economica.

Non è un caso poi che le nazioni in cui si permise di avere fortissimi partiti comunisti fossero proprio i paesi più pericolosi per l’ottica che voleva l’Europa assoggettata politicamente ed economicamente: tolte la Germania divisa e l’Inghilterra, che si era già demolita con Churchill fin dagli anni ‘30, si permise ai partiti comunisti di divenire potentissimi in Italia, chiave del mediterraneo e a cui si doveva impedire di tornare ad avere una politica da protagonista, e in Francia, dove una tradizione di grandeur e di senso dello Stato poteva intaccare quel senso di internazionalismo anti-Stato. Di fatto questa politica riuscì solo in Italia, in cui il PCI e i suoi alleati riuscirono ad abbattere tanto l’auto-sostentamento militare che quello energetico con la battaglia antinucleare e con la guerra ai sostenitori della politica mediterranea e filo-araba (si pensi al delitto Moro, alla guerra a Craxi e alla collusione tanto di dirigenti che di terroristi rossi con lobbies israeliane come Terracini, Bertoli, Israel il rosso”, ecc.).
Gli stessi Usa, paladini della libertà, usarono l’arma del terrore durante l’epoca McCarthy e soffocarono nel sangue i tentativi di liberazione dalla loro influenza dai paesi dell’America Latina.

Di fatto il clima di continua tensione, certamente aiutato dall’impotenza politica dell’Onu che prevedeva diritto di veto tanto dagli Usa che dai sovietici, non fece altro che aiutare i due grandi colossi a reggersi in piedi nel dominio delle rispettive sfere d’influenza. Tensione che i due colossi fecero ben attenzione a non far mai esplodere e far andare fuori controllo, come dimostrano il sospetto assassinio del presidente Kennedy e il contemporaneo improvviso golpe contro il presidente Kruscev, proprio i due uomini politici che rischiarono di dar inizio alla guerra nell’episodio della crisi missilistica di Cuba.

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venerdì 3 aprile 2009

Le profezie di Tocqueville

«Se in luogo di tutte le varie potenze che impedirono o ritardarono lo slancio della ragione umana, i popoli democratici sostituissero il potere assoluto della maggioranza, il male non avrebbe fatto che cambiare carattere [...] Per me, quando sento la mano del potere appesantirsi sulla mia fronte, poco m’importa di sapere chi mi opprime, e non sono maggiormente disposto a infilare la testa sotto il giogo solo perché un milione di braccia me lo porge»


Così Alexis Henri Charles Clérel de Tocqueville (in foto) scriveva nel 1840 nella sua celeberrima Democrazia in America. Nella sua riflessione politica il saggista francese metteva seriamente in discussione il diritto della maggioranza a governare, determinato inevitabilmente dalla natura stessa del principio democratico. Egli rilevava con amarezza come l’attribuire la sovranità alla volontà caotica e dubbiosa delle masse fosse equivalente all’investire del potere decisionale un’entità incapace in molti casi di esercitare anche solo il potere di opinione. Questa prassi negativa determinava a suo dire una cronica instabilità, la quale favoriva l’insorgere di poteri campanilistici e di interessi politici di nicchia, spesso e volentieri tirannici o settari, e in ogni caso alimentati dalla brama per il benessere, il desiderio di potere personale e il conformismo. E infatti, proprio sulla base di queste convinzioni, l’autore si permetteva di affermare:

«Se cerco di immaginare il dispotismo moderno, vedo una folla smisurata di esseri simili ed eguali che volteggiano su se stessi per procurarsi piccoli e meschini piaceri di cui si pasce la loro anima».

Eppure i padri costituenti, all’indomani della rivoluzione, temevano l’utilizzo stesso della parola “democrazia”, considerata di sapore giacobino (quando non sovversivo). Personaggi come Hamilton e Adams appartenevano a quella corrente, inizialmente di gran lunga maggioritaria, che identificava negli ideali del governo elitario il modello funzionale alla nascente repubblica, e rigettavano la partitocrazia come un sistema nel quale «l’egoistico interesse viene eretto innanzi alle folle come fosse un pilastro della società» . Il modello politico che conseguiva da queste convinzioni era basato su un diritto di voto limitatissimo, includente meno del 2% dei cittadini. Quel numero esiguo di elettori (poco più di trentamila su tre milioni di abitanti) identificati per criterio di censo, avrebbe rappresentato nell’idea della classe dirigente rivoluzionaria quel bacino di uomini “illuminati” capaci di prendersi cura dell’intera nazione in nome del popolo.

All’epoca in cui Tocqueville scrisse il suo saggio, gli Stati Uniti esistevano ormai da più di sessant’anni, e le istituzioni politiche avevano perso il carattere elitario voluto dai padri fondatori. Un sistema partitocratico fortemente radicato e legato ai maggiori cartelli finanziari del paese basava la propria sopravvivenza proprio sulla difesa degli interessi di classe. Un vasto popolo di elettori, legittimati dal principio di sovranità del quale erano investiti, si autoesaltava nella celebrazione del principio democratico, mentre le brigate di cavalleria del generale Jackson portavano i nativi ad un passo dall’estinzione. Sull’argomento Tocqueville si esprimeva in questo modo:

«Gli spagnoli, con mostruosità senza precedenti, coprendosi di onta incancellabile, non sono giunti a sterminare la razza indiana e nemmeno a condividere i loro stessi diritti [...] Gli americani [...] hanno invece raggiunto questo doppio risultato con meravigliosa facilità, tranquillamente, legalmente e filantropicamente [...] mai nessuna più grande atrocità fu compiuta, e quel che è peggio, essa è il prodotto di uno Stato che si celebra come l’Impero della Libertà».

Vi è un’incontestabile verità da rilevare nella riflessione di Tocqueville: i giudizi sugli esiti dell’applicazione del sistema democratico nella sua interpretazione moderna sfiorano il limite della profezia. Non è un caso che l’ordine sociale in vigore presso i paesi che dalla democrazia americana sono più o meno indirettamente influenzati si basi proprio su antivalori quali il consumismo, l’egoismo ed il conformismo, camuffati dietro ad espressioni come “cultura del libero mercato”, “centralità della classe media” o “moderazione politica”. L’Occidente contemporaneo non soltanto ha realizzato le paure del pensatore francese, ma le ha radicalizzate, giungendo a farne veri e propri pilastri del suo modus vivendi.

Mettiamo a fuoco la realtà statunitense, autoreferenziale al punto da considerarsi “matrice” esportabile a qualsiasi latitudine.

LE ELEZIONI PRESIDENZIALI

Le elezioni presidenziali negli USA si basano su un principio che vanta origini antichissime, essendo stato teorizzato dai padri costituenti nel 1787. Secondo tale principio la carica presidenziale non si conquista con la maggioranza popolare, ma con quella dei componenti di uno specifico Collegio Elettorale, composto da 538 “Grandi Elettori” che vengono assegnati Stato per Stato al candidato che vi prevale, anche per un solo voto. Questa caratteristica distorce non poco il principio della sovranità popolare, e ancor di più quello della proporzionalità del potere politico dei cittadini: infatti il sistema di assegnazione dei Grandi Elettori è sbilanciato a favore dei piccoli Stati, nel rispetto di un “compromesso storico” (uno dei tanti che tiene in piedi il fragile sistema politico statunitense) sottoscritto alla fine del ‘700 per rassicurare gli Stati minori di fronte al rischio di una “tirannia dei partners più grandi”. Si verifica così che realtà elettorali ristrette come il piccolo Wyoming posseggano un grande elettore ogni 170.000 abitanti, mentre circoscrizioni più consistenti come quella del Texas ne posseggano uno ogni settecentomila residenti.

La conseguenza strategica di questa prassi è che i candidati alla presidenza circoscrivono la loro azione a determinati “bacini elettorali”, lasciando da parte interi Stati (considerati già acquisiti dall’una o dall’altra parte) o addirittura ignorandoli perché poco incisivi. Ad esempio, nelle elezioni presidenziali del 2004 soltanto in 20 Stati (corrispondenti al 37% della popolazione) furono organizzate campagne elettorali impegnative, lasciando fuori dai giochi le tre circoscrizioni più popolose del paese: California e New York (roccaforti democratiche) e Texas (bacino repubblicano d’eccellenza). È inevitabile quindi che la stragrande maggioranza della popolazione si consideri semplicemente “fuori dai giochi” ed eviti di recarsi a votare, come dimostrano le statistiche riguardanti l’affluenza alle urne (linea gialla):




I dati mostrano chiaramente come nella maggior parte dei casi la partecipazione elettorale superi di poco la metà degli aventi diritto. A conferma della prassi di ignorare gli Stati più popolosi perché relativamente sicuri o ininfluenti ci sono le percentuali di voto di New York (dove usualmente si reca a votare meno della metà degli aventi diritto) e del Nevada (dove la media scende al 40%) nonché le statistiche generali sui votanti (che nel 2008 sono stati 132 milioni su un totale di 212 aventi diritto). A questi dati ne aggiungiamo un altro, fondamentale: lo status sociale dei votanti è in maggioranza individuabile nel ceto medio-alto.
Percentuali di questo tipo vengono interpretate da sedicenti analisti come sintomo di una raggiunta “maturità politica” del popolo americano.

La realtà è ben diversa: la storia delle elezioni presidenziali ci dimostra come il sistema elettorale sopra descritto serva alla classe politica per mettersi al riparo dall’emergere di “terze posizioni” meno legate agli interessi dei potentati economici che sostengono i due partiti principali (Partito Repubblicano e Partito Democratico). L’attribuzione delle prerogative politiche al di fuori di ogni parametro proporzionale garantisce alle forze “moderate” il monopolio della politica, scoraggiando di fatto la nascita e la proliferazione di organizzazioni che possano minare il “bipolarismo perfetto”, e che quindi potrebbero mettere in discussione le basi liberalcapitaliste del sistema. Serve una prova? Negli ultimi decenni dell’800 due formazioni politiche di estrazione non borghese, il Partito Populista (radicato nell’Ovest agricolo ed espressione del ceto contadino) ed il movimento dei “Mugwumps” (alimentato dalle élites aristocratiche meridionali) tentarono di scalzare il predominio dei “moderati”. Nonostante la percentuale di consenso nei confronti di queste organizzazioni raggiungesse in certi casi il 10% (corrispondente a parecchi milioni di voti) sia i Populisti che i Mugwumps non riuscirono mai ad ottenere più di qualche seggio alla Camera dei Rappresentanti, e non riuscirono mai ad avere una presenza stabile al Senato.
Lo stesso sistema elettorale garantisce al duopolio PD-PR il controllo stabile dei loro “territori”, stabilisce entro quali limiti debba svolgersi il confronto fra i due gruppi di potere e preserva l’egemonia moderata da pericolose derive politiche alternative.

In sostanza: due gruppi di potere, sostenuti dai poteri forti dello Stato, dell’economia e della finanza, mantengono l’iniziativa politica escludendo qualsiasi istanza di rinnovamento, appoggiandosi alla classe media (tendenzialmente conservatrice anche quando vota democratico) ed avvalendosi di una legge elettorale che scoraggia il pluralismo reale.

A questo punto non è difficile capire che il popolo americano è tutt’altro che politicamente maturo: ingabbiato in un sistema rigidamente bipolare, esso soffre una cronica crisi di sfiducia verso la classe politica, e si è ormai rassegnato ad una sorta di “pensiero unico” imperante, garantito dall’influenza finanziaria dei suoi fautori e tutelato dall’ordinamento sociale vigente. Immaginiamoci di essere un elettore repubblicano dello Stato di New York: che ci andiamo a fare in cabina elettorale se sappiamo che nella nostra circoscrizione la maggioranza si esprimerà a favore del candidato democratico, e che a prescindere dalla percentuale che otterrà il fronte che cerchiamo di contrastare si prenderà tutto, annullando comunque la nostra rilevanza politica? Tanto vale che ce ne stiamo a casa!

Se estendiamo questo ragionamento ad una buona metà dei cittadini statunitensi, riesce piuttosto facile capire come mai circa cento milioni di americani neanche si preoccupano di iscriversi alle liste elettorali.

Francesco Benedetti (Blocco Studentesco-Firenze)

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