sabato 27 giugno 2009

Jünger: L’operaio e la mobilitazione totale




L’espressione “mobilitazione totale” (totale Mobilmachung) appare per la prima volta in un omonimo articolo di Jünger del 1930, in cui se ne spiega appieno il significato. Ciò deriva dalla constatazione che la guerra mondiale è stata un tipo totalmente nuovo di guerra: «Alle guerre dei cavalieri, dei re e dei cittadini fanno seguito le guerre dei lavoratori – guerre della cui struttura razionale, e del cui estremo grado di spietatezza già il primo grande confronto del XX secolo ci ha fornito un presagio».

Il passaggio alla pace, dopo la Grande Guerra, non ha coinciso affatto con un ritorno alla vita di prima, ma è stato un processo altamente rivoluzionario, parzialmente soffocato in alcuni Paesi, come in Francia e in Germania, e portato a termine in altri, come in Italia e in Russia, dove la Rivoluzione ha instaurato un nuovo e più organico regime a vocazione totalitaria, ovvero che investe ogni aspetto della vita civile. La mobilitazione alla guerra di tutta la società, dalle masse alle élites, è stata estesa come mobilitazione bellica al lavoro in tempi di pace. Così, anche l’emergenza del Quarto Stato è stata inquadrata in modo ferreo nel corpo vivo della nazione.

Tuttavia, il vero valore della mobilitazione totale, non deriva tanto dal lato tecnico, quanto dalla prontezza e dalla coesione del popolo in questione. La chiave per compiere questo processo sta nell’effetto propagandistico, ovvero saper influire su tutti i componenti della società, al fine di coniugare le forme della civilizzazione e del progresso con la forza elementare e primigenia del popolo.

Jünger accusa esplicitamente la Germania di aver perso la guerra per non essersi saputa mobilitare per intero, ma a posteriori possiamo estendere un’accusa simile alle potenze dell’Asse nella Seconda Guerra Mondiale, dove l’incompletezza di una vera e propria mobilitazione totale, soprattutto nel caso dell’Italia, minò lo sforzo bellico italo-tedesco. Emblematico a questo proposito è invece un conflitto come l’intervento americano in Indocina, in cui il Vietnam del Nord seppe bilanciare l’assoluta inferiorità tecnica con una mobilitazione della popolazione pressoché completa.

L’altro grande polo della questione, è legato al tipo umano necessario e correlato al concetto di
mobilitazione totale. Ne parla il più complesso e provocatorio libro di Jünger, L’operaio: forma e dominio (ed. Guanda, trad. di Q. Principe), già commentato da studiosi d’eccezione quali Delio Cantimori e Julius Evola, e subito fatto oggetto di seminari accademici da parte di Heidegger. Nonostante il suo intento sia di fornire una diagnosi non ideologizzata, non fu immune da polemiche da parte di ampia parte della Destra tedesca, da Spengler ai nazionalsocialisti, ai nazionalbolscevichi. L’operaio è definito in maniera esatta come una Gestalt (forma), un Typus umano, situato in un quadro generale contestuale al cambiamento radicale della società avviato con le rivoluzioni industriali e l’avvento della modernità, parallelamente alla crisi del mondo borghese. Questa fase di transizione ha un carattere essenzialmente anarchico e caotico.

Riguardo quindi alla parte più propriamente descrittiva e positiva, emerge una fenomenologia dell’operaio ben delineata. Per inciso, a scanso di equivoci, vale la pena premettere come non si tratti tanto di un modello propositivo bensì, appunto, descrittivo. Anche il soldato, in questa nuova ottica, viene ricondotto come tipo a un aspetto particolare dell’operaio, che ne annuncia l’affermazione, quello militare. Non a caso, infatti, sono presenti nell’opera diversi riferimenti all’esperienza bellica. Allo stesso modo il concetto di mobilitazione totale, descritto nel saggio omonimo, da un punto di vista sociologico, si presenta come annunziatrice del dominio planetario dell’operaio.

In conclusione, esprimere il lavoro e portare a compimento la tecnica sono i caratteri essenziali di questa forma, e sono contestuali e necessari alla costruzione di un dominio ad ogni livello della realtà: sociale, economico, politico, militare, ma anche artistico e intellettuale. Inoltre, descrivendola in senso collettivo, si può parlare di costruzioni organiche, site in un rapporto organico di partecipazione con il singolo, diversamente dal contrasto insanabile borghese tra massa e individuo. In questo modo, sono poste le basi per una partecipazione totale al dominio planetario, la democrazia del lavoro, dove il lavoro svolge una funzione insieme parificatrice e gerarchizzante, in base alla quantità di lavoro espressa.

Condividi

mercoledì 24 giugno 2009

Ernst Jünger e la Grande Guerra

L’approccio del giovane Jünger alla Grande Guerra fu molto simile a quello di molti altri adolescenti tedeschi dell’epoca, ovvero nelle sue parole, caratterizzato da un entusiasmo totale:

«Avevamo lasciato aule universitarie, banchi di scuola, officine; e poche settimane d’istruzione militare avevano fatto di noi un sol corpo bruciante d’entusiasmo. Cresciuti in tempi di sicurezza e di tranquillità, tutti sentivamo l’irresistibile attrattiva dell’incognito, il fascino dei grandi pericoli. La guerra ci aveva afferrati come un’ubriacatura. Partiti sotto un diluvio di fiori, eravamo ebbri di rose e di sangue. Non il minimo dubbio che la guerra ci avrebbe offerto grandezza, forza, dignità. Essa ci appariva azione da veri uomini: vivaci combattimenti a colpi di fucile su prati fioriti dove il sangue sarebbe sceso come rugiada. “Non v’è al mondo morte più bella…” cantavamo. Lasciare la monotonia della vita sedentaria e prender parte a quella grande prova. Non chiedevamo altro». (In Stahlgewittern, I).

D’altra parte, prima dell’arruolamento, compiuto a 19 anni dopo aver anticipato l’esame di licenza, egli aveva già fatto parte del movimento giovanile dei Wandervögel, e, l’anno precedente, era fuggito da casa per arruolarsi nella Légion Étrangère in Africa, e da lì aveva ancora tentato avventurose evasioni per raggiungere il cuore del Continente Nero.

Questa è, in breve, la cronistoria della sua gloriosa partecipazione alla Grande Guerra: arruolatosi come volontario, dopo un periodo di convalescenza e di addestramento fu riarruolato come alfiere nel Füsilier-Regiment Generalfeldmarschall Prinz Albrecht von Preußen (Hann.) Nr 73 “Gibraltar”. Combatté a Les Eparges (aprile 1915), nella Battaglia della Somme a Guillemont e Combles (agosto 1916), nella Battaglia di Arras (aprile 1917), nella Terza Battaglia di Ypres (luglio e ottobre 1917), nella Battaglia di Cambrai (novembre 1917) e nell’Offensiva di Primavera (marzo 1918), venendo ferito in totale quattordici volte e decorato con lo Eisernes Kreuz 1. Classe (gennaio 1917), con il Kronenorden von Hohenzollern (novembre 1917) e infine la Pour le Mérite, la più alta decorazione prussiana (settembre 1918), di cui fu l’ultimo sopravvissuto tra i portatori, pur essendo stato uno dei pochi ufficiali a riceverla (insieme a Rommel, Richtofen e altri).

Le sue esperienze sono descritte ampiamente nel capolavoro d’esordio In Stahlgewittern (Nelle tempeste d’acciaio), e nelle opere memorialistiche Der Kampf als innerer Erlebnis (La lotta come esperienza interiore), Sturm (Il tenente Sturm), Das Wäldchen 125 (Boschetto 125), Feuer und Blut (Fuoco e sangue) e l’importante raccolta Scritti Politici e di Guerra 1919-1933.

All’indole festosa e all’allegria selvaggia dell’inizio, che formano una certa aria di convivialità, si va poi ad affiancare una sempre crescente consapevolezza. L’esperienza del campo di battaglia forgia il soldato, ma non ne tarpa l’ardimento, bensì questo cambia: dal coraggio proprio dell’inesperienza e dell’entusiasmo, si passa al coraggio conferito dalla lucidità e dall’esperienza. Cruciale è dunque il punto di svolta, così descritto:

«La grande battaglia segnò una svolta nella mia vita interiore, e non soltanto perché ormai consideravo possibile la nostra sconfitta. L’enorme concentrazione di forze, nell’ora fatale in cui s’iniziò la lotta per un lontano avvenire e lo svolgersi così sorprendente e inatteso degli avvenimenti successivi mi misero per la prima volta di fronte all’imponderabile, di fronte a elementi estranei all’uomo e a lui superiori in senso assoluto. Fu un’esperienza completamente diversa da tutte le mie precedenti; era un’iniziazione che non apriva soltanto le incandescenti camere del terrore, ma anche le attraversava» (In Stahlgewittern, XVII).

Dopo di esso, si è passati dall’ardimento cieco al coraggio come dominio di sé e calma serafica, che però deve sfociare nell’azione, per evitare ad ogni costo l’inerzia e la noia. Questa è la chiave che conferisce valore a un guerriero, un valore spirituale che lo pone al di sopra della massa e che lo rende decisivo per la vittoria.

Più tardi, emerge già una concezione più complessa, che considera l’esperienza bellica anche da un punto di vista più ampio. Il racconto Sturm, ad esempio, attraverso la vicenda dell’ufficiale esteta omonimo, sviluppa una duplice e ambigua visione della guerra: quella dello scontro tra due Stati moderni a scapito e a danno degli individui, già ridotti dallo Stato a singoli isolati; e quella dell’esperienza di vita fertile di un nuovo tipo umano, capace forse di ricomporre lo strappo avvenuto tra Stato e individuo, o quanto meno sopravvivervi. In questo senso, il pensiero di Jünger porta alla concezione di mobilitazione totale, che è ciò che richiede la guerra moderna per essere vinta. In quest’ambito, anche al soldato è richiesto di partecipare a questa mobilitazione, divenendo un ingranaggio tra i tanti, e in questo caso Jünger fornisce preziosi consigli ed esperienze per conservare la propria unicità e riconciliare la propria libertà individuale con le esigenze del collettivo.

Condividi

sabato 20 giugno 2009

Militia - di Léon Degrelle



ETSI MORTUUS URIT
(seppur morto, egli arde)



«Possano queste pagine, ultimo fuoco di quel che io fui, ardere ancora un momento, riscaldare ancora un istante le anime possedute dalla passione di donarsi e di credere: di credere malgrado tutto, malgrado la disinvoltura dei corrotti e dei cinici, malgrado il triste gusto amaro che ci lasciano nell’anima il ricordo delle nostre colpe, la coscienza della nostra miseria e l’immenso campo di rovine morali di un mondo che, sicuro di non avere più bisogno di salvezza, da questo trae motivi di gloria, ma deve lo stesso essere salvato. Deve più che mai essere salvato».


Le parole raccolte in questo volume sono parole perdute, scovate per caso e ritrovate da uno dei maggiori scrittori spagnoli del Novecento: Gregorio Maranon. Esse appartengono al cielo, dal cielo sono venute per ispirare il generale Léon Degrelle, per regalare l’ultimo soffio di speranza e forza agli spiriti dei giovani d’Europa. L’Europa, sogno, mito, idea del fondatore di Rex, il vallone in forzato esilio spagnolo che dopo la Seconda Guerra Mondiale non vide più i tramonti della sua terra. Troppo di più è inutile dirvi dell’uomo Degrelle, inutile giudicare le sue gesta, da ovunque le si guardi; ciò che conta, ciò che resta, sono le parole: un canto assoluto, impervio, oltre, per gli uomini e per l’infinito, per chiunque ne sappia riconoscere il valore più puro.

E, come intuì immediatamente Maranon, quest’opera comprende una serie di note spirituali che l’autore scrisse nel corso delle vicende avventurose della propria vita, prima e durante la seconda guerra mondiale. Parole d’un uomo immutevole che colpirono Maranon sin dalla prima e immediata lettura: «Sono di una bellezza impossibile a superare, vibranti di pathos umano». L’opera si divide in sei parti (e in molteplici sottoparti): “I cuori vuoti”, “Fonti di vita”, “L’angoscia degli uomini”, “La gioia degli uomini”, “Il servizio degli uomini”, “Dono totale”.

C’è da perdersi tra tanta bellezza, non potendo e non volendo farvi dono di tutto (perché dovete leggere con i vostri occhi), vi lascio versi e suggestioni sparse per il libro come soffio che v’inebri per pochi istanti e che vi porti a cercare in voi l’energia che qui si emana: «Scrivo senza tremare queste parole che pure mi fanno soffrire. Nell’ora della disfatta di un mondo, c’è bisogno di anime rudi ed elevate come rocce cui s’infrangeranno invano le onde scatenate». (“Intransigenza”).

«Eccomi giunto quasi al termine della mia corsa umana. Io ho provato quasi tutto. Conosciuto tutto. E, soprattutto, sofferto tutto. Abbagliato, ho visto alzarsi i grandi fuochi d’oro della mia giovinezza. Il loro incendio illuminava il mio paese. Le folle facevano danzare intorno a me ondate costellate da migliaia di volti. Il loro ardore, il loro vortice sono esistiti». (“Il fuoco e le ceneri”).

«Coloro che esitano davanti allo sforzo sono coloro la cui anima è ottusa. Un grande ideale dà sempre la forza di dominare il proprio corpo, di soffrire la fatica, la fame, il freddo… la facilità addormenta l’ideale. Niente lo risveglia meglio che la sferza della vita dura: essa ci permette di cogliere le profondità dei doveri da compiere, della missione di cui occorre essere degni. Il resto non conta. La salute non ha alcuna importanza. Non si è sulla terra per mangiare in orario, dormire a tempo opportuno, vivere cent’anni od oltre. Tutto questo è vano e sciocco… l’anima sola conta e deve dominare tutto il resto. Breve o lunga, la vita vale soltanto se noi non avremo da vergognarcene nel momento in cui occorrerà renderla». (“Vita retta”).

«Occorre aver solcato i mari più lontani, aver conosciuto le rosse notti dei Tropici, i fuochi delle canne da zucchero, i canti dei negri, i deserti con le sabbie rosate… per amare pienamente un paese, quello che si vede per primo, con i soli occhi limpidi che si vedono al mondo: gli occhi di fanciullo». (“Il cuore e le pietre”).

«Casa, fortezza e tenerezza… Tutto a poco a poco, assume un volto, man mano che arrivano le fatiche e i dolori comuni, e nascono i figli. I muri hanno racchiuso gli amori e i sogni. I mobili belli o brutti sono stati amici e testimoni. Un profumo sale dolcemente da queste anime confuse, e un raccoglimento, una pace, una certezza – invece delle soste trafelate sui pianerottoli dell’esistenza». (“Il cuore e le pietre”).

«Occorre pensare continuamente al valore della vita. Questo è lo strumento ammirevole postoci nelle mani per forgiare la nostra volontà, elevare la coscienza, edificare un’opera di intelletto e di cuore. La vita non è una forma di tristezza, ma di gioia fatta carne. Gioia di essere utile. Gioia di domare quel che potrebbe macchiarci o sminuirci. Gioia di agire o di donarci. Gioia di amare tutto quel che vibra, spirito e materia, perché tutto, sotto l’impulso di una vita retta, eleva, allegerisce, anziché pesare». (“Il valore della vita”).

«Dovunque si sia, in alto o in basso, uomo o donna, il problema rimane sempre il medesimo: è il donare che rende le anime chiare o torbide». (“Grandezza”).

«Morir vent’anni prima o vent’anni dopo poco importa. Quel che importa è morir bene. Soltanto allora inizia la vita». (“La grande ritirata”).

«Tutti portiamo la nostra croce: occorre portarla con un sorriso d’orgoglio, perché si sappia che siamo più forti della sofferenza, e anche perché coloro che ci feriscono comprendano che le loro frecce ci colpiscono inutilmente. Che importa soffrire, se vi è stata nella nostra vita qualche ora immortale? Quanto meno, si è vissuto!». (“La nostra croce”).

«Ma sono appunto questi gli obbiettivi della vera rivoluzione: recare luce a questi spiriti ghermiti dalle ombre; aiutare a rialzarsi queste anime che stanno cadendo; rinsegnare ad aspirare a cose diverse da quelle corporali; dominare l’imperfetto, elevarsi verso il meglio, qual pur siano gli sforzi». (“Flottiglia d’anime”).

«Avrai vinto. Essere ucciso dall’ultimo sforzo non avrà più alcuna importanza, se gli altri saranno là, sul ciglio dell’immensità pura della redenzione. In fondo, tu sei tanto felice. Tu sai che là risiede la sola felicità. Canta! Tuoni la tua voce nelle valli! Rimpianti e lacrime? Ma è la parte più mediocre di te che ha sofferto: quella che hai appena respinto! Il più duro è superato. Resisti. Stringi i denti. Fa tacere il cuore.
Pensa soltanto alla vetta! Sali!». (“Vette”).

Questo libro-poesia-testamento vide la luce per la prima volta a Parigi nel 1964 portando come titolo Les Ames qui Brulent. I frammenti che ho selezionato sono esemplificativi del messaggio che Léon Degrelle volle donar di sé, alle giovani generazioni soprattutto, che poco sapevano e molto ignoravano degli eventi cruciali del secolo scorso, che ancora sognavano e a loro modo lottavano per un mondo diverso. Un invito a non perdersi, nonostante le difficoltà, le pressioni della vita e i lacci del potere. Un fiero canto dell’esistenza, un monito ad esserci sempre e a restare sempre presenti.
E Léon ci fu sempre, per i suoi fratelli, compatrioti e non, per un’idea che guardava oltre le alleanze e gli equilibri di quel tempo di guerra, per un’Europa pensata libera da vincoli o egemonie, di qualsiasi tipo e di qualsiasi colore.
Certo scelse, scelse un’alleanza sconfitta; la scelse in buona fede e pensando fosse l’unica possibile per emanciparsi dalla barbarie borghese e cialtrona che governava stancamente il suo continente e la sua Patria, che andava alleandosi con quella ancor più misera e ignorante d’oltreoceano (gli Usa). Né russi, né americani, dunque, ad insegnarci la giusta via; né l’abominio comunista, né il liberticida liberismo americano, quasi presentendo l’egemonia prossima dei due blocchi sull’occidente e sull’intero pianeta. Come dargli torto a posteriori? I risultati sono sotto gli occhi di tutti, anche di coloro che se li sono bendati per lungo tempo. Ciò che resta, comunque, nel tempo e nonostante il tempo, nella storia e nonostante la storia, sono le sue parole a rimarcar nobili gesta.
Si condividano o meno, le parole del Generale Degrelle arrivano direttamente dall’Alto e vanno verso l’Alto, per ritornare a noi come eco, vibrante invito a non arrendersi mai, puri della giovinezza del fanciullo: perché si possa guardarlo in faccia, questo mostro, questa piovra onnivora del nostro tempo; tempo sopito, ahimè, tempo nascosto, mimetico e indeciso, lontano dalla rivolta e dal suo monito: «Che il destino ci trovi sempre forti e degni».

BREVI NOTE

Léon Degrelle nasce nel 1906 nelle Ardenne belghe. Nel 1935 è capo del movimento nazional-popolare “Rex”. Partito volontario per il fronte orientale nel 1941, agli inizi del 1945 diviene Comandante della 28° SS Freiwillige Panzergrenadier Division “Wallonie”. È il solo straniero decorato col Cavalierato della Croce di Ferro con foglie di quercia. Dal 1945 sino al 1994, anno della sua morte, è vissuto esule in Spagna.


Articolo comparso originariamente su Lankelot, a firma Léon (che ringraziamo vivamente!)

Condividi

martedì 16 giugno 2009

Il cantore del mito nuovo: Giorgio Locchi



… suonava così antico, eppure era così nuovo…

(Richard Wagner, I Maestri Cantori di Norimberga)


di Adriano Scianca (2005)


E per ultima venne la “globalizzazione”. In duemila anni di pensiero unico egualitario ci siamo sorbiti: “l’inevitabile” venuta dei tempi messianici, “l’inevitabile” avanzata del progresso tecnico, economico e morale, “l’inevitabile” avvento della società senza classi, “l’inevitabile” trionfo del dominio americano, “l’inevitabile” instaurazione della società multirazziale. Ed ora, appunto, è la “globalizzazione” ad imporsi come “inevitabile”. Il cammino è già tracciato, nulla possiamo contro il Senso della Storia. Certo, l’ingresso trionfale nell’Eden finale va continuamente procrastinato, giacché sempre emergono popoli impertinenti che non apprezzano gli hegelismi in salsa yankee di cui sopra. Ma prima o poi – ce lo dice Bush, ce lo dicono i pacifisti, ce lo dicono gli scienziati, i filosofi e i preti – la storia finirà. È sicuro. Sicuro?


Fine della storia?


È vero: la storia può effettivamente finire. È del tutto plausibile che nel futuro che ci aspetta si possa assistere al triste spettacolo dell’“ultimo uomo” che saltella invitto e trionfante. Ma questo è solo uno dei possibili esiti del divenire storico. L’altro, anch’esso sempre possibile, va nella direzione opposta, verso una rigenerazione della storia attraverso un nuovo mito. Parola di Giorgio Locchi. Romano, laureato in giurisprudenza, corrispondente da Parigi de “Il Tempo” per più di trent’anni, animatore della prima e più geniale Nouvelle Droite, fine conoscitore della filosofia tedesca, della musica classica, della nuova fisica, Locchi ha rappresentato una delle menti più brillanti ed originali del pensiero anti-egualitario successivo alla sconfitta militare europea del ‘45.

Molti giovani promesse del pensiero anticonformista degli anni ‘70 conservano ancora oggi il nitido ricordo delle visite da “Meister Locchi” presso la sua casa di Saint-Cloud, a Parigi, «casa dove molti giovani francesi, italiani e tedeschi si recavano più in pellegrinaggio che in visita; ma simulando indifferenza, nella speranza che Locchi […] fosse come Zarathustra dell’umore giusto per vaticinare anziché, come disgraziatamente faceva più spesso, parlare del tempo o del suo cane o di attualità irrilevanti»1. Le ragioni di una tale venerazione non possono sfuggire anche a chi l’autore romano lo abbia conosciuto solo tramite i suoi testi. Leggere Locchi, infatti, è un’“esperienza di verità”: aprendo il suo Wagner, Nietzsche e il mito sovrumanista – un «grande libro», «uno dei testi classici dell’ermeneutica wagneriana», come lo definisce Paolo Isotta sul… “Corriere della Sera”!2 – ci si trova di fronte al disvelamento (ἀλήθεια, a-letheia) di un sapere originale ed originario. Disvelamento che non può mai essere totale.

L’aristocratica prosa locchiana è infatti ermetica ed allusiva. Il lettore ne è conquistato, nel tentativo di sbirciare tra le righe e cogliere un sapere ulteriore che, se ne è certi, l’autore già possiede ma dispensa con parsimonia3. Ad aumentare il fascino dell’opera di Locchi, poi, contribuisce anche la vastità dei riferimenti e la diversità degli ambiti toccati: dalle profonde dissertazioni filosofiche alle ampie parentesi musicologiche, dai riferimenti di storia delle religioni alle ardite digressioni sulla fisica e la biologia contemporanea. Chi è abituato alle atmosfere asfittiche di certo neofascismo onanistico o ai tic degli evolomani di stretta osservanza ne è subito rapito.


La libertà storica


Il punto di partenza del pensiero locchiano è il rifiuto di ogni determinismo storico, ovvero l’idea che «la storia – il divenire storico dell’uomo – scaturisca dalla storicità stessa dell’uomo, cioè dalla libertà storica dell’uomo e dall’esercizio sempre rinnovato che di questa libertà storica, di generazione in generazione, fanno personalità umane differenti»4. È il rifiuto della “logica dell’inevitabile”. La storia è sempre aperta e determinabile dalla volontà umana. Due sono, a livello macro-storico, gli esiti possibili, i poli opposti verso cui indirizzare il divenire: la tendenza egualitarista e la tendenza sovrumanista, esemplificate da Nietzsche con i due mitemi del trionfo dell’ultimo uomo e dell’avvento del superuomo (o, se si preferisce, dell’“oltreuomo”, come è stato rinominato da Vattimo nell’intento illusorio di depotenziarne la carica rivoluzionaria). Il filosofo della volontà di potenza afferma la libertà storica dell’uomo tramite l’annuncio della morte di Dio: chi ha acquisito la consapevolezza che “Dio è morto” «non crede più di essere governato da una legge storica che lo trascende e lo conduce, con l’umanità intera, verso un fine – ed una fine – della storia predeterminato ab aeterno o a principio; bensì sa ormai che è l’uomo stesso, in ogni “presente” della storia, a stabilire conflittualmente la legge con cui determinare l’avvenire dell’umanità»5.

Tutto ciò porta Locchi ad individuare una vera e propria “teoria aperta della storia”. Il futuro, in questa prospettiva, non è mai stabilito una volta per tutte, rimane costantemente da decidere. Non solo: anche il passato non è chiuso. Il passato, infatti, non è ciò che è avvenuto una volta per tutte, un mero dato inerte che l’uomo può studiare come fosse un puro oggetto. Esso, al contrario, è interpretazione eternamente cangiante. Il tempo storico, lo stiamo vedendo a poco a poco, assume un carattere tridimensionale, sferico, essendo caratterizzato da interpretazioni del passato, impegni nell’attualità e progetti per l’avvenire eternamente in movimento. L’origine mitica finisce per proiettarsi nel futuro, in funzione eversiva nei confronti dell’attualità. Le diverse prospettive che ne fuoriescono finiscono per scontrarsi dando vita al conflitto epocale.


Il conflitto epocale


Il “conflitto epocale” è dato dallo scontro di due tendenze antagoniste. Si è già detto quale siano le tendenze della nostra epoca: egualitarismo e sovrumanismo. Ogni tendenza attraversa tre fasi: quella mitica (in cui sorge una nuova visione del mondo in modo ancora istintuale, come sentimento del mondo non razionalizzato e quindi come unità dei contrari), quella ideologica (in cui la tendenza, affermandosi storicamente, comincia a riflettere su se stessa e quindi si divide in differenti ideologie apparentemente contrapposte tra loro) e quella autocritica o sintetica (in cui la tendenza prende atto della sua divisione ideologica e cerca di ricreare artificialmente la propria unità originaria). E se l’egualitarismo (oggi in fase “sintetica”) è la tendenza storica dominante da duemila anni, la prima espressione “mitica” del sovrumanismo va ricercata nei movimenti fascisti europei.

Il fascismo, per Locchi, non può essere compreso che alla luce della “predicazione sovrumanista” di Nietzsche e Wagner6 e della “volgarizzazione” di tali tesi ad opera degli intellettuali della Rivoluzione Conservatrice (che, quindi, cessa di essere un’entità “innocente”, astrattamente separata dalle sue realizzazioni pratiche, come vorrebbe certo neodestrismo debole). Fascismo come espressione politica del Nuovo Mito comparso nell’ottocento da qualche parte tra Bayreuth e Sils Maria, quindi. Un qualcosa di nuovo, dunque. Ma, wagnerianamente, anche un qualcosa di antico.

Il fascismo, infatti, rappresenta anche la piena assunzione del “residuopagano che il cristianesimo non è riuscito a cancellare e che è sopravvissuto nell’inconscio collettivo europeo. Un fenomeno rivoluzionario, insomma, che si richiama ad un passato quanto più possibile ancestrale ed arcaico, proiettandolo nel futuro per sovvertire il presente. Lo scopo, nella lunga durata, è quello di far «regredire oltre la soglia memoriale» la Weltanschauung cristiana, versando significati nuovi nei significanti vecchi di matrice biblica, così come originariamente il cristianesimo “falsificò” i termini pagani per veicolare la propria visione del mondo in un linguaggio che non risultasse incomprensibile alle genti europee. È il progetto che il Parsifal wagneriano esprime con la formula «redimere il redentore»7.


Il male americano


Ma il primo tentativo di agire concretamente nella storia da parte della tendenza sovrumanista, come sappiamo, è sfociato nella sconfitta militare europea del 1945. Una sconfitta che ha posto il vecchio continente tra le fauci della tenaglia costruita a Yalta. In quel periodo, è bene ricordarlo, troppi eredi del mondo uscito perdente dal secondo conflitto mondiale pensarono di rinverdire la loro militanza sostenendo uno dei due bracci della tenaglia a scapito dell’altro, vagheggiando di un Occidente “bianco” che altro non poteva essere se non la “terra della sera” (Abend-land) in cui veder tramontare ogni speranza di rinascita europea. Scelsero, quei “fascisti” vecchi o nuovi, la tattica del “male minore”. Che, notoriamente, non è altro che la tattica dell’“utile idiota” vista… dall’utile idiota.

In questo contesto, sarà proprio Locchi (non da solo, né per primo: si pensi solo a Jean Thiriart) a denunciare le insidie del “male americano”. E Il male americano è anche il titolo di un libro tratto da un articolo comparso su Nouvelle Ecole nel 1975 a firma Robert De Herte ed Hans-Jürgen Nigra, pseudonimi rispettivamente di Alain de Benoist e dello stesso Locchi. Tale testo contribuirà in maniera decisiva a depurare il corpus dottrinale della Nuova Destra di ogni suggestione occidentalista. Del resto, i due autori cortocircuiteranno la logica dei blocchi citando una frase di Jean Cau: «Nell’ordine dei colonialismi, è prima di tutto non essendo americani oggi che non saremo russi domani». C’è una grande saggezza in tutto ciò. Ne Il male americano l’America è descritta più nella sua ideologia implicita, nel suo way of life, che nella sua prassi criminale. Un’ideologia fatta di moralismo puritano, di disprezzo per ogni idea di politica, tradizione o autorità, di mentalità utilitarista, di conformismo e mancanza di stile, di odio freudiano contro l’Europa. Ciò che soprattutto interessa agli autori è l’influenza della Bibbia nella mentalità collettiva statunitense, senza la quale sarebbero inconcepibili i deliri neocons dell’attuale gestione. Ed inoltre – il ricordo del ‘68 è ancora caldo – non manca la ripetuta sottolineatura della sostanziale convergenza tra la contestazione sinistrorsa ed i miti di oltre-Atlantico. New York come capitale del neo-marxismo: ce n’è abbastanza per distinguere il testo di Locchi/De Benoist dalle denunce “progressiste” dei vari Noam Chomsky (che pure, beninteso, hanno anch’esse la loro funzione).


La terra dei figli


Ma “il male americano” è soprattutto un male dell’Europa. Oggi che la Guerra Fredda è finita e all’ordine di Yalta è subentrato il feroce solipsismo armato di uno pseudo-impero fanatico e usuraio, ce ne accorgiamo più che mai. L’Europa: il grande malato della storia contemporanea. Ma anche un’idea-forza, un mito, un ripiego sulle origini che è progetto d’avvenire, come vuole la logica del tempo sferico.





In questo senso, i riferimenti all’avventura indoeuropea o all’Imperium romano, alle poleis greche piuttosto che al medioevo ghibellino servono come materiale grezzo da cui forgiare qualcosa di nuovo, qualcosa che non si è mai visto. «Se si vuol parlare d’Europa, progettare una Europa, bisogna pensare all’Europa come a qualcosa che ancora non è mai stato, qualcosa il cui senso e la cui identità restano da inventare. L’Europa non è stata e non può essere una “patria”, una “terra dei padri”; essa soltanto può essere progettata, per dirla con Nietzsche, come “terra dei figli”»8. Se nostalgia dev’esserci, allora che sia “nostalgia dell’avvenire”, come nello (stranamente felice) slogan missino di qualche tempo fa. Questo mondo che crede nella fine della storia sta forse assistendo semplicemente alla fine della propria storia. Per il resto, nulla è scritto. Sprofonderemo anche noi fra le rovine putride di questa decadenza al neon? Oppure avremo la forza di forgiare il nostro destino attraverso l’istituzione di un “nuovo inizio”? A decidere sarà solo la saldezza della nostra fedeltà, la profondità della nostra azione, la tenacia della nostra volontà.


Note


(1) Stefano Vaj, Introduzione a Giorgio Locchi, Espressione e repressione del principio sovrumanista. Tra gli intellettuali influenzati da Locchi ricordiamo, oltre allo stesso Vaj, tutto il nucleo fondante della Novelle Droite anni ‘70/80, da De Benoist a Faye, Steukers, Vial, Krebs, ma anche Gennaro Malgieri ed Annalisa Terranova, oggi in AN. Spunti locchiani emergono anche in tempi recenti in Giovanni Damiano e Francesco Boco. Non possiamo non citare, inoltre, Paolo Isotta, critico musicale del “Corriere della Sera” (!), cui Maurizio Cabona riuscì a far redigere un entusiastico saggio introduttivo al libro su Nietzsche e Wagner e che anche ultimamente (vedi nota successiva) è tornato a citare Locchi proprio sulle colonne del maggiore quotidiano italiano.

(2) Paolo Isotta, “La Rivoluzione di Wagner”, ne “Il Corriere della Sera” del 04/04/2005.

(3) Va detto, inoltre, che tra le carte lasciate da Locchi si trova diverso materiale inedito, tra cui un saggio su Martin Heidegger probabilmente e sfortunatamente destinato a non vedere mai la luce.

(4) Da Wagner, Nietzsche e il mito sovrumanista.

(5) Ibidem.

(6) Grande merito di Locchi è del resto il fatto stesso di aver riscoperto le potenzialità rivoluzionarie dell’opera wagneriana in un ambiente che continuava a pensare al compositore tedesco nell’ottica della duplice “scomunica” nietzschana ed evoliana.

(7) Gli indoeuropei, la filosofia greca, Nietzsche, la Konservative Revolution, il fascismo, l’Europa: il lettore attento avrà già scorto, dietro a simili riferimenti, l’ombra possente di Adriano Romualdi. Eppure, incredibilmente, Locchi sviluppò il suo pensiero del tutto autonomamente da Romualdi. Anzi, sarà solo grazie ad alcuni giovani italiani recatisi da lui in visita a Parigi che il filosofo conoscerà l’opera del giovane pensatore morto prematuramente. Senza mancare di sottolineare l’oggettiva convergenza di vedute. Per gli amanti della rete (e i poliglotti), segnaliamo la presenza, in Internet, di un testo in spagnolo (La esencia del fascismo como fenómeno europeo. Conferencia-Homenaje a Adriano Romualdi) che riproduce un discorso di Locchi pronunciato proprio in onore del compianto autore di Julius Evola: l’uomo e l’opera. Ignoriamo le circostanze cui far risalire tale discorso.

(8) Da L’Europa: non è eredità ma missione futura.

Condividi

venerdì 5 giugno 2009

Giovani e Politica: A chi appartiene il domani? (Adinolfi-Morucci)



L’AVGVSTO oggi vuole offrire un arricchimento culturale a tutti i giovani, di qualsiasi colore politico, che fanno o si interessano di politica. Attraverso la testimonianza di due personaggi “scomodi”, che ad essa hanno dedicato la vita. Con l’ambizione di contribuire all’abbattimento degli steccati ideologici e degli inutili odi di parte, che non fanno altro che rafforzare il consenso della “casta” che ci governa. Chiunque abbia idee e coraggio raccolga la sfida!


Giovani e Politica: A chi appartiene il domani?


Sia Adinolfi che Morucci ignoravano le risposte dell’altro e le hanno lette solo quando sono state pubblicate sul blog.


Come definirebbe a larghi tratti il mondo che ci circonda?


Morucci: Sull’orlo dell’abisso. Un punto ottimo per cercare nuove strade. Se l’abisso è il Nulla da cui siamo sempre fuggiti inventandoci mille storie, ora quelle storie sono finite. Tanto vale buttarsi. Anche se abbiamo tutti paura come il Sundance Kid meglio affrontarla una volta per tutte. Senza inventarci una qualche nuova ri-velazione. Il velo va tolto. Qualsiasi cosa ci sia dietro.

Adinolfi: La società europea vive un periodo di profonda trasformazione, processo che i Greci chiamavano crisis. Ne uscirà sicuramente in qualche modo, ma al momento c’è una convergenza di fattori che attestano una chiara predominanza di patologie. Ne elenco alcuni tra i principali: eccesso di ricchezza e di nutrimento; cultura viziata, individualistica, consumatrice, infarcita dal reclamo indefesso di pretesi diritti che ci sarebbero dovuti; ipnosi permanente di quella che venne definita “società dello spettacolo” ma che si è intanto trasformata in “spettacolo della società”; disgregazione delle relazioni comunicazionali tra la gente; divaricazione accentuata tra fasce sociali; invecchiamento biologico; sterilità demografica; nevrosi ideologica che si rispecchia tanto nei riferimenti culturali quanto nel modo di vivere la religione, al tempo stesso sempre più biblico e americano; disperazione intesa nel senso di mancanza di sogno e di speranza.
Non ha radici né assi portanti: è la schiuma di un’onda che attende il riflusso.
Esistono però fattori promettenti; la modifica chiara e netta dei rapporti di forza internazionali – dovuta al declino della Superpotenza americana che da sempre incarna la decadenza e l’incoltura – sta aprendo prospettive geopolitiche e culturali nuove. Queste prospettive possono risultare foriere di rinascenze per l’afflusso di sangue barbaro e per la realizzazione di nuovi equilibri di potenza (in ambo i casi penso all’est del Continente).
L’imbarbarimento culturale, poi, sta anche producendo sani anticorpi di diffidenza verso le ideologie, verso i professorini della morale e del politicamente corretto.
L’unione di queste componenti, se accompagnata da una rinata fierezza identitaria e imperiale (che è l’opposto d’imperialistica) può lasciar bene sperare.

Di chi e di cosa è figlio? Quali sono le sue radici e i suoi assi portanti?

Morucci: Dall’inizio o da un po’ più in là? Provo a dire in breve come la vedo. Viene dal fuoco di Prometeo, incautamente dato agli uomini, che non sarebbero stati in grado di dominarlo. Dicevano gli Dèi. Poi però il Dio della Bibbia degli ebrei ha assegnato a quegli stessi uomini il dominio sulla Terra, pesci uccelli e tutto il creato. Tagliamo un po’ e arriviamo al punto in cui il fuoco ha finalmente partorito. Vapore, pressione, movimento meccanico. È la Rivoluzione industriale. Ora c’erano gli strumenti per realizzare al meglio quel dominio. Ma vengono da un capitale, cioè denaro investito per trarne profitto attraverso la creazione di merci. Se non c’è profitto non è capitale, e senza capitale non c’è produzione. È un meccanismo che, in quanto tale, non può avere un’etica. Deve travolgere ogni ostacolo, piegare ogni forza contraria. Umana o anche divina. Quel vapore ha sprigionato una violenza inaudita. Non umana.

Dice il mio maestro Mario Tronti: «La grandezza del capitalismo è che su questi eventi terribili per l’uomo ha costruito il progresso della società umana. La miseria del capitalismo è che su questo progresso sociale ha impiantato la forma più perfetta di dominio totale sull’essere umano, il potere liberamente accettato».

Adinolfi: Di chi è figlia la società che attraversa questa crisis? Potremmo dire che lo è della piovra multinazionale, quella che i vincitori della Seconda Guerra Mondiale hanno messo alla gestione economica, finanziaria, criminale e culturale del mondo “decolonizzato”, ma sarebbe insufficiente. Essa è nipote delle ideologie teologiche, oligarchiche e razzistiche fondate su concetti come “Terra Promessa” o “Popolo eletto” alimentate da titanismi uniformanti che sono eredi diretti del loro genitore guelfo. Ma soprattutto direi di cosa è orfana: è orfana del padre perché si è voluto uccidere questa figura, e non solo questa società è orfana ma è una transgender castrata perché da tempo immemore vive di un incantesimo svirilizzante. Ma gli incantesimi hanno sempre una fine.

Come si è avvicinato alla politica? Più per una fascinazione o dopo una meditata analisi?

Adinolfi: Sono stato attratto sin da piccolo dalla politica, intesa come avventura rivoluzionaria; seguivo da piccolissimo Castro, Lumumba, Ciombé, Benbella, L’Oas, De Gaulle, i mercenari in Africa, l’epopea tragica dei Watussi. Inoltre ero in sintonia con la generazione del rock e del beat, ero fanatico dei Beatles e affascinato dall’On the Road. Passai alla politica attiva a quattordici anni, per il Sessantotto.

Morucci: Non erano quelli anni in cui si faceva alcunché per analisi. Eravamo troppo compressi, troppo inesistenti, inconsiderati. E avevamo ormai il rock e il rhythm and Blues nel sangue. Ma comunque, francamente, mi deprimerei a pensare che qualcuno si butti nella mischia dopo ‘meditata analisi’. Il problema sarebbe perché ci si butta. Il fascino, dici. Sì anche il fascino. Dell’esserci, dell’esistere ma anche dell’uscire dal branco, del non accettare supinamente un destino già segnato. Dell’essere diverso, speciale, insomma. E non è ancora politica, viene prima. È carattere, è forse l’essere uomini: impossibilitati a restare fermi perché non hanno una nicchia ecologica: fare vedere cercare. C’è sempre qualcosa di meglio da scoprire. Quindi si è insofferenti verso chi vuole tenere fermi, chi dice che quello in cui sei è il migliore dei mondi possibili. Poi vengono le parole dell’azione, la Politica. E la Politica è, da più o meno un paio di secoli, impedire che il destino annunciato dalla infinita, quanto feroce, potenza sprigionata da quel vapore si realizzasse a pieno. Dirottarla, mitigarla, umanizzarla, accelerarla o rallentarla. Su questo ci si è sempre scontrati.

L’idea che si ha comunemente oggi della gioventù degli Anni di Piombo è quella di una generazione che ha fallito, rovinatasi in una triste spirale di violenza. Per Lei quella gioventù ha fallito? Se sì, perché?

Morucci: Se è per questo i benpensanti ritengono che sia stata una iattura anche il ‘68.
Pochi hanno capito che è stata l’ultima possibilità offerta a questa società di ripensare se stessa. Confondono ciò che è stato poi, o ciò verso cui è stato dirottato, con ciò che rappresentava. Non era un movimento politico. Come movimento politico è stato una tragedia. Una riproposizione modernizzata, nei migliori dei casi, delle anticaglie del movimento comunista: l’economia politica, i ‘bisogni delle masse’, il salario, l’avanguardia e tutti questi ferri vecchi. Gli operai della FIAT scuotevano la fabbrica in corteo brandendo cartelli con su scritto ‘W la Fica’. Erano più avanti di noi, lì con il Capitale non ci si arrivava. Ma prima, prima della Politica anche noi eravamo lì. La vita, la gioia, la ricchezza di sé, non del frigorifero Zoppas. Antimaterialista, antieconomicista, antiautoritario. Per la libertà dal dominio degli oggetti, per la jeffersoniana ricerca delle felicità ora che era possibile il benessere nella ‘società opulenta’. Noi da lì venivamo, poi la Politica come ideologia ci ha persi. E chi di noi è arrivato alla lotta armata ha fallito perché è andato fino al fondo di una strada che andava indietro anziché avanti. Gli altri, quelli delle seconda ondata scaturita dal movimento del ‘77, hanno seguito un’altra strada. Ma di questo, che è la parte che più dovrebbe interessarvi, andrebbe fatto un discorso a parte. Era quella una ripresa del ‘68, Libertà non Potere, per dirla in due parole, ma agita da un diverso soggetto. Direttamente coinvolto. Più concreto/creativo e molto più incazzato.

Adinolfi: Ci è stata consegnata un’immagine falsata di allora e lo si è fatto perché in troppi hanno voluto nascondere anche a se stessi le proprie responsabilità. Tra giornalisti, scrittori, uomini di spettacolo, centinaia e centinaia di uomini e di donne illustri spinsero chiaramente ed esplicitamente la gioventù a impugnare le armi; e poi quei miserabili apprendisti stregoni rigettarono la paternità di quello che avevano messo al mondo.
La lotta armata non fu, come si vorrebbe far credere oggi, il frutto di una minoranza paranoica e delirante; tutta una propaganda letteraria, cinematografica e televisiva incentrata sul “tirannicidio”, sul dovere di rivolta e sul modello partigiano dell’azione nell’ombra e del colpo alle spalle costruì l’humus per la lotta armata; la stessa lotta armata in favore della quale attori e uomini di cultura pubblicarono addirittura un manifesto. Purtroppo allora i partigiani erano ancora attivi e nel fiore degli anni e il loro modello fu così ripreso con i risultati che tutti noi conosciamo. Che si poteva pretendere, del resto, da un’Italia il cui Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, decorava di medaglia d’oro quel Bentivegna autore della strage di via Rasella che causò le Fosse Ardeatine? Il terrorismo è stato istigato e “nobilitato” da decenni di partigianeria istituzionalizzata.
Ci si scorda poi sempre di dire che la lotta armata fu sì l’effetto di una paranoia e di un’influenza culturale criminale ma anche quello di una disperazione.
La disperazione si spiega nel grande equivoco del ‘68. Si ritiene spesso, sbagliando, e lo si ritenne sbagliando anche allora, che il ‘68 sia stato l’inizio di un processo rivoluzionario quando in realtà segnò la fine di una solare, ridente, positiva, rivolta generazionale iniziata dieci anni prima nel filone del rock: una rivolta composita e piena di ogni genere di componenti. Quando cercò di politicizzarsi essa fallì. Lo ha spiegato bene Cohn Béndit, il leader del Sessantotto francese; vent’anni dopo affermò: «Sapevamo perfettamente contro cosa ci battevamo ma non sapevamo perché, e ricorremmo ai modelli già pronti che ci sembravano alternativi, ma che erano inefficaci e perdenti».
La forza organizzativa, quasi militare, delle opposizioni di sinistra finì così coll’irrigimentare la rivolta e con il lottizzarla; la spinse in chiesette in cui si esaurì e si abbrutì. La speranza divenne cinismo per alcuni (che oggi hanno fatto carriera soprattutto nei media) e disperazione per altri che passarono chi all’eroina chi alla lotta armata.
Ma non fu quella generazione a fallire, essa fu, semmai, la testimone attiva e tragica di un fallimento che affonda nella nostra storia ad almeno tre decenni prima della lotta armata.
In Italia, unico tra i paesi sviluppati, abbiamo patito dal 1945 in poi una classe dirigente che non ha mai amato il suo popolo e la sua terra e che ha sempre dato esempi pessimi e giocato allo sfascio. Quella classe dirigente, così come faceva Saturno con i suoi figli, fagocitò anche quella gioventù ma, benché vittoriosa, fallita e fallimentare fu proprio essa.
Dobbiamo poi tener conto di una cosa; si parla sempre del terrorismo e della lotta armata perché la tragedia, il dramma e il sangue fanno spettacolo. Ma quella generazione, sotto ogni bandiera, produsse anche tante cose diverse come il sostegno reale a fasce disadattate quali i senza tetto o la gente di borgata ed espresse laboratori politici e culturali anche importanti e interessanti, oltre a produrre una serie infinita di scelte esistenziali notevoli e fuori dal gregge. Ma nello “spettacolo della politica” queste cose contano poco, il sangue fa più cassetta.

Per un giovane che senso ha avvicinarsi alla politica oggi? Come e quale sarebbe un’azione politica in grado di cambiare realmente le cose?

Morucci: Qui mi state chiedendo un po’ troppo. E poi io sono fuori dall’azione diretta. Lavoro e penso sui retroscena, sull’origine delle cose. Presa da qui posso dire che oggi potrebbe avere più senso di allora. Perché oggi quei percorsi che si mangiavano la coda sono stati bruciati dalla nostra esperienza. Oggi sarebbe forse possibile pensare alla politica non come progetto palingenetico, ma come attività concreta di cittadinanza. Solo partendo dalla concretezza, dallo scambio diretto all’interno di una sovranità popolare determinata localmente, può essere possibile fissare e rinsaldare un ordine di priorità in grado di dare un altro senso alla nostra presenza sulla terra. Finora il senso è stato dato dall’Economia come risposta al bisogno. Tutti gli scontri, tutte le apparenti palingenesi in contrasto tra loro, si sono mosse entro questi confini. Cioè sui modi e tempi di quella risposta. Oggi che l’Economia sta regredendo con ferocia, tenendo a freno la capacità produttiva e la diffusione della tecnologia per mantenere il profitto, siamo al punto in cui la si può superare. Anzi dobbiamo. Non ci è più utile. Se prima ci spingeva oggi ci frena. È il momento in cui è possibile darsi nuove priorità. Ma è ovviamente un trauma. Dobbiamo uscire dal conosciuto, dalla sicurezza che dà un sistema di vita – di riferimenti identità valore di sé – comunque consolidato per affrontare l’ignoto. L’abisso di cui alla prima risposta.

Adinolfi: Il discorso sarebbe lungo e complesso. Per farla breve diciamo che oggi è improponibile (ma forse lo era anche quarant’anni fa) una soluzione immediata e diretta.
Si possono fare cose molto significative però, sia sul piano culturale che su quello artistico che su quello simbolico; andando a formare nuove élites e al contempo a rivitalizzare il sociale.
Se ai tempi della “contestazione” esistevano uno stato d’animo coinvolgente e un fascino d’avventura, oggi tra i giovani prevale la ricerca d’identità, di appartenenza e di significanza.
Pertanto la soluzione più in linea con i tempi ritengo che debba unire il senso comunitario e la pratica del volontariato (vero, non retribuito...). Il tutto legato a una volontà di potenza e a un gusto di sfida; ambo gli ingredienti sono indispensabili per opporsi alla castrazione di cui parlavo prima.

Quali sono stati i testi che l’hanno formata ed ispirata politicamente? E quali e perché, invece, quelli che ritiene imprescindibili per un militante di oggi?

Adinolfi: Non amo mai proporre la “biblioteca del militante”; la lettura a mio avviso deve accompagnarsi alla vita e non precederla; ma neppure seguirla. Deve andare di pari passo e, pertanto, muta a seconda dei percorsi e delle esigenze del momento che in ciascuno di noi variano continuamente. L’unico libro universale – ma non è politico – per me resta Così parlò Zarathustra.

Morucci: Quelli del passato sono i ‘classici’ del romanzo. Più americani che europei. Più vitali. Quelli imprescindibili oggi? Tanti. A caso: Jünger, Trattato del ribelle; Marcuse, L’uomo a una dimensione; F. Saba Sardi, Dominio: Potere, Religione, Guerra; come summa di divulgazione filosofica, per non passare dagli originali, U. Garimberti, Psiche e Techne. L’uomo nell’età della tecnica (Heidegger, Jaspers, etc); M. Tronti, Tramonto della politica; Ortega y Gasset, La ribellione delle masse; Z. Bauman, Il disagio della postmodernità. Ma ce ne sono troppi altri. Quello che ho scoperto però è che se si va al senso delle cose, mettendo da parte gli ingannevoli aspetti fenomenologici, si trovano più facilmente sintonie, e illuminazioni, tra libri apparentemente distanti. Comunque sia l’importante è mettere come ultimo libro Elogio dell’errore di Pino Aprile, tanto per riabbassare un po’ le penne.

Quali sono i luoghi comuni e gli steccati ideologici che vanno superati e come?

Adinolfi: Tutti. Ridendo.

Morucci: Uno dei luoghi comuni potrebbe essere che i fascisti sono reazionari e i comunisti progressisti. Nei fatti il Fascismo è stato progressista, cioè ha sviluppato industria e agricoltura, non certo meno che il Comunismo in URSS, per dire. Mentre i nostri comunisti sono stati perlopiù reazionari, politicamente e culturalmente. Politicamente hanno difeso una classe operaia, e il suo corrispondente sistema industriale, tipo la siderurgia, anche quando questo è stato ostacolo allo sviluppo. Culturalmente erano più bigotti dei preti. Moralisti, bacchettoni. Sul divorzio sono stati tirati per i capelli dai radicali. Etc etc.

Esiste oggi un partito o movimento che rispecchia il suo ideale di azione politica?

Morucci: Temo proprio di no.

Adinolfi: Nella trasformazione che stiamo vivendo è cambiato il ruolo della politica e stanno mutando i ruoli e le componenti dei partiti. Questi ultimi sono orami divenuti dei luoghi di congiunzione tra masse e oligarchie, tra gruppi di potere e consumatori. Sono degli strumenti di marketing e di sottopotere. Non ha alcun senso provare a riconoscersi in un partito politico e men che meno volercisi riconoscere; ma neppure ha senso rigettarli con sdegno come “traditori”: sono un’espressione dello scenario attuale e come tali vanno riconosciuti.
Chi voglia fare politica, o anche solo cultura o interventismo sociale, deve comprendere che i luoghi della politica sono ovunque e che i partiti si limitano a provare a rappresentarne e a lottizzarne una parte. Ragion per cui, a meno di perseguire una carriera in quell’ambito, si deve superare lo schema partitico senza lasciarsi abbindolare però da tentazioni “antagonistiche” del tutto eteree e risibili o da extraparlamentarismi datati e patetici.
Un movimentismo aperto e costruttivo, partecipativo, aperto e trans-partitico è quello che l’epoca richiede, e mi pare che s’inizi a comprendere, di sicuro lo ha capito CasaPound. Questo modello decolla e trova sinergia se insieme ad altri soggetti s’ispira e si orienta ad un Centro Studi serio e moderno, che produce non tesi intellettuali e ideologiche ma analisti e professionisti di primo livello, parlo di quello che la politica oggi definisce – rigorosamente in inglese – think tank.
Si tratta di un sistema di forze, autonomo e autocentrato che può benissimo avere rapporti preferenziali con un partito come con più partiti, ma potrebbe anche essere del tutto estraneo a questo genere di realtà. Perché il partito oggi ha assunto un ruolo tattico; non solo non è più l’espressione di un’identità o di un’idea-forza ma non ha più neppure un ruolo strategico.
Aggiungo che chiunque, perché deluso dalla mancanza di rappresentatività ad opera dei partiti principali, cerchi di tenere in vita una miniatura di partito identitario inseguendo proustianamente un modello tramontato da tempo fa una caricatura di seduta spiritica.
La soluzione per chi non si riconosce nei partiti dominanti non è quella di auspicare la crescita di un partito inattuale ma di fare altre cose; che abbiano un senso e un’anima.

A chi appartiene il domani?

Morucci: A chi non agisce pensando a ieri. A chi non cerca soluzioni entro il quadro dato dal ‘900. A chi non ha paura di abbandonare una rassicurante sopravvivenza da suddito per affrontare una travagliata esistenza da cittadino.

Adinolfi: Lo sapremo solo vivendo. In ogni caso a chi recupererà gioia, ingenuità e volontà di potenza.




Ringraziamo Valerio e Gabriele per la disponibiltà, e Nervo per l’incessante e fondamentale sostegno.
Infine, per approfondimenti, leggi il nostro articolo sulla conferenza di Morucci del 6 febbraio a CasaPound.

Condividi

martedì 2 giugno 2009

Madri, ma davvero è meglio oggi?!


Accogliamo e pubblichiamo con estremo piacere il contributo di una nostra giovane lettrice, ragazza ventitreenne che ci ha scritto un interessante articolo che spicca per spontaneità. Viene toccato un tema scottante: l
essere madre al giorno doggi, con tutte le difficoltà che il mondo attuale presenta. Da qui parte un rapido e provocatorio confronto col passato, che vuole sottolineare quanto legoismo ed edonismo imperanti rendano difficile unesigenza che dovrebbe essere primaria in ogni popolo che si rispetti: il perpetuarsi.


Spesso mi capita di sentire qualcuno che si lamenta che non ci sono più le mamme, le mogli di una volta. Spesso mi sento dire di essere cresciuta in un’epoca, in una generazione di ragazze viziate ed incapaci. Incapaci di portare avanti la casa e occuparsi di tutto ciò che ne fa parte, compresa la famiglia, o meglio la “vecchia prole.
Si generalizza troppo facilmente?! forse sì. Non voglio ergermi a perfetta casalinga e non posso nemmeno parlarne al futuro. Comunque non è questo il punto, non sono io, ma quello che mi fa riflettere quando sento certe frasi fatte.

Negli anni passati la figura della Donna era ben diversa da oggi. Non era, per usare un termine moderno, emancipata.
Oggi la madre, moglie perfetta, è colei che lavora, è indipendente, è al pari dei diritti con l’uomo e si occupa in contemporanea della famiglia: un sogno per quelle donne che negli anni passati non immaginavano nemmeno una vita così. Donne degli anni ‘20: Donne fasciste.

Nell’epoca fascista la donna fu un punto-forza per la politica propagandistica di Mussolini, il quale capì che doveva partire dal potenziale delle donne per poter costruire il suo progetto di Nazione, la sua idea di Italiani. Egli capì che servivano «madri nuove, per figli nuovi».
La sua idea era di creare e lasciare un’Italia fascista sana, nei principi e nelle idee. Un’Italia di Italiani...
Per questo istituì nel dicembre 1925 l’ONMI (Opera Nazionale Maternità e Infanzia), il quale organo si proponeva di dare assistenza ostetrica e pediatrica alle madri, cercava di limitare il fenomeno illegale dellaborto, favorendo al contrario le donne prolifiche con premi in denaro e riconoscenze direttamente da parte del Duce.
Altre competenze di questa importante società erano: la creazione di nuovi istituti di varia natura su tutto il livello nazionale, regionale, provinciale e comunale per dare una più completa capacità di intervento sul piano assistenziale; corsi di formazione sulligiene prenatale e postnatale nei consultori; assistenza ai bambini di qualsiasi età provenienti da famiglie bisognose; informazione sulla prevenzione della tubercolosi; controllo e denuncia verso il lavoro minorile; protezione ed assistenza ai minori abbandonati, o delinquenti.
Tutto questo veniva sovvenzionato dallo Stato e dalle donazioni dei soci ma anche da fondi prelevati dalle banche (!).

Le madri venivano poi istruite sulleconomia domestica, leducazione fisica e su tutte le arti riguardanti la cura della casa, dei campi e dell’educazione. L’importante era valorizzare tutte le virtù domestiche, per poter diventare un “angelo del focolare”, un massaia rurale.
Proprio per questo venivano favorite le piccole attività come l’allevamento di galline e conigli, o del baco da seta. Queste “industrie facevano modo così che le donne fossero un po’ più indipendenti economicamente, che si rafforzasse la teoria dell’autarchia del Paese, ed anche che ci fossero canali comunicativi tra la campagna ed i centri minori della città, dove le massaie portavano i loro prodotti con listini-prezzi un po’ più competitivi.

Altro passo del Regime per l’aumento della natalità fu quello di distribuire assegni familiari per le madri e prestiti per matrimoni e nascite: tutto questo ebbe sfogo nell’istituzione della giornata della Madre, il 24 dicembre. Data apposita per poter dare forte risalto al valore simbolico religioso dell’essere madre, paragonato al sacrifico della vergine. Essere madre sotto il Regime era un sacrifico per la patria e per il suo futuro, nella cornice di un profondo senso di Nazione e di appartenenza a questa a Mussolini molto caro.
«Se un uomo non sente la gioia e lorgoglio di essere “continuato” come individuo, come famiglia e come popolo (...) niente possono le leggi (...). Bisogna che le leggi siano un pungolo al costume. Ecco che il mio discorso va direttamente ai fascisti e alle famiglie fasciste. (...) il coefficiente di natalità non è soltanto l’indice della progrediente potenza della Patria, ma è anche quello che distinguerà, dagli altri popoli europei, il popolo fascista, in quanto indicherà la sua vitalità e la sua volontà di tramandare questa vitalità nei secoli. (...) Ora una nazione non esiste solo come storia o come terriorio, ma come masse umane che si riproducono. Caso contrario è la servitù o la fine»: ciò scrisse lo stesso Mussolini nella lucida prefazione al libro di Riccardo Korher Regresso delle nascite. Morte dei popoli.

Relegate nel loro ambiente domestico, le donne fasciste avevano una pur minima possibiltà in ambito lavorativo: il 10% di assunzioni femminili negli uffici pubblici e privati nel 1938.
Spazio limititassimo, e purtoppo disoccupazione elevata. Solo una piccola apertuta verso le donne, che comunque dovevano avere sempre un ruolo di massaia della casa. Non dimentichiamoci che siamo negli anni ‘30.

Da qui parte un confronto, moderno, cosciente e sincero.
Abbiamo toccato solo dei piccolissimi punti tra le donne ed il Regime, ma credo che la riflessione sia libera e vada un po’ da sé...
Oggi siamo davvero emancipate?! Oggi siamo donne sicure, tutelate dallo Stato?!
Ci sono alcune organizzazioni di destra come CasaPound che propongono temi scottanti come il tempo di essere madri... e perché, che esigenza è questa?!
Oggi sembrano tutte sicure di stare meglio rispetto a 60 anni fa, quando si era costrette a stare in casa e non si era libere... mentre oggi si ècostrette” a non avere figli prima dei 30 anni almeno, perché non c’è nessuno che ti fa contratti decenti che tutelino la madre, o peggio non te li fanno proprio...
Il futuro libero ed emancipato che lItalia ci propone è quello di non avere figli, perché impedimenti alla carriera oppure peso da mantenere con meno di 1000 euro al mese quando va bene...
Figli da lasciare negli asili nido che costano più di uno stipendio, figli da far crescere da baby sitter-strozzine... figli da far crescere davanti la tv, davanti ai “surreality che succhiano il loro tempo libero, le loro idee...
Figli intontiti da pubblicità illusorie, figli conigli, irresponsabili, omertosi, bulli, drogati, alcolizzati... bello no?! è l’emancipazione...
Madri a metà tra ufficio e asilo, che non sanno dove andare, cosa fare... madri nervose perché non ce la fanno con gli orari, con i soldi... madri che non riescono a conciliare tutto, madri ignare di quello che capita in casa loro... madri emancipate... ma da chi?! o da cosa?!
Possibile che sono davvero così incapaci queste donne moderne?!
Come mai siamo tutte così prese dal lavoro però poi critichiamo o invidiamo chi riesce a far tutto? Come mai noto sempre più famiglie che cercano case con giardino per coltivare l’orticello?!
Come mai la gente compra macchine per fare il pane in casa?!
Come mai la vacanza preferita è divenuta in agriturismo, in campagna, tra la natura?!
Come mai tutte queste leggi (!) a tutela della donna e dei suoi diritti, e poi mi ritrovo che a casa nemmeno due stipendi bastano più?!
Perché vedo che alcune rinunciano al lavoro per star dietro a figli e non lasciarli indietro?!
Perché oggi ne vedo altre che vengono accusate di non saper cucinare, rammendare o cucire, e quindi incapaci di portare avanti unipotetica famiglia in futuro?
Io mi chiedo, ma qual è l’esempio che ci vogliono proporre?! Non sarà mica quello che tanto ci si è adoperati negli anni addietro di formare con corsi mirati appositamente... non sarà mica che la mia famiglia è figlia” di quelle generazioni di Donne perfette casalinghe!!!
Non sarà che forse certi corsi servirebbero veramente alle ragazzine viziate, annoiate e corrotte dalla tv?! Non saranno mica soluzioni per far crescere quelle ragazze che ogni madre sogna per suo figlio?
Ma del resto, siamo andate avanti, no?!
Del resto il bonus di 1000 euro che il governo ha varato per incremetare le nascite è una genialata o una costrizione?! perché oggi sì, e ieri no?!
Perché oggi il tasso di natalità è basso e non va bene, e quando è alto nemmeno... ci preoccupiamo se le comunità straniere fanno più figli di noi ma non del problema serio che essere una madre oggi è un atto di coraggio, una sfida allo Stato.

C’è sempre il rovescio della medaglia.
Se negli anni 30 cera la speranza di un futuro migliore per la donna, di un cambiamento, oggi cosa cè?!
Io credo che siamo ritornate dove eravamo, con tutti i dovuti casi ed esempi diversi....
Ma alle femministe non rode un po’?! Per che cosa hanno combattuto all’epoca quando c’era ancora la voglia di cambiare le cose?!
Se questi sono i risultati la strada è ancora lunga...
ma davvero è meglio oggi?!

Condividi