«Se in luogo di tutte le varie potenze che impedirono o ritardarono lo slancio della ragione umana, i popoli democratici sostituissero il potere assoluto della maggioranza, il male non avrebbe fatto che cambiare carattere [...] Per me, quando sento la mano del potere appesantirsi sulla mia fronte, poco m’importa di sapere chi mi opprime, e non sono maggiormente disposto a infilare la testa sotto il giogo solo perché un milione di braccia me lo porge»
Così Alexis Henri Charles Clérel de Tocqueville (in foto) scriveva nel 1840 nella sua celeberrima Democrazia in America. Nella sua riflessione politica il saggista francese metteva seriamente in discussione il diritto della maggioranza a governare, determinato inevitabilmente dalla natura stessa del principio democratico. Egli rilevava con amarezza come l’attribuire la sovranità alla volontà caotica e dubbiosa delle masse fosse equivalente all’investire del potere decisionale un’entità incapace in molti casi di esercitare anche solo il potere di opinione. Questa prassi negativa determinava a suo dire una cronica instabilità, la quale favoriva l’insorgere di poteri campanilistici e di interessi politici di nicchia, spesso e volentieri tirannici o settari, e in ogni caso alimentati dalla brama per il benessere, il desiderio di potere personale e il conformismo. E infatti, proprio sulla base di queste convinzioni, l’autore si permetteva di affermare:
«Se cerco di immaginare il dispotismo moderno, vedo una folla smisurata di esseri simili ed eguali che volteggiano su se stessi per procurarsi piccoli e meschini piaceri di cui si pasce la loro anima».
Eppure i padri costituenti, all’indomani della rivoluzione, temevano l’utilizzo stesso della parola “democrazia”, considerata di sapore giacobino (quando non sovversivo). Personaggi come Hamilton e Adams appartenevano a quella corrente, inizialmente di gran lunga maggioritaria, che identificava negli ideali del governo elitario il modello funzionale alla nascente repubblica, e rigettavano la partitocrazia come un sistema nel quale «l’egoistico interesse viene eretto innanzi alle folle come fosse un pilastro della società» . Il modello politico che conseguiva da queste convinzioni era basato su un diritto di voto limitatissimo, includente meno del 2% dei cittadini. Quel numero esiguo di elettori (poco più di trentamila su tre milioni di abitanti) identificati per criterio di censo, avrebbe rappresentato nell’idea della classe dirigente rivoluzionaria quel bacino di uomini “illuminati” capaci di prendersi cura dell’intera nazione in nome del popolo.
All’epoca in cui Tocqueville scrisse il suo saggio, gli Stati Uniti esistevano ormai da più di sessant’anni, e le istituzioni politiche avevano perso il carattere elitario voluto dai padri fondatori. Un sistema partitocratico fortemente radicato e legato ai maggiori cartelli finanziari del paese basava la propria sopravvivenza proprio sulla difesa degli interessi di classe. Un vasto popolo di elettori, legittimati dal principio di sovranità del quale erano investiti, si autoesaltava nella celebrazione del principio democratico, mentre le brigate di cavalleria del generale Jackson portavano i nativi ad un passo dall’estinzione. Sull’argomento Tocqueville si esprimeva in questo modo:
«Gli spagnoli, con mostruosità senza precedenti, coprendosi di onta incancellabile, non sono giunti a sterminare la razza indiana e nemmeno a condividere i loro stessi diritti [...] Gli americani [...] hanno invece raggiunto questo doppio risultato con meravigliosa facilità, tranquillamente, legalmente e filantropicamente [...] mai nessuna più grande atrocità fu compiuta, e quel che è peggio, essa è il prodotto di uno Stato che si celebra come l’Impero della Libertà».
Vi è un’incontestabile verità da rilevare nella riflessione di Tocqueville: i giudizi sugli esiti dell’applicazione del sistema democratico nella sua interpretazione moderna sfiorano il limite della profezia. Non è un caso che l’ordine sociale in vigore presso i paesi che dalla democrazia americana sono più o meno indirettamente influenzati si basi proprio su antivalori quali il consumismo, l’egoismo ed il conformismo, camuffati dietro ad espressioni come “cultura del libero mercato”, “centralità della classe media” o “moderazione politica”. L’Occidente contemporaneo non soltanto ha realizzato le paure del pensatore francese, ma le ha radicalizzate, giungendo a farne veri e propri pilastri del suo modus vivendi.
Mettiamo a fuoco la realtà statunitense, autoreferenziale al punto da considerarsi “matrice” esportabile a qualsiasi latitudine.
LE ELEZIONI PRESIDENZIALI
Le elezioni presidenziali negli USA si basano su un principio che vanta origini antichissime, essendo stato teorizzato dai padri costituenti nel 1787. Secondo tale principio la carica presidenziale non si conquista con la maggioranza popolare, ma con quella dei componenti di uno specifico Collegio Elettorale, composto da 538 “Grandi Elettori” che vengono assegnati Stato per Stato al candidato che vi prevale, anche per un solo voto. Questa caratteristica distorce non poco il principio della sovranità popolare, e ancor di più quello della proporzionalità del potere politico dei cittadini: infatti il sistema di assegnazione dei Grandi Elettori è sbilanciato a favore dei piccoli Stati, nel rispetto di un “compromesso storico” (uno dei tanti che tiene in piedi il fragile sistema politico statunitense) sottoscritto alla fine del ‘700 per rassicurare gli Stati minori di fronte al rischio di una “tirannia dei partners più grandi”. Si verifica così che realtà elettorali ristrette come il piccolo Wyoming posseggano un grande elettore ogni 170.000 abitanti, mentre circoscrizioni più consistenti come quella del Texas ne posseggano uno ogni settecentomila residenti.
La conseguenza strategica di questa prassi è che i candidati alla presidenza circoscrivono la loro azione a determinati “bacini elettorali”, lasciando da parte interi Stati (considerati già acquisiti dall’una o dall’altra parte) o addirittura ignorandoli perché poco incisivi. Ad esempio, nelle elezioni presidenziali del 2004 soltanto in 20 Stati (corrispondenti al 37% della popolazione) furono organizzate campagne elettorali impegnative, lasciando fuori dai giochi le tre circoscrizioni più popolose del paese: California e New York (roccaforti democratiche) e Texas (bacino repubblicano d’eccellenza). È inevitabile quindi che la stragrande maggioranza della popolazione si consideri semplicemente “fuori dai giochi” ed eviti di recarsi a votare, come dimostrano le statistiche riguardanti l’affluenza alle urne (linea gialla):
I dati mostrano chiaramente come nella maggior parte dei casi la partecipazione elettorale superi di poco la metà degli aventi diritto. A conferma della prassi di ignorare gli Stati più popolosi perché relativamente sicuri o ininfluenti ci sono le percentuali di voto di New York (dove usualmente si reca a votare meno della metà degli aventi diritto) e del Nevada (dove la media scende al 40%) nonché le statistiche generali sui votanti (che nel 2008 sono stati 132 milioni su un totale di 212 aventi diritto). A questi dati ne aggiungiamo un altro, fondamentale: lo status sociale dei votanti è in maggioranza individuabile nel ceto medio-alto.
Percentuali di questo tipo vengono interpretate da sedicenti analisti come sintomo di una raggiunta “maturità politica” del popolo americano.
La realtà è ben diversa: la storia delle elezioni presidenziali ci dimostra come il sistema elettorale sopra descritto serva alla classe politica per mettersi al riparo dall’emergere di “terze posizioni” meno legate agli interessi dei potentati economici che sostengono i due partiti principali (Partito Repubblicano e Partito Democratico). L’attribuzione delle prerogative politiche al di fuori di ogni parametro proporzionale garantisce alle forze “moderate” il monopolio della politica, scoraggiando di fatto la nascita e la proliferazione di organizzazioni che possano minare il “bipolarismo perfetto”, e che quindi potrebbero mettere in discussione le basi liberalcapitaliste del sistema. Serve una prova? Negli ultimi decenni dell’800 due formazioni politiche di estrazione non borghese, il Partito Populista (radicato nell’Ovest agricolo ed espressione del ceto contadino) ed il movimento dei “Mugwumps” (alimentato dalle élites aristocratiche meridionali) tentarono di scalzare il predominio dei “moderati”. Nonostante la percentuale di consenso nei confronti di queste organizzazioni raggiungesse in certi casi il 10% (corrispondente a parecchi milioni di voti) sia i Populisti che i Mugwumps non riuscirono mai ad ottenere più di qualche seggio alla Camera dei Rappresentanti, e non riuscirono mai ad avere una presenza stabile al Senato.
Lo stesso sistema elettorale garantisce al duopolio PD-PR il controllo stabile dei loro “territori”, stabilisce entro quali limiti debba svolgersi il confronto fra i due gruppi di potere e preserva l’egemonia moderata da pericolose derive politiche alternative.
In sostanza: due gruppi di potere, sostenuti dai poteri forti dello Stato, dell’economia e della finanza, mantengono l’iniziativa politica escludendo qualsiasi istanza di rinnovamento, appoggiandosi alla classe media (tendenzialmente conservatrice anche quando vota democratico) ed avvalendosi di una legge elettorale che scoraggia il pluralismo reale.
A questo punto non è difficile capire che il popolo americano è tutt’altro che politicamente maturo: ingabbiato in un sistema rigidamente bipolare, esso soffre una cronica crisi di sfiducia verso la classe politica, e si è ormai rassegnato ad una sorta di “pensiero unico” imperante, garantito dall’influenza finanziaria dei suoi fautori e tutelato dall’ordinamento sociale vigente. Immaginiamoci di essere un elettore repubblicano dello Stato di New York: che ci andiamo a fare in cabina elettorale se sappiamo che nella nostra circoscrizione la maggioranza si esprimerà a favore del candidato democratico, e che a prescindere dalla percentuale che otterrà il fronte che cerchiamo di contrastare si prenderà tutto, annullando comunque la nostra rilevanza politica? Tanto vale che ce ne stiamo a casa!
Se estendiamo questo ragionamento ad una buona metà dei cittadini statunitensi, riesce piuttosto facile capire come mai circa cento milioni di americani neanche si preoccupano di iscriversi alle liste elettorali.
Francesco Benedetti (Blocco Studentesco-Firenze)
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