venerdì 27 febbraio 2009

Le Verghe del Fascio: Mario Carli futurardito


Mario Carli
(1888 – 1933), fascista intransigente. Ma anche capitano degli Arditi, poeta futurista, legionario a Fiume, direttore e fondatore di varie riviste, fra cui “La Testa di Ferro”, “Il Principe” e “L’Impero”. Scrittore di vari libri, tra i quali Con D’Annunzio a Fiume.

Fascista per convinzione ma soprattutto per indole, ad ulteriore dimostrazione che il Fascismo fu “anti-dottrina” e “anti-filosofia”, mentalità prima ancora che teoria.
Lo dimostrerà coi fatti: insofferente alle convenzioni e imposizioni del regime liberale, seppur esonerato dal servizio militare nella Prima Guerra Mondiale, si arruolerà negli Arditi, conquistando, oltre al grado di capitano, una medaglia d’argento al valore e una croce di guerra. Dopo la guerra sarà a Fiume, ed è qui che conosce Guido Keller, altro personaggio quanto mai interessante: intrepido e spericolato, goliardico e non conformista, fondatore del movimento Yoga, “Unione di Spiriti liberi tendenti alla Perfezione” che come simbolo adotta la rosa a cinque petali e la Svastica. Prese i soldati che non riuscirono ad entrare nel comando perché senza documenti e così diede vita alla “Disperata”.

“Questa «Disperata» fu la falange eletta dei legionarii: la guardia del corpo del Comandante [D’Annunzio]: manipolo di uomini decisi, spregiudicati, violenti nell’adorazione e nell’impeto: fiore della rivolta e della libertà, passato attraverso il setaccio della guerra e degli stati d’animo, se non delle idee, rivoluzionari


Insieme ad un manipolo di legionari Keller darà vita alla “Società degli amici del pelo”, i quali usavano rasarsi i capelli prima di ogni azione per poi gettare al vento le ciocche. Proprio in onore di queste “teste di ferro” fonderà, insieme a Carli, l’omonima rivista dei legionari fiumani.

Questa sua temerarietà, e forse anche irrequietezza, lo portò ad assumere posizioni anche poco ortodosse, in nome dello spirito avanguardista, che secondo Carli sarebbe stato presente anche fra socialisti, riformisti e repubblicani. Arriverà a tessere le lodi del bolscevismo leninista, abbandonando temporaneamente il Fascismo. Bisogna tuttavia contestualizzare il periodo storico: era il 1920, la rivoluzione russa era compiuta, mentre in Italia Fiume restava un caso isolato. “Fiume e Mosca, «due rive luminose»” è più che altro da interpretare in chiave anti-borghese: scriverà chiaramente che mentre in Russia i rivoluzionari si batterono, in Italia il partito socialista, accusato di non volere e di non far nulla per la rivoluzione, viene definito una «ottusa cocciuta grettissima cretinissima Chiesa». Dopo la marcia su Roma la sua adesione al Fascismo sarà totale.

La stessa vita di Mario Carli, al di là dell’inutile nozionismo biografico, è testimone di ciò che egli stesso definisce significato principale del Fascismo: «Liberazione dalla mentalità passatista». In questo senso Carli seppe essere esempio. Auspica e promuove l’avvento di una nuova stirpe di Italiani, portatori di una nuova mentalità che liberi definitivamente il Fascismo e l’Italia da ogni sorta di «demagogia, pedanterie culturali, filisteismi di genialità, anemici senz’ardire»: “Giovinezza al potere” dunque. Distruggere ogni senso di debolezza e sterilizzazione mentale volontaria, rappresentati contemporaneamente dal liberismo e dal socialismo “pussista”.

Ma la figura di Carli non eccelse solo come uomo d’azione: fu, infatti, anche intellettuale e giornalista dotato di grande capacità di analisi, permeata di una perfetta sintesi fra realismo e pragmatismo, che per niente contrastano con la visione radicale e intransigente propria dell’autore. Fu capace di interpretare e interagire con la società: scrisse infatti «prima il fatto, poi la legge».

Ed è proprio grazie a questo metodo di radicamento nella Realtà, oltre ai singoli episodi, che il pensiero di Mario Carli ci appare dunque come vivo e attualissimo, a tratti quasi sorprendendo i lettori, considerando che questa raccolta di articoli fu pubblicata per la prima volta nel 1926. In tutto ciò si trova il senso di questa lettura: riscoprire il contributo di tutte le verghe che formano il Fascio, attualizzando e concretizzando idee e forme.


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martedì 24 febbraio 2009

Memento Audere Semper



10 febbraio 1918: «Ci siamo affilati nella lunga attesa come sopra la ruota di un arrotino difficile. Siamo tutti taglio e punta, fissi su una rude impugnatura… Credo che di rado uomini furono così compiutamente pronti ad un’azione disegnata. Nulla manca, tutto è previsto. L’indugio non ci giova più, ci logora…».

Con queste parole Gabriele D’Annunzio (1863 – 1938) racconta le ore precedenti di una delle imprese più audaci, irriverenti e, purtroppo, sconosciute della storia della marina italiana.

Siamo nell’ultimo anno della Prima Guerra Mondiale e l’Italia è appena uscita col morale a pezzi da una delle sconfitte più pesanti dal punto di vista militare, e non solo, dell’intera guerra: la disfatta di Caporetto. Disfatta che farà emergere i grossi limiti dell’esercito italiano e comporterà un rovesciamento interno ai vertici dello stesso con la successione di Diaz a Cadorna.
Proprio in questo contesto di scoramento generale matura l’idea dell’azione che, pianificata già da dicembre, solo a causa delle cattive condizioni meteorologiche e dell’attesa delle ricognizioni aeree sulla Baia, fu posticipata all’11 febbraio.

I M.A.S. 96, 95 e 94 al comando di Costanzo Ciano (1876 – 1939) lasciarono l’ormeggio della Giudecca alle ore 11.00 del 10 Febbraio 1918, con l’obiettivo di riprendersi quel «fegato gettato più lontano che mai», che Ciano aveva idealmente lanciato preparando l’impresa. Il «Vate», che per l’occasione si autodefinì «volontario marinaio», era imbarcato sul MAS 96 insieme al capitano di corvetta Luigi Rizzo, medaglia d’oro e artefice dell’affondamento di due corazzate austriache, di cui l’ultima il 10 giugno 1918 nelle acque dell’Isola di Premuda, la quale si ricorda ancora oggi come festa della Marina militare.
Gli equipaggi dei MAS, dopo essere stati scortati da unità leggere e da due torpediniere, cominciarono ad avanzare sole e non senza poche difficoltà, e proprio in quel momento difficile D’Annunzio trovò le parole che spingono il cuore sempre oltre, coniando quel motto che ancora riecheggia in tutte le azioni audaci: Memento Audere Semper.

11 Febbraio 1918: «Nasce il nuovo giorno… navighiamo da quattordici ore. Teniamo da cinque ore le acque del nemico. Gli siamo entrati nella strozza, e poi nel profondo stomaco […] Un allarme, e andiamo in predizione».

Entrati a Buccari, i MAS, dopo oltre 60 miglia di navigazione e oramai senza alcun tipo di scorta, avanzarono indisturbati, puntando ognuno un bersaglio diverso, silurando il nemico con estrema precisione ma con cattiva sorte. I missili lanciati, difatti, si incagliarono nelle maglie di piombo delle reti parasiluri poste a difesa delle imbarcazioni austriache. Nonostante ciò il valore dell’impresa era inestimabile: penetrare per oltre 60 miglia nelle retrovie nemiche senza in alcun modo essere avvistati, evidenziando così la completa inefficacia del servizio di guardia nemico; dimostrare a tutti, italiani in primis, che l’ardimento di alcuni elementi dell’esercito batteva ancora fiero. E sono proprio questi due fattori – debolezza austriaca e rinnovato vigore dell’esercito italiano che rendono questa impresa importante, anche ai fini dell’esito della Prima Guerra Mondiale. In un momento così delicato della guerra, infatti, portare alla ribalta che lo «straniero» era vulnerabile voleva dire rinfrancare il morale dell’intera nazione e far sì che essa concorresse per intero a conquistare la vittoria, che si realizzò nella battaglia di Vittorio Veneto, ultimo atto del Risorgimento Italiano.

Infine, c’è la stoccata dell’uomo che incarna il «pensiero azione» e che tinge l’impresa di un particolare sapore beffardo, facendo sì che la «beffa» assuma anche contorni carnevaleschi e un romanticismo d’altri tempi.

Le tre bottiglie nastrate tricolore che D’Annunzio lasciò nella baia recavano questo messaggio:

«In onta alla cautissima flotta austriaca occupata a covare senza fine dentro i porti sicuri la gloriuzza di Lissa, sono venuti col ferro e col fuoco a scuotere la prudenza nel suo più comodo rifugio i marinai d’Italia, che si ridono d’ogni sorte di reti e di sbarre, pronti sempre a osare l’inosabile. E un buon compagno, ben noto – il nemico capitale, fra tutti i nemici il nemicissimo, quello di Pola e di Cattaro – è venuto con loro a beffarsi della taglia».

La notte era passata e i MAS con a bordo i cuori intrepidi facevano ritorno a casa. È proprio vero: l’alba non è uguale per tutti.



«Lasciamo dietro di noi le soglie del Quarnaro posseduto. La nostra piccola bandiera quadrata si muove come una mano che faccia di continuo cenno. Ha il rosso rivolto verso l’Istria che mi par di rivedere in sogno, simile a un grappolo premuto o a un cuore pesto. Ho l’amaro del sale in bocca…

L’alba non è uguale per tutti.


Dall’Italia navighiamo verso l’Italia!
» (Gabriele D’Annunzio).


Articolo redatto da un giovane del Circolo Futurista-Casal Bertone.


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venerdì 20 febbraio 2009

!!!FuTuR100!!!



Con gli occhi rivolti verso il cielo, i bambini del nuovo secolo guardavano allibiti le nuove strutture che svettano in alto quasi a toccare i cieli. Nuove bestie metalliche sfrecciavano sulle strade a velocità mai viste prima d’ora, adorne di tubi che sputavano fumo. In un mondo che cambiava costantemente, i figli del nuovo secolo venivano a contatto con le nuove creazioni dell’uomo a testimonianza del suo costante progresso. Navi immense, grandi quanto piccole città, treni, grattacieli, auto e altre grandi invenzioni testimoni delle nuove civiltà meccanizzate. I figli stessi del secolo ventesimo, spazzati via in un secondo tempo dal potere oscuro delle nuove macchine nei campi della Somme, Dieppe, o sul Piave. La Guerra purificatrice divorò un’intera generazione, in un vortice di fango, bulloni, e cartucce, cambiando profondamente il volto socio-politico della vecchia Europa.


Gli anni antecedenti alla Prima Guerra Mondiale videro un profondo cambiamento nel mondo politico, ma soprattutto artistico, che desiderava staccarsi radicalmente dalle fondamenta di un’Europa stanca e anziana. Movimenti come il cubismo di Picasso (1881 – 1973) e Braque (1882 – 1963), il simbolismo di Klimt (1862 – 1918) o H. Rousseau (1844 – 1910) cercavano una nuova dimensione per l’espressione artistica, cercando di spazzar via i vecchi canoni dell’arte che dominavano, con le rigide convenzioni reazionarie, il vecchio panorama artistico europeo. Se l’Austria di Klimt e la Spagna di Picasso rappresentavano vecchie potenze affermate ormai avviatesi all’inevitabile crepuscolo, l’Italia combatteva ancora per un’identità nel panorama politico internazionale da giovane paese, unita solamente di recente sotto un unico stendardo. È proprio in questo scenario di debole propulsione che prende corpo un movimento artistico destinato a scombussolare il panorama artistico Italiano e internazionale nei primi anni del Novecento. Sotto l’influenza del carismatico poeta e artista Filippo Tommaso Martinetti (1876 – 1944), noto come la “caffeina d’Europa”, i Futuristi pubblicarono il loro primo Manifesto sul quotidiano Francese Le Figaro il 20 febbraio 1909.

Il bisogno reale di cambiamento nella società si avvertiva nel desiderio profondo di questo manipolo di artisti idealisti, i quali spinsero il loro lavoro al di fuori del contesto strettamente “artistico”, investendo copiosamente il loro tempo nel cercare di mutare la società. Il Futurismo non nacque solo come un movimento che dettava il modo in cui all’artista era chiesto di applicare la pittura sulla tela, ma come un qualcosa che si orientava a 360 gradi intorno ai molteplici aspetti della società. Nella letteratura, nel teatro, nella politica, ogni sforzo era concentrato a voler tirar fuori l’ “Italietta” dal suo torpore. Il movimento pompava, come un cuore in fiamme, l’energia vitale per il tanto agognato cambiamento dentro il popolo. La comunità statica doveva ora diventare sinonimo di dinamismo, mutamento dello stato solido della società. A fianco di Marinetti si univano individui dal passato ed esperienze di vita alquanto diversi: artisti come Balla, Jannelli, Corra, Sant’Elia, Boccioni e Russolo – per citare alcuni. La guerra diventa oggetto purificatore, uno strumento per defenestrare la staticità del mondo borghese reazionario. Tutto ciò che potesse essere collegato ai canoni di bellezza del passato (le istituzioni, le accademie, i musei, ecc.) furono derisi dai Futuristi poiché legati a un ordine di «vecchi e preti».

A cento anni dalla pubblicazione del loro primo Manifesto, l’Italia e l’Europa si ritrovano sature di nuovi macchinari e dalla velocità del mondo esterno. I bambini non sono impressionati più dalle le scie dinamiche provocate dai reattori degli aeroplani, e raramente ci si sofferma a voler constatare le forme luccicanti dei treni che sfrecciano attraverso le campagne. Tutto questo dinamismo è diventato monotono, come il bimbo esposto più volte a scene turgide di sangue, per cui esso non si spaventa più. Il bellicismo vitale tanto ricantato dai futuristi è oggi diventato una battaglia contro il grigio opprimente che circonda il mondo. Non è più la campagna o la città reazionaria che spaventa ma la piattezza della società consumista e industriale che propone un falso dinamismo nel quale l’uomo si perde nell’anonimato, diventando un numero qualunque in una società empia e chiusa.

Cent’anni dopo l’avvento del Futurismo, l’Italia si ritrova a festeggiare l’anniversario dalla nascita di uno dei più radicali movimenti artistici del secolo scorso. In un mondo sicuramente cambiato rispetto a dieci decadi fa, sarebbe dunque legittimo domandarsi che cosa penserebbe Marinetti di finire in un Museo


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martedì 17 febbraio 2009

Il Kosovo è Serbia? (3)

17 febbraio: Il sacrificio della patria nostra è consumato
(Ugo Foscolo)


I bombardamenti NATO in Kosovo


Il 16 gennaio 1999 le foto di 45 cadaveri (tra)vestiti da civili, trovati nella cittadina di Račak, fanno il giro del mondo, suscitando ovunque reazioni indignate e facendo gridare al genocidio. La polizia serba rivendica l’azione, aggiungendo anche che si era trattato di uno scontro a fuoco con dei membri dell’Uçk i quali, tra l’altro, avevano fatto delle vittime tra i poliziotti stessi. Milošević fa effettuare una prima indagine ad un’equipe di medici jugoslavi e bielorussi, che confermano la versione della polizia serba: quelle persone erano guerriglieri armati, non civili.
Sotto forti pressioni internazionali accetta che venga svolta una seconda indagine autoptica indipendente, condotta da un gruppo di medici finlandesi guidati dalla dottoressa Helena Ranta. Quest’ultima analisi confermò sostanzialmente la prima, anche se i risultati dovettero essere modificati per far fronte alle pressioni politiche della NATO16, per alimentare la propaganda necessaria alla creazione del consenso attorno ad un’aggressione ingiustificabile.

La “montatura” di Račak fu quindi il preambolo per un’altra truffa: la conferenza di Rambouillet, dove una delegazione serba ed una delegazione albanese avrebbero dovuto “negoziare” assieme alla NATO il “cessate il fuoco” nella provincia. Mentre agli albanesi veniva richiesto di riconsegnare le armi, senza però minacciare sanzioni né tanto meno imporre delle scadenze; alla Serbia furono imposte condizioni assurde ed ingiustificabili: oltre alla richiesta di ritirare totalmente esercito e polizia dal Kosovo (che avrebbero dovuto essere sostituite da un contingente di peace-keeping internazionale) la NATO richiedeva libertà totale di circolazione delle proprie truppe non solo in Kosovo, ma in tutta la Jugoslavia!
Inoltre gli USA avrebbero avuto il diritto di costruire, in territorio serbo, un’installazione militare “extraterritoriale”, soggetta esclusivamente alla giurisdizione americana.
Condizioni del genere (a cui peraltro noi europei siamo da anni sottomessi) erano del tutto inaccettabili da un popolo ancora in possesso della propria dignità. Oltretutto queste rivelavano il vero intento della campagna NATO: non tanto il “salvataggio” del Kosovo quanto la sottomissione definitiva della Jugoslavia indipendente e non allineata.

Milošević si oppose radicalmente agli accordi, ritirando la delegazione serba, rifiutandosi risolutamente di cedere la sovranità del suo Paese; gesto che fu “spacciato” in occidente come segno dell’ottusità e della mancanza di buona volontà dei serbi, contro cui non restava altra soluzione se non quella militare. Ritirati in fretta e furia gli “osservatori” OSCE, chiuse le ambasciate ed i consolati, inizia l’aggressione “umanitaria” di un paese indipendente e sovrano.
Dal 24 Marzo al 10 Giugno 1999, per 78 giorni, la NATO bombarda (senza l’avallo dell’ONU e contrariamente al proprio mandato) installazioni militari (poche) e civili (in prevalenza). Le “bombe intelligenti” distruggono alla fine solo 13 carri armati (sui 400 in forza all’esercito serbo) mentre colpiscono ponti, ferrovie, industrie (come il complesso chimico di Pančevo e la Zastava di Kragujevac), per non parlare delle centinaia di vittime civili, del bombardamento della sede della TV di stato e dell’ambasciata cinese a Belgrado.

Eppure la guerra non piega i serbi: durante i bombardamenti in migliaia si riversano sui ponti sul Danubio a Belgrado, organizzano concerti all’aperto, vivono coraggiosamente la vita di ogni giorno, dimostrandosi ancora una volta un popolo fiero e orgoglioso, non disposto a cedere un centesimo della propria sovranità ed indipendenza; sprezzante di un’alleanza militare seicento volte più forte, la quale d’altra parte non si attendeva una resistenza così tenace17.

Gli accordi di pace (siglati a Kumanovo, la stessa città dove – 87 anni prima – i serbi firmarono i trattati che ridiedero loro il Kosovo alla fine della prima guerra balcanica) garantivano alla Serbia integrità territoriale e sovranità, che verranno d’altra parte garantite in sede ONU con la famosa risoluzione 1244, e permisero alla NATO di entrare nella provincia con una missione di “peace-keeping” denominata KFOR.
Alla fine della guerra, i morti accertati in Kosovo dall’inizio dell’anno saranno 2.700, incluse le vittime delle bombe “buone” e dell’Uçk, che durante l’intervento NATO aveva tutt’altro che sospeso la propria attività.
Tutto, tranne che un bilancio da “genocidio”.

I bombardamenti causeranno anche centinaia di migliaia di profughi: solo quelli di etnia albanese però potranno tornare indisturbati alle loro case. Per serbi, montenegrini, rom, gorani e bosniaci non c’è alcun diritto al ritorno: alcuni verranno respinti alle frontiere dalle truppe del KFOR, altri uccisi dagli albanesi in cerca di vendetta, altri ancora si ritroveranno con case bruciate oppure occupate e molti, infine, privati della protezione garantita dalla loro polizia, non se la sentiranno di tornare. L’UNHCR (United Nations High Commitee for Refugees) stima in oltre 200 mila i non-albanesi cacciati dal Kosovo rimasti profughi in altri paesi (prevalentemente in Serbia). Per fare un esempio dell’ampiezza delle pulizie etniche portate a termine in Kosovo, a Priština, dove all’inizio del 1999 vivevano ancora oltre 40 mila serbi (tra cui 10.000 studenti, professori e dipendenti dell’Università di Priština, nata negli anni ‘60 da un distaccamento dell’Università di Belgrado), resteranno alcuni mesi dopo poche dozzine di anziani impossibilitati a muoversi e tenuti sotto costante scorta.

La Serbia e il Kosovo oggi

Milošević, isolato, sconfitto alle elezioni del 200018 da Vojislav Koštunica, si ritira dalla vita politica rimanendo comunque a Belgrado (rifiutandosi di fuggire dal proprio paese), dove viene arrestato (con false accuse di corruzione) nel marzo del 2001, dopo alcuni giorni di assedio poliziesco alla sua casa, circondata da fedelissimi decisi a non farlo catturare. Verrà poi deportato il 28 giugno dello stesso anno (il Vidovdan, l’anniversario della battaglia di Kosovo Polje) in una prigione americana (in barba alla costutuzione serba) in Bosnia per essere poi condotto nel carcere di Scheveningen, all’Aja, dove morirà (o meglio, verrà lasciato morire) l’11 marzo 2006, poco prima della fine di un processo nel corso del quale nessuna prova dei crimini per cui era incolpato era emersa.

Il nuovo corso “democratico” tuttavia non ha diminuito l’attaccamento dei serbi al Kosovo: eccezion fatta per il piccolo (5% dei consensi alle ultime elezioni) Partito Liberal-Democratico (LDP) di Čedomir Jovanović – dettosi pronto a riconoscere l’indipendenza del Kosovo – tutte le formazioni politiche in Serbia sono risolutamente contrarie a qualsiasi ipotesi di abbandono della sovranità sulla provincia, seppure ovviamente disposte a concederle larghe autonomie nell’ambito di negoziati bilaterali. La maggioranza dei serbi (il 70% secondo un recente sondaggio diffuso dalla popolare emittente radio B92), inoltre, è contraria all’ingresso nell’UE se questo deve significare il riconoscimento del Kosovo come Stato indipendente: l’attaccamento alla propria storia, alla propria terra ed alle proprie tradizioni continua ad avere la meglio sulle esche lanciate dagli eurocrati di Bruxelles.
Seppure escluse dal governo (in buona parte grazie alle pressioni del “democratico” presidente della repubblica Boris Tadić) le formazioni nazionaliste estreme riscuotono ancora forti consensi, in primis con il Partito Radicale Serbo (SRS, 28% dei voti alle ultime elezioni) il cui presidente Vojislav Šešelj è attualmente sotto processo a l’Aja, ed il cui segretario Tomislav Nikolić (47% dei voti alle presidenziali del 2008) si è più volte detto pronto all’intervento militare in Kosovo per ristabilire la sovranità.

E il Kosovo? La neonata (narco)repubblica è attualmente riconosciuta da 54 dei 192 Stati membri delle Nazioni Unite, occupata da un contingente militare internazionale (KFOR per la NATO, UNMIK per l’ONU e EULEX per l’UE), priva di un proprio esercito e di una propria moneta; etnicamente “omogeneizzata” con la violenza; è uno “Stato” con vessilli nazionali (bandiera e inno) progettati a tavolino come fossero loghi e jingle in una campagna pubblicitaria; è finanziata dalla vendita di esseri umani (prostituzione ma anche traffico di organi), armi, oppio afgano e contributi USA e UE. Il Kosovo è uno “Stato” privo di una qualsivoglia tradizione e storia di indipendenza, uno “Stato” dove monumenti, chiese ed opere d’arte del XII, XIII e XIV secolo (tra cui i monasteri ortodossi di Peć, Gračanica e Decani, iscritti dall’UNESCO tra i patrimoni dell’umanità) vengono bombardate e rase al suolo dai propri “cittadini” per cancellare le prove di un passato che sta lì a ricordare a tutti la grande menzogna del “Kosovo da sempre albanese e musulmano”.
Uno “Stato” abitato in prevalenza da persone (e discendenti di persone) immigratevi illegalmente negli ultimi 30 anni e non legate a quella terra19; sviluppatosi per secoli grazie agli sforzi dello stesso popolo che ora da questa stessa terra viene cacciato.
Uno “Stato” nato dal diritto (inesistente) all’autodeterminazione di una minoranza nazionale, quella albanese in Serbia; che tuttavia nega alle proprie minoranze interne (i serbi, ma anche i rom, bosniaci e gorani, che vorrebbero rimanere sotto l’ombrello di Belgrado) questa stessa facoltà20.
Uno “Stato” dove un ex-primo ministro (Ramush Haradinaj), inquisito per due anni all’Aja, viene liberato perché “i testimoni [dell’accusa] chiamati a comparire al processo sono stati uccisi o hanno ritrattato, dove l’uccisione di giornalisti è all’ordine del giorno; dove i leader politici albanesi non allineati all’Uçk, tra cui lo stesso Ibrahim Rugova, sono costretti a viaggiare sotto scorta – cosa che non accadeva neanche ai tempi di Milošević, quando avrebbero dovuto temere la “follia genocida serba”.
Uno “Stato” che permette espropri, uccisioni ed espulsioni ai danni di una parte dei propri cittadini – quelli di etnia serba – i quali sono perlopiù costretti a vivere in enclaves protette da militari e circondate da barriere di filo spinato, rinunciando alla propria libertà di movimento per evitare il linciaggio e le aggressioni.
Uno “Stato” dove 200 mila persone natevi e cresciutevi non hanno diritto di ritornare; dove un’intera nazione, che in esso per secoli ha coltivato la propria identità culturale e religiosa, non ha diritto di intervenire.

Il Kosovo indipendente: quali prospettive?

Allo stato attuale, sembra praticamente impossibile il ripristino dell’autorità di Belgrado sul Kosovo, eppure ci sono diverse problematiche ancora aperte, legate allo status poco definito della provincia, che non escludono un fatto del genere sul medio-lungo periodo.
In primis, la Serbia può contare sul supporto incondizionato della Russia (ed in misura minore, anche della Cina) che può sbarrare a tempo indeterminato l’ingresso del Kosovo in seno alle maggiori istituzioni internazionali (in particolare all’ONU), costringendo la neorepubblica “indipendente” a delegare in queste sedi la propria rappresentanza ad altri.
In secondo luogo, non bisogna dimenticare che la maggioranza degli stati membri dell’ONU, tra cui cinque paesi UE – Spagna, Slovacchia, Romania, Cipro e Grecia – l’intera America Latina e pressoché l’intero blocco degli Stati arabi (nonostante il 90% dei Kosovari sia di fede musulmana), non riconosce l’indipendenza della provincia, un altro fatto che pone seri limiti allo sviluppo dello “Stato”.
In terzo luogo, il tribunale internazionale dell’ONU è stato chiamato a pronunciarsi sulla legalità della dichiarazione di indipendenza: una sentenza negativa porterebbe molti Stati a fare marcia indietro e non riconoscere più il Kosovo come Stato sovrano; oltre a delegittimarne ulteriormente l’esistenza.
Infine, gli interessi occidentali in Kosovo (l’unica ragione di essere dell’indipendenza) potrebbero col tempo cambiare, o semplicemente affievolirsi gettando il narcostato nel dimenticatoio: in tal caso, la Serbia potrebbe riprendere i negoziati da una posizione favorevole, sfruttando le lacune strutturali (amministrative, economiche e sociali) dello “Stato” del Kosovo per ripristinare la propria legittima sovranità.

Quale potrebbe essere dunque una giusta risoluzione del problema dello status del Kosovo? Probabilmente l’applicazione della formula “più dell’autonomia, meno dell’indipendenza”, assieme alla suddivisione della provincia in aree amminisitrative autonome (come, ad esempio, proponeva il piano di “cantonizzazione” avanzato all’ONU da Dušan Bataković, consigliere del presidente della Repubblica Boris Tadić) sembrerebbe essere la soluzione più equilibrata.

D’altronde, solo il ripristino della sovranità serba sulla provincia può garantire un ritorno “sicuro” per gli oltre 200 mila profughi della guerra del 1999 così come una protezione ed una valorizzazione adeguata dell’immenso patrimonio artistico e spirituale del Kosovo-Metohija.
Ma soprattutto, solo il ripristino della sovranità serba sulla provincia può garantire il rispetto dei princìpi di sovranità e di indipendenza dei popoli, uniche garanzie di una pace duratura.


Note

(16) Helena Ranta ha recentemente pubblicato un libro in cui accusa Walker e Solana di averla obbligata a modificare i risultati delle analisi, avendo anche lei riscontrato tracce di polvere da sparo sulle mani dei cadaveri, segno inconfondibile del fatto che le persone stavano sparando poco prima di morire. La stessa “scena del delitto” faceva pensare ad una montatura: i cadaveri erano adagiati in posizioni innaturali; alcuni addirittura con vestiti puliti (evidentemente sostituiti alle divise originarie) senza macchie di sangue.


(17) I generali della NATO avevano pianificato una campagna di poche settimane, ipotizzando un crollo del “regime” di Milošević, che invece durante la guerra aumentò il proprio consenso.

(18) L’efficienza della ricostruzione (dopo un anno gran parte dei ponti, strade ed ospedali distrutti erano di nuovo in piedi) e la fermezza mostrata durante la guerra avevano garantito a Milošević un largo consenso: per questa ragione indisse nuove elezioni anticipatamente (il suo mandato durava quattro anni, e sarebbe scaduto nel 2001) nella speranza di consolidare il proprio potere. L’inaspettata sconfitta fu dovuta più che altro alla pioggia di milioni di dollari sull’opposizione, nonché alla scelta del candidato antagonista: Koštunica era infatti un nazionalista, capace di raccogliere voti anche tra l’elettorato di Milošević.

(19) Guarda caso tutte le manifestazioni pro-Kosovo fanno sempre mostra di bandiere e stemmi riferentisi all’Albania: di fatto il Kosovo è per la maggior parte dei suoi abitanti una mera “estensione” dell’Albania – niente che abbia a che fare con l’idea di Stato indipendente.

(20) Molto spesso si sentono politici Kosovari ed occidentali affermare che “l’integrità territoriale del Kosovo è fuori discussione” in riferimento ad una possibile riunione del nord della provincia (a maggioranza serba) con la Serbia. Da che pulpito viene la predica, eh?

Figure

1. Bombe umanitarie colpiscono un ospedale a Belgrado.

2. Mappa delle diverse etnie in Kosovo (2005): notare la drastica riduzione delle aree a maggioranza serba (vedi mappa 1999).

3. La bandiera del Kosovo.

4. “Chiesa della presentazione di Maria” (1420) a Dolac rasa al suolo dagli albanesi musulmani.

Bibliografia e approfondimenti

Libri:

Dušan T. Bataković - Kosovo: un confit sans fin?
Jože Pirjevec - Serbi, Croati e Sloveni: storia di tre popoli
Josip Krulic - Storia della Jugoslavia
Giuseppe Zaccaria, Mira Marković - Memorie di una strega rossa
Massimo Nava - Imputato Milošević
Slobodan Milošević - In difesa della Jugoslavia
Peter Handke - Appendice estiva a un viaggio dinverno
Peter Handke - Rund um das Große Tribunal

Siti web:

http://www.serbianna.com/
http://www.cnj.it/
http://www.slobodan-milosevic.org/
http://www.srebrenica-report.com/
http://www.kosovoliberationarmy.com
http://www.rinascitabalcanica.com/
http://www.rusjournal.com/

Articoli e testimonianze:

http://www.rinascitabalcanica.com/?read=13909
http://www.b92.net/eng/news/crimes-article.php?yyyy=2008&mm=12&dd=23&nav_id=55923
http://www.un.org/icty/transe54/060203IT.htm (Testimonianza di Eve Ann Prentice all’ICTY)
http://www.un.org/icty/transe54/020726IT.htm (Testimonianza di Radomir Marković all’ICTY)
http://query.nytimes.com/gst/fullpage.html?res=9B0DE3DF143FF932A35752C1A961948260&sec=&spon=&pagewanted=1
http://www.b92.net/eng/news/politics-article.php?yyyy=2008&mm=10&dd=22&nav_id=54412

Video documentari:

Ukradene Kosovo - Stolen Kosovo (documentario della TV di stato ceca, censurato e mai andato in onda)
Kosovo: Can You Imagine? (documentario del regista canadese Boris Malagurski)
The Milosevic Case (documentario olandese sul processo a Milosevic)
Milošević: Sturz eines Diktators (documentario tedesco)
The death of Yugoslavia (documentario della BBC)


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domenica 15 febbraio 2009

Il Kosovo è Serbia? (2)


La nazione serba allo scoppio della guerra civile in Jugoslavia

Prima di parlare degli avvenimenti in Kosovo dell’ultimo ventennio, è necessario contestualizzare nel quadro della ex Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia (RSFJ) la questione nazionale serba.

La RSFJ era suddivisa in sei repubbliche (ovvero Slovenia, Croazia, Serbia, Macedonia, Bosnia e Montenegro) e due province autonome (il Kosovo-Metohija e la Vojvodina), entrambe formalmente parte della Serbia.
Significative minoranze serbe esistevano in tutte le repubbliche, in particolare in Croazia (dove il 15% della popolazione era di etnia serba e viveva nella Kraijna, una regione dove costituivano il 90% degli abitanti), in Bosnia (35% della popolazione) ed in Montenegro (40%).
Per cui, seppure diviso tra le diverse repubbliche, il popolo serbo trovava nella Jugoslavia il quadro nel quale poteva vivere mantenendo la propria unità.
D’altra parte, le repubbliche costitutive erano entità che solo in parte rispondevano a bisogni storici ed etnici: basta guardare al primo Regno di Serbia, alle banovine (province) del Regno di Jugoslavia nonché agli Stati indipendenti creati durante l’occupazione delle truppe dell’Asse per vedere confini totalmente differenti da quelli disegnati poi nel 1945 con la fondazione della Jugoslavia socialista. La costituzione del 1974 dava alle repubbliche la facoltà di secedere (seppure non-unilateralmente) dalla federazione; stabilendo per ognuna quali ne fossero i narod (popoli) costituenti: i serbi lo erano per Croazia, Serbia, Bosnia e Montenegro, risultando la popolazione più numerosa all’interno della federazione. Gli albanesi, invece, godevano dello status di minoranza in Serbia e Macedonia, che garantiva loro autonomie amministrative, linguistiche e religiose. Questa costituzione garantiva un fragile equilibrio tra le varie etnie, in particolare cercando di limitare il predominio demografico dei serbi (“spezzettati” tra province autonome e quattro repubbliche) per evitare un’eventuale sottomissione ad essi delle altre nazionalità.

Lo scoppio della guerra in Jugoslavia

Nel 1991 vengono indette le prime libere elezioni (dal 1945) in tutta la Jugoslavia. Mentre Milošević viene confermato alla guida della Serbia, con il 65% dei voti raccolti dal suo Partito Socialista di Serbia (SPS), nelle altre repubbliche prevalgono formazioni politiche di orientamento nazionalista e separatista.

Nel giugno 1991 Slovenia e Croazia dichiarano unilateralmente l’indipendenza dalla RFSJ: è lo scoppio della guerra civile in Jugoslavia.

A questo punto è necessario fare alcune osservazioni sul ruolo della comunità internazionale, in gran parte responsabile dei tragici eventi successivi. Infatti l’UE, affrettandosi su spinta tedesca a riconoscere l’indipendenza delle due repubbliche (prevenendo in questo modo qualsiasi forma di negoziato e di compromesso tra di esse ed il resto della federazione) e considerando intangibili i confini amministrativi delle due repubbliche separatiste (non concedendo diritto all’autodeterminazione ai serbi di Croazia, che erano invece popolo costituente secondo la costituzione) interferì gravemente in questioni interne di sovranità Jugoslava.
Questo senza menzionare il supporto militare dato ai separatisti croati (ai quali i tedeschi freschi di Wiedervereinigung vendettero buona parte dell’arsenale militare della ex-DDR) e agli incentivi economici garantiti dagli Stati dell’Unione alle due repubbliche (che ringrazieranno svendendo buona parte del proprio patrimonio pubblico ai partner europei).
In seguito all’indipendenza unilaterale, gli oltre 400 mila serbi di Croazia diedero vita alla “Republika Srpska Kraijna” (RSK, 1991-1995), la cui indipendenza formale venne riconosciuta solo dalla Federazione Jugoslava (ovvero l’unione delle due repubbliche di Serbia e Montenegro), su di un territorio nel quale i serbi costituivano oltre il 90% della popolazione.
Pochi mesi dopo, in seguito al referendum sull’indipendenza della Bosnia (passato con i soli voti dei croati e dei musulmani) i serbi della regione fondano la “Republika Srpska”, un’altra entità autonoma dove essi costituiscono la stragrande maggioranza degli abitanti. Ancora una volta, la comunità internazionale interviene irresponsabilmente, impedendo la spartizione del territorio e dichiarando intangibili i confini della Bosnia.

Particolarmente negativo fu il ruolo dell’allora ambasciatore USA a Belgrado, Warren Zimmermann10, che assicurò supporto incondizionato al leader musulmano (e presidente di Bosnia) Alija Izetbegović, inducendolo ad abbandonare le trattative sulla cantonizzazione della regione (il cosiddetto piano Cutileiro) dando di fatto il via alla guerra civile bosniaca nella primavera del 1992.
In sostanza, ben lungi dal voler sottomettere e dominare gli altri popoli balcanici, i serbi hanno combattuto per mantenere la loro unità e il loro diritto all’autodeterminazione, sancito (sulla carta) sia dalle convenzioni internazionali che dalla costituzione jugoslava. Dipinti come criminali e principali fautori della pulizia etnica, in realtà, nel corso dei tre anni di guerra nella ex-Jugoslavia i serbi verranno cacciati dalla Kraijna croata (300 mila profughi e migliaia di morti) ed espulsi dalle maggiori città bosniache come Sarajevo (100 mila esuli) e Mostar (25 mila) con l’esplicito supporto di USA e UE11.
Inoltre la Serbia, “colpevole” durante la guerra di prestare aiuto ai serbi di Bosnia e Croazia, venne sottoposta ad un durissimo embargo protrattosi di fatto fino al 200012, con conseguenze disastrose per l’economia (PIL più che dimezzato nel giro di pochi anni, disoccupazione alle stelle) e la società (criminalità dilagante, centinaia di migliaia di profughi da sistemare ed isolamento internazionale)13. Ma il peggio doveva ancora arrivare.

Verso la guerra in Kosovo

Sullo sfondo delle guerre balcaniche, Milošević riesce comunque a consolidare il suo potere, vincendo nel 1997 le elezioni presidenziali della federazione Jugoslava (composta all’epoca da Serbia e Montenegro), dopo aver ricoperto per due mandati (‘80-‘92 e ‘92-‘97) il ruolo di presidente della Repubblica di Serbia14.

Nel 1996 intanto in Albania si verifica il crollo improvviso del sistema finanziario “piramidale”, cosa che per diversi mesi getta il paese nel caos: approfittando della situazione fuori controllo, gli arsenali delle caserme vengono svuotati per essere poi riversati dalle organizzazioni criminali in Kosovo e nei traffici di internazionali (si conta che più di 700 mila armi leggere “scomparirono” nel corso dell’anno).

È proprio in questo periodo che cominciò ad affermarsi l’Uçk (Ushtria çlirimatare e Kosoves – Esercito di Liberazione del Kosovo): una formazione paramilitare, di ideologia marxista-enverista, auto-finanziata col traffico di armi e di droga, formatasi con l’obiettivo di rendere il Kosovo indipendente ed etnicamente puro.
Se comunque nel 1996 e nel 1997 si registra un numero relativamente limitato (31 e 54) di attentati aventi come obiettivi serbi, albanesi “collaborazionisti” ed altre minoranze etniche, nel 1998 la guerriglia si fa sempre più intensa. In totale, alla fine dell’anno l’Uçk avrà effettuato ben 1885 attacchi terroristici, 1129 dei quali diretti contro la polizia e 756 contro i civili, causando 115 morti tra i primi e 173 morti tra i secondi. Inoltre, solo nel 1998 verranno rapite 293 persone: 174 di loro verranno uccisi e torturati, mentre gli altri saranno liberati o riusciranno a fuggire.

È alla luce di queste cifre enormi (rapportate ad una provincia con un milione e mezzo di abitanti) che va visto il successivo ed inevitabile intervento dell’esercito serbo: le intenzioni “genocide” millantate dalla stampa mondiale appartenevano ancora una volta alla fantasia.
Oltretutto, fino all’estate del 1998 (quando la politica occidentale, come al solito guidata dagli interessi USA, subì un’inversione di rotta) nessuno mise in discussione il diritto della Serbia a difendere i propri cittadini sul proprio territorio: lo stesso dipartimento di Stato americano classificava l’Uçk come una “formazione terrorista”, ed anche l’allora premier albanese Fatos Nano dichiarò di non volersi immischiare nella questione (da lui ritenuta materia di sovranità serba) e non sostenere i propri connazionali dell’Uçk15.

In breve tempo però, in un’escalation di allarmismo e cifre fantastiche (sui giornali statunitensi nell’inverno del 1998 si parlava di centinaia di migliaia di morti albanesi) cominciano a piovere gli ultimatum della comunità internazionale.
Milošević permise quindi all’OSCE ed agli USA di inviare senza restrizioni osservatori per verificare la legittimità delle proprie azioni in Kosovo, credendo (ingenuamente) che fossero interessati alla protezione dei civili della provincia.
In realtà, il gruppo di contatto americano guidato da Richard Holbrooke si occupò soprattutto di armare e sostenere la guerriglia armata dei narcotrafficanti dell’Uçk mentre, nella missione dell’OSCE, si trovavano numerosi militari (tra cui il generale William Walker) il cui ruolo era per lo più di stabilire obiettivi militari e civili dell’aggressione occidentale prossima ventura. Mancava solamente il casus belli per dare il via ai bombardamenti.

Continua...

Note

(10) Guarda caso, oggi ambasciatore in un altro paese “ribelle” in odore di disintegrazione, la Bolivia di Evo Morales.

(11) Per esempio l’operazione Oluja (tempesta) – che nell’agosto 1995 “liberò” la Kraijna dalla popolazione serba che vi risiedeva da oltre settecento anni – fu eseguita con l’assenso dell’allora presidente USA Clinton, che autorizzò diverse aziende americane specializzate nella consulenza militare ad aiutare i croati nella pianificazione ed esecuzione dell’attacco.

(12) Ovviamente per la Croazia, che nello stesso periodo inviava truppe ed armamenti ai croati di Bosnia, così come per l’Arabia Saudita (che armava i musulmani bosniaci) l’embargo non venne neanche lontanamente ipotizzato.

(13) Ricordiamo qui che la Jugoslavia nel 1990, pur essendo un paese socialista monopartitico, vantava un reddito medio pro capite pari a quello della Spagna dello stesso periodo, la piena occupazione, un ottimo livello di istruzione e sanità (entambe universali e completamente gratuite), nonché, a differenza dei paesi del blocco sovietico, una totale apertura delle proprie frontiere in ingresso ed uscita.

(14) L’ “Hitler dei Balcani” godeva nonostante tutto di un largo consenso dovuto alla strenua difesa dello stato sociale (sebbene la crisi economica portasse ad un crollo generalizzato dei salari; mense operaie, sanità ed istruzione continuavano ad essere garantite a tutti) e dell’unità nazionale serba.

(15) Le ragioni di tale inversione USA (controllo dei narcotraffici – come accade in Colombia, Nicaragua ed Afghanistan, controllo energetico, sottomissione di un’area altrimenti indipendente) non verranno qui discusse in dettaglio.

Figure

1. La composizione etnica della Jugoslavia (1991).

2. La RSK (in rosso).

3. La Republika Srpska di Bosnia.

4. Holbrooke assieme alle milizie UCK nel 1998.


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giovedì 12 febbraio 2009

Il Kosovo è Serbia?

Domenica 17 febbraio 2008 l’arroganza, l’impunità e la menzogna hanno portato al potere in una provincia espropriata ad uno Stato sovrano un gruppo di narcotrafficanti ed assassini, col beneplacito dell’imperialismo occidentale. Nell’anniversario di questo evento, è necessario ancora una volta opporre le ragioni della Storia, della Tradizione e della Sovranità dei popoli alle ragioni di un campo che trova solo nella violenza e nella menzogna le proprie giustificazioni.

Kosovo je Srbija. Per l’europeo “medio” risulta difficile se non impossibile capire il senso profondo di questa semplice frase. Niente di strano: a chi dimentica la propria identità e svilisce il proprio immenso patrimonio culturale per cullarsi nel sogno americano non si può chiedere di comprendere e valorizzare l’identità e la cultura di una nazione per cui questo sogno è stato sinonimo di distruzione.
Eppure noi europei avremmo molto da imparare da questo popolo balcanico: dal 1389 (anno della sconfitta nella battaglia di Kosovo Polje [Campo dei Merli] contro l’esercito del sultano turco Murad I) al 1999 (anno dell’aggressione NATO alla repubblica federale Jugoslava) la storia dei serbi è caratterizzata da una resistenza costante, testarda e coraggiosa all’imperialismo (turco, austro-ungarico, tedesco, sovietico ed infine euroatlantico) in nome della sovranità, dell’autodeterminazione e dell’indipendenza della propria nazione.
Per comprendere l’attaccamento viscerale del popolo serbo al Kosovo-Metohija è quindi necessario guardare a questa terra nell’ottica di chi per quella terra, ed in quella terra, ha costruito, vissuto e lottato per secoli.

Breve storia del Kosovo

La storia del popolo serbo inizia proprio in Kosovo: fu in questa regione che i regnanti serbi, con le dinastie dei Nemanjić prima e dei Lazarević poi, svilupparono tra il X e XIII secolo d.C. il primo embrione di stato serbo; fu a Peć, nella Metohija (ovvero il Kosovo occidentale) che la chiesa ortodossa serba ebbe per secoli la sua sede arcivescovile; è in Kosovo che apparvero le prime opere letteraria in lingua serba1; ed ancora, è del Kosovo che parlano poesie, canzoni e poemi epici serbi dal XI secolo ai giorni nostri.
Non solo: l’evento fondante della nazione serba viene individuato proprio nella battaglia di Kosovo Polje, avvenuta il 28 giugno 1389 (il Vidovdan, ancora oggi festa nazionale), dove i serbi dimostrarono un coraggio senza pari: seppure in netta inferiorità numerica, non solo inflissero gravissime perdite al nemico turco, rallentandone di decenni l’avanzata verso l’Europa, ma riuscirono anche (per la prima ed unica volta nella storia) ad uccidere il sultano alla guida dell’esercito invasore.
Sebbene a Kosovo Polje i serbi risultassero alla fine sconfitti, fu solo con la caduta di Belgrado (avvenuta intorno al 1440) che venne completata la loro sottomissione all’impero ottomano, protrattasi poi per quasi cinque secoli. Infatti, solamente al termine della prima guerra balcanica (1878, conferenza di Berlino) venne riconosciuta al Regno di Serbia indipendenza e sovranità, seppure solo su una piccola parte dei territori “etnicamente” serbi: la percentuale maggiore della popolazione di etnia serba continuava infatti a vivere sotto il dominio dell’impero austro-ungarico (in Bosnia e nella Krajina) ottomano (Kosovo e Macedonia) ed in Montenegro2.

La rinconquista del Kosovo-Metohija avvenne nel corso della seconda guerra balcanica, conclusasi nel 1912 con la pace di Kumanovo. Durante i cinque secoli di dominio ottomano, però, la composizione demografica della regione era fortemente cambiata: i vicini albanesi (convertitisi all’Islam e quindi favoriti dai turchi rispetto ai serbi, rimasti cristiani ortodossi) avevano occupato indisturbati buona parte del territorio del Kosovo-Metohija, fino a superare il 50% della popolazione totale.
La riconquista della sovranità dei serbi sul Kosovo ebbe due risvolti negativi sugli albanesi, sia in Kosovo che in Albania: privò i primi dei tradizionali privilegi legati alla loro fede musulmana e bloccò le mire espansionistiche demografiche e territoriali dei secondi, che in Kosovo avevano per secoli trovato uno sbocco.

Alla fine della prima guerra mondiale, con l’instaurazione del “Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni” (diventato nel 1929 “Regno di Jugoslavia”) il Kosovo fu oggetto di un’intensa opera di ri-serbizzazione, con l’invio di alcune decine di migliaia di “coloni” serbi ad affiancare la numerosa – ma minoritaria – popolazione serba locale. La coesistenza dei due principali gruppi etnici (serbi e albanesi) si era rivelata sinora estremamente precaria seppur priva di risvolti violenti, anche grazie al regno autoritario dei Karađorđević.
Con l’invasione della Jugoslavia da parte delle truppe dell’Asse (Aprile 1941) e l’assegnazione del Kosovo all’Albania fascista si verificarono le prime pulizie etniche su grande scala ai danni dei serbi: circa 90.000 di loro (su 300.000) dovettero fuggire in seguito alle violenze dei ballisti albanesi, mentre circa 20.000 furono uccisi nei tre anni e mezzo di occupazione.

La situazione per i serbi del Kosovo non migliorò neanche con la successiva ascesa di Tito che, pensando di poter controllare l’Albania3 mediante gli albanesi jugoslavi del Kosovo e della Macedonia, concesse a quest’ultimi numerose agevolazioni a spese delle altre etnie minoritarie, impedendo oltretutto il ritorno in Kosovo dei coloni serbi cacciati nel corso del secondo conflitto mondiale.
Ben lungi dal sortire gli effetti sperati, questa mossa ebbe l’unico risultato di far perdere col tempo il controllo sulla regione alle autorità serbe e jugoslave, e gettarla di nuovo nel mirino dei nazionalisti pan-albanesi in buona parte sospinti dallo stesso Enver Hoxha, il quale riuscì addirittura ad infiltrare propri uomini di fiducia nei ranghi delle leghe dei comunisti kosovari e macedoni4. Inoltre, la relativa prosperità economica del Kosovo (che, pur essendo la regione più povera della Jugoslavia, confrontata all’Albania di Hoxha sembrava il paradiso5) indusse centinaia di migliaia di albanesi ad emigrarvi, raddoppiando nell’arco degli anni ‘60 e ‘70 il numero di abitanti di questa etnia, che all’inizio del 1980 rappresentava circa l’80% della popolazione totale6.
È importante sottolineare anche il fatto che, con la riforma costituzionale del 1974, al Kosovo-Metohija venne concesso lo status di provincia autonoma all’interno della federazione jugoslava, status che la sottraeva de facto all’autorità di Belgrado, e che permise alla maggioranza albanese di occupare tutte le più importanti posizioni amministrative senza possibilità di opposizione da parte delle autorità serbe.

Negli anni ‘80 la situazione cominciò a divenire insostenibile: nell’autunno 1980 le violente manifestazioni degli albanesi (che chiedevano di attribuire al Kosovo lo status di Repubblica, acquisendo quindi il diritto di secedere) richiesero l’intervento dell’esercito federale, ed i disordini continuarono ininterrottamente fino alla fine del decennio.
Le minoranze non-albanesi del Kosovo (serbi in primis, ma anche montenegrini, gorani, rom, bosniaci e croati) erano nel frattempo diventate bersaglio degli estremisti albanesi; i quali, nel corso degli anni ‘70 ed ‘80, le costrinsero ad un vero e proprio esodo7.
Bisogna quindi contestualizzare sullo sfondo dell’immigrazione selvaggia, contornata da minacce e violenze, e di un’amministrazione controllata dagli albanesi (con una polizia che, per esempio, garantiva un misero 5% di crimini puniti nel caso in cui le vittime fossero state serbe e contava meno del 3% di serbi tra i propri ranghi) le proteste dei serbi del Kosovo del 1987, trampolino di lancio nella scena politica Jugoslava per un giovane dirigente della Lega dei Comunisti di Serbia: Slobodan Milošević.

L’ascesa di Slobodan Milošević

Torniamo quindi al 1987: nell’autunno di quell’anno, in seguito alle manifestazioni dei serbi, Slobodan Milošević venne inviato da Belgrado a Priština per cercare di riportare all’ordine una situazione sempre meno sotto controllo.
Fu in questa occasione che egli ebbe l’ “ardire” di esclamare di fronte ad una folla disperata radunatasi per l’occasione la celebre frase “Niko ne sme da vas bije” (letteralmente: «nessuno ha il permesso di picchiarvi»8) riferendosi ai poliziotti (tutti di etnia albanese) che avevano violentemente represso fino ad allora le manifestazioni serbe nella provincia.
Slobodan continuò poi a parlare con i manifestanti per diverse ore, esprimendo loro supporto ed affermando il loro diritto a vivere in pace nel Kosovo-Metohija, la loro terra, la terra santa di tutto il popolo serbo.
Non l’avesse mai fatto! L’establishment di Belgrado (e di tutte le altre repubbliche), intravedendo in questa manifestazione di solidarietà dei segni di nazionalismo “reazionario” cominciò ad osteggiare l’ascesa di Milošević in ogni modo – ottenendo come unico risultato un peggioramento delle relazioni inter-etniche in tutta la RSFJ, dove i serbi di ogni repubblica invece vedevano in lui un difensore della loro unità e dei loro legittimi interessi.

Sulla scia dell’entusiasmo popolare nei suoi confronti, Slobodan diventa in poco tempo presidente della Repubblica Serba (1989) promuovendo, con il supporto della stragrande maggioranza della popolazione, il rinnovamento della classe dirigente (i cosiddetti movimenti anti-burocratici) in tutta la Serbia e nel Montenegro.
Nel 1990 abolisce l’autonomia formale in Kosovo e Vojvodina, sia per rafforzare l’unità nazionale che (soprattutto) per ristabilire l’ordine in Kosovo. Di fatto le due province continuarono a godere comunque di larghissime autonomie nel campo linguistico, scolastico e sanitario: l’intenzione di Milošević era più che altro di ristabilire la legalità in Kosovo, obbligando polizia e magistratura locali (di fatto complici della pulizia etnica ai danni dei serbi che da anni andava avanti silenziosamente) ad obbedire agli ordini di Belgrado.

Per tutta risposta, gli albanesi, guidati dal leader pacifista Ibrahim Rugova della “Lega Democratica del Kosovo” (LDK), dichiararono l’indipendenza del Kosovo, riconosciuta formalmente solo dall’Albania.
L’LDK guidò in seguito un movimento di boicottaggio di tutte le istituzioni (politiche, scolastiche, sanitarie ed amministrative) serbe nella provincia9, cercando di creare un apparato statale parallelo con il supporto finanziario dell’Albania e degli albanesi emigrati negli USA e nei paesi dell’Unione Europea.
Fino al 1996 in Kosovo si respira un’aria di calma apparente: i rapporti tra i due principali gruppi etnici, sebbene tesi, raramente sfociarono in episodi di violenza, e solo la presenza forte dello stato serbo nella regione sembra poter prevenire lo scoppio di disordini.
Gli eventi bellici ed economici che sconvolsero i balcani dal 1991 al 1996, però, dovevano ripercuotersi profondamente anche in questa provincia, innescando una spirale di violenza culminata con l’intervento della NATO nel marzo 1999.

Continua...

Note

(1) È proprio in Kosovo, infatti, che si parla anche oggi il dialetto più antico della lingua serba.

(2) Montenegro e Serbia vennero entrambi riconosciuti indipendenti nella conferenza di Berlino, nel corso della quale venne anche esplicitamente proibita la loro unione, per evitare che un forte stato slavo del sud favorisse l’irredentismo e l’autodeterminazione di tutti i popoli sotto il giogo dei due imperi. Di fatto, però, serbi e montenegrini sono lo stesso popolo: separati solo da tradizioni storiche politico-sociali, essi condividono lingua e religione.

(3) Fino al 1948 – anno della rottura di Tito con Stalin – si supponeva che l’Albania dovesse entrare a far parte di una confederazione di stati balcanici assieme a Bulgaria e Jugoslavia.

(4) Le “Leghe dei Comunisti” erano gli organi amministrativi delle province e delle repubbliche jugoslave.

(5) Per non parlare del fatto che, in qualità di provincia povera, il Kosovo riceveva quasi il 40% dei fondi federali per lo sviluppo: di fatto i serbi – assieme alle altre nazionalità jugoslave – finanziavano infrastrutture, ospedali e università ad uso e consumo degli albanesi che si stavano impossessando della provincia.

(6) Nel 1948 gli albanesi erano poco meno di 500 mila su un totale di 750 mila abitanti della regione (escludendo gli oltre 100 mila serbi espulsi ed uccisi nel corso della II GM), ovvero il 65% del totale. Nel 1981 la situazione era la seguente: su 1 milione e 580 mila abitanti, 1 e 250 mila erano albanesi, ovvero circa l’80%. È ovvio che un incremento demografico di tali dimensioni (in soli 30 anni) può essere attribuito solo in minima parte ad un elevato tasso di natalità.
Nello stesso periodo invece, la popolazione totale di etnia non-albanese (in primo luogo serbi, ma anche montenegrini, turchi, gorani e rom) rimase sostanzialmente la stessa in numero: l’incremento dovuto alla natalità era ampiamente superato dall’emigrazione, nella maggior parte dei casi causata appunto dalle pressioni albanesi.

(7) In un articolo del 1987, il “New York Times” raccontava di come gli albanesi stessero volontariamente destabilizzando la provincia, vessando, minacciando ed uccidendo gli appartenenti ad altre etnie. L’articolo si trova qui.

(8) Questa frase è stata tradotta nei modi più disparati (ed inesatti) a seconda del grado di serbofobia del giornalista/storico di turno: non di rado ci si imbatte in “traduzioni” del tipo “Chi ha toccato i serbi pagherà col sangue” o “Nessuno dovrà mai più permettersi di toccare un serbo” tutte tese a dipingere (con l’aiuto della fantasia, ma non della storia) Milošević quale dittatore sanguinario già all’inizio della sua ascesa politica. Questa stessa gente in genere “cita” il “Memorandum dell’Accademia Serba delle Arti e delle Scienze” (un documento pro-serbo pubblicato su un giornale belgradese nel 1986 e firmato da una serie di professori ed intellettuali) come “prova” della cospirazione genocida serba: più o meno, è come se tra vent’anni un qualsiasi “Manifesto per la difesa della costituzione” (che appare con cadenza bimestrale qui in Italia) venga considerato la prova di una “opposizione sanguinosa al regime berlusconiano”. Tanto per citare un paio di “prove” e “fatti” che rendono l’idea dell’affidabilità e della competenza della “stampa libera” in materia.

(9) Gli apologeti dell’indipendenza kosovara in genere affermano che i serbi «impedirono l’accesso ad ospedali e scuole» agli albanesi. In realtà erano gli albanesi (o meglio, la parte di loro che supportava la secessione) che decisero di non accedere più a scuole ed ospedali. L’assenza di una discriminazione su base etnica da parte dell’amministrazione serba è provata (per esempio) dal fatto che il 15% della popolazione albanese rimasta leale alle istituzioni serbe continuò ad usufruire normalmente di tali servizi, così come fecero le comunità bosgnacche, rom, montenegrine e gorane residenti nella provincia.

Figure

1. Il monastero di Gračanica (1321).

2. Bandiera attuale della Serbia.

3. Il presidente Milošević durante il discorso per il seicentesimo anniversario della battaglia di Kosovo Polje.

4. Mappa etnica del Kosovo: in giallo le zone a maggioranza serba (1999).


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