mercoledì 27 ottobre 2010

«I mercenari»: torna alla grande l’action movie



Articolo pubblicato in «Occidentale», settembre 2010, pp. 39-40.


È giunta recentemente nelle sale cinematografiche italiane, stracciando record d’incassi, la nuova fatica di Sylvester Stallone: I mercenari. Un successo che mette a tacere alcuni critici poco generosi e poco elastici, quelli che vorrebbero caterve di pellicole impegnate, con denuncia sociale (meglio ancora se moralistica) e con introspezioni psicologiche da strizzacervelli. E invece no: lo «stallone italiano», tirato a lucido e superallenato (anche con l’ausilio di qualche bella «bomba»), batte tutti riesumando il genere classico dell’action movie anni Ottanta, di cui il film vuole essere un pirotecnico tributo.

Chi è che non ha mai visto Grosso guaio a Chinatown, Tango & Cash, Rambo, Terminator o Codice Magnum? In effetti il film d’azione ha costituito un filone fondamentale del cinema negli ultimi trent’anni, sebbene ultimamente sia passato un po’ di moda, anche a causa dei recenti strampalati e patetici tentativi di emulazione, sicché non era facile per Stallone riproporre il genere senza cadere nel ridicolo (e con Rocky VI e Rambo IV ci era andato molto vicino…). Allora il regista ha deciso di andarci giù pesante, realizzando un piccolo «kolossal» dell’action movie, e reclutando i migliori action men su piazza.

Il cast, infatti, è ricco e qualitativamente superbo. Oltre a Stallone, troviamo così Jason Statham (esperto di Kickboxing e Valetudo), Jet Li (campione di Wushu e icona del cinema d’azione cinese), Terry Crews (ex giocatore di football), Randy Couture (campione di Valetudo e lotta greco-romana) e Dolph Lundgren (il mitico Ivan Drago di Rocky IV, ex campione di Karate): è questa la squadra degli Expendables, dei «Sacrificabili». Ma anche tra le comparse e i ruoli minori troviamo campioni di arti marziali, magari non molto famosi in Italia, ma veri vip negli Stati Uniti: le guardie del corpo del «cattivo» sono, per esempio, Steve Austin (ex wrestler) e Gary Daniels (esperto di Karate e Kickboxing).

Ma la lista si allunga, se pensiamo ad altri che hanno rifiutato, ognuno per motivi particolari, la «chiamata alle armi» di Stallone, attori e artisti marziali del calibro di Steven Seagal, Kurt Russell, Jean Claude Van Damme, Jackie Chan e Wesley Snipes. Da ciò si capisce bene come tutti gli amatori dell’action movie e delle discipline da combattimento siano accorsi numerosissimi ai botteghini per vedere i loro paladini all’opera. Per certi versi, un successo annunciato.

La storia, per il resto, non è un granché originale, ma il suo svolgimento è elettrizzante. Sostanzialmente, il film tratta di un gruppo di mercenari, gli Expendables (i «Sacrificabili»), specializzato in operazioni ad altissimo rischio. La squadra è composta da Barney Ross (Stallone), il capo, Lee Christmas (Jason Statham), esperto in armi da taglio e in pena d’amore, Yin Yang (Jet Li), cinesino piccolo ma letale, Toll Road (Randy Couture), un ex wrestler in cura dall’analista e con un orecchio a forma di cavolfiore, Hale Caesar (Terry Crews), che vive un intenso rapporto amoroso con la sua «fidanzata» (cioè un grazioso fucile mitragliatore dai proiettili in grado di spappolare un uomo con un sol colpo) e Gunnar Jensen (Dolph Lundgren), un gigante sanguinario e un po’ squilibrato a causa dell’uso smodato di stupefacenti.

È proprio Gunnar che, all’inizio, si farà cacciare da Barney, a seguito di un’azione su un cargo di terroristi somali. La missione è compiuta, gli ostaggi sono salvi, ma il capo non se la sente di tenere con sé un uomo tanto imprevedibile e inaffidabile.
La squadra si riunisce poi da Tool (un grande Mickey Rourke, benché un po’ troppo fuori forma), un tatuatore donnaiolo ed ex membro del gruppo che svolge ora il ruolo di tramite tra la banda e i mandanti.

Arriva quindi la chiamata per un nuovo incarico, un’azione in un piccolo inferno latinoamericano, un’isola fittizia del Golfo del Messico (Vilena) che conta appena 6000 anime e una guarnigione di 200 soldati. L’offerta «ufficiale» si svolge in una chiesa deserta. Ma quella che potrebbe apparire una scena banale e secondaria si trasforma in uno vero e proprio show: il mandante è impersonato da Bruce Willis, mentre il concorrente di Barney è Arnold Schwarzenegger. I due attori, icone del cinema d’azione, si prestano a questo breve ma intenso cameo, in cui fioccano citazioni e allusioni varie. Se infatti Trench Mauser (Schwarz) declina sarcasticamente l’offerta in favore di Barney perché quest’ultimo «è pratico di giungla» (chiaro riferimento a Rambo), il capo dei Sacrificabili, rispondendo al mandante sul perché Trench è così impegnato da rifiutare il lavoro, dice: «vuole diventare Presidente».

Allusione senz’altro interessante, benché realizzata in un clima goliardico e scanzonato. Schwarzenegger, come tutti sanno, è il governatore della California, e non è affatto peregrina l’ipotesi che si possa candidare alla presidenza. D’altronde non è la prima volta che la potente lobby di Hollywood dà una mano alla politica statunitense. Tra i tanti casi, qualcuno forse ricorderà il «cattivone» di Mission Impossible II (2000), impersonato da un Dougray Scott un po’ troppo simile a Jörg Haider, proprio dopo il successo nel 1999 del politico austriaco. O forse si potrebbe citare il caso di Spielberg che, non reputando più spendibile il Male Assoluto (il nazismo), nel penoso Indiana Jones IV (2008) virò sulla Russia sovietica nel ruolo di «Stato malvagio», proprio mentre si andava consumando la crisi USA-Russia in merito alla questione georgiana per l’Ossezia, con inoltre il capitano dei russi che presentava forti somiglianze con Putin.

Forse, anzi probabilmente, il cameo di Schwarz non è niente di più di ciò che sembra, e cioè una scenetta divertente piena di succose gag. Però, quel che è certo, conoscendo la grande preparazione politico-culturale dell’elettorato statunitense, è che il «nostro» Terminator avrà corposamente accresciuto la sua popolarità. Tra l’altro non sarebbe affatto assurda l’ipotesi, dopo il quadriennio da soft power di Obama, del ritorno a un Presidente risoluto e cazzuto, tipo Schwarz. E poi, non era forse anche Reagan un attore? Vabbe’, chi vivrà vedrà…

Tornando a noi, Barney e Lee si recano, a bordo del loro aeroplano, all’isola di Vilena per un sopralluogo, dove il generale Garza (David Zayas), l’obiettivo della missione, ha da poco instaurato una dittatura militare. Qui i due sono guidati da Sandra (Giselle Itié), una giovane e avvenente ragazza del luogo, che poi scopriranno essere la figlia di Garza. Fermati dai soldati, dovranno dare un saggio delle loro capacità massacrando il plotone. Riescono infine a scappare (non senza aver prima mitragliato e incenerito dall’aereo i rinforzi), ma la ragazza non li segue, scegliendo coraggiosamente di rimanere.

Una volta ritornati negli States, vengono a conoscenza dell’identità del loro mandante (che si era fatto chiamare Mr Church), ossia un agente della Cia che vorrebbe far uso di loro per eliminare il vero obiettivo dell’operazione, James Monroe (Eric Roberts, fratello sfigato di Julia), un ex agente dei servizi segreti americani e il reale burattinaio che muove i fili a Vilena, in cui spera di fare grossi affari grazie al traffico di droga. A queste condizioni, ovviamente, la missione salta.

C’è però qualcosa che frulla nella testa di Barney e che non lo fa dormire: il coraggio di Sandra e la sua fede nel proprio ideale, per cui è pronta ad andare incontro a morte certa, mentre lui, il mercenario senza valori, è morto nell’anima. È qui che si inserisce l’accorato discorso di Tool, che francamente suona un po’ melenso e manierato, e che poco spiega della vera essenza della figura del mercenario. E questo discorsetto è proprio un elemento pressoché inesistente nella classica pellicola d’azione, spesso fine a se stessa, priva di catarsi finale, e che ha proprio nella sua spensieratezza tra legnate, risse e battute salaci la sua ragion d’essere. Eppure sembra ormai diventato un marchio di fabbrica dell’ultimo Stallone.

Insomma, per farla breve, Barney decide di tornare a Vilena per salvare la ragazza dai cattivi, e i suoi fidi commilitoni si uniscono a lui in quella che è diventata ormai un’azione suicida. I combattimenti sull’isola sono numerosissimi e tecnicamente molto curati, una vera chicca per gli amanti del genere. Non mancano poi riferimenti e citazioni, come, per esempio, il combattimento decisivo tra Toll e Dan Paine, cioè tra Couture e Austin, i due campioni di lotta, o come il lancio footballistico di un’enorme bomba da parte di Terry Crews. Ed è proprio questo il punto di forza del film: le mirabolanti e pirotecniche scene d’azione. Potrebbe sembrare un’affermazione tautologica, eppure l’action movie è riproposto con perizia e innovazioni tecniche di notevole livello, il tutto condito dalle solite battute goliardiche e irriverenti.

In definitiva, un bel film che centra i suoi obiettivi: tributo al genere classico degli anni Ottanta e superincassi al botteghino. Se siete appassionati di arti marziali e di film d’azione, se volete trascorrere una piacevole serata con gli amici, all’insegna di ossa rotte e di cazzeggio, non ne rimarrete affatto delusi. Se, invece, siete borghesucci con monocolo e sensibilità al caviale, incalliti fan dei trentenni falliti e delle lagne di Özpetek e Almodóvar, allora restatevene a casa: non fa per voi...

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giovedì 14 ottobre 2010

Giovani e ribelli: non «tre metri sopra il fascio»



di ANTONIO RAPISARDA (in «Secolo d’Italia», 13/10/2010, pp. 8-9)


Mancava. Ne hanno scritto sui giornali, l’hanno fotografata e radiografata nei documentari. I più, all’inizio per pregiudizio o superficialità, ne hanno demonizzato nome e obiettivi. Qualcun altro, seppur in buona fede, non è andato oltre il resoconto. Mancava. Perché probabilmente solo un romanzo poteva riuscire a inquadrare davvero il “fenomeno CasaPound”. Solo il racconto, con i suoi spazi e la capacità di legare l’immaginario a una vicenda, poteva dare conto di un “corpo” che è politica, ma è soprattutto una storia corale che andava espressa pubblicamente. Era difficile rappresentare, condensare un’esperienza che ha squarciato più di un pregiudizio e ravvivato un panorama giovanile asfittico e rinchiuso in un minimalismo sempre più antisociale. Era un azzardo aprire lo sguardo dentro una realtà che si esprime con le icone di Capitan Harlock e del futurismo ma che sente di avere, semplicemente, solo il proprio destino tra le mani e nulla e nulla da farsi perdonare. È toccato a Domenico Di Tullio, che di professione fa l’avvocato e che da tale difende CasaPound, il compito. E col romanzo Nessun dolore (edito da Rizzoli, pp. 238, € 16,50) ci è riuscito. Il tentativo era complesso, perché impresa ardua doveva essere quella di raccontare l’eresia per eccellenza – un “centro sociale occupato di destra” (ma loro forse direbbero di “estremocentroalto”) – senza il conforto dei sacerdoti della Santa Inquisizione.

Il rischio maggiore però, speculare alla demonizzazione, era l’agiografia. E invece questa sorta di narrazione dei seguaci di Ezra Pound scorre nelle pagine del romanzo veloce come gli scooter che scorazzano i giovani “blocchetti” in giro per Roma. Sì, al centro di tutto ci sono loro: i figli di questa creatura che ha un po’ rivoluzionato l’estetica e lo stile di un’antropologia che ha scelto l’impegno politico a destra ma non solo. E che un po’ come tanti piccoli Enea hanno rimodellato la propria fisionomia a partire dalle macerie di un ambiente metapolitico in crisi di linguaggi e di suggestioni che non fossero la stanca ripetizione di cliché o di memorialistica degli anni Settanta (forse quelli degli zii, ormai…).

Spavaldi e sfrontati sono i protagonisti del romanzo. Maledettamente vivi. Alle prese qui con una brutta storia di strada che diventerà l’espediente narrativo attraverso il quale l’autore ci porta dentro la corazza della “tartaruga” (il simbolo di CasaPound) di carne e marmo che dal 2003 è oggetto di studio per sociologi e politologi che ancora oggi non riescono a spiegarsi come un fenomeno del genere abbia coinvolto migliaia di ragazzi nel nome della “lotta all’usura” e del rock’n roll. Be’, basta uno dei dialoghi del libro per capirlo: «Oggi non avremmo fatto la rivoluzione, ma quanto ci siamo divertiti...». Con questa frase – più che qualunque socio-analisi – si schiude un mondo animato da «fasci eretici e anarchici insofferenti», da «poeti dell’alcol e dello scavalco, campioni di arti marziali letali quanto sconosciute, esperti dell’entro a spinta, filosofi dello scusa lo dici a tua sorella». Una sorta di codice metropolitano con venature di Sun Tsu, situazionismo e citazionismo da detournement alla Rino Gaetano. O forse, più semplicemente, una vitalistica ed eterna voglia di avventura.

E tutto questo avviene nello scenario di una Roma restituita alla sua complessità. Già, nelle pagine di Di Tullio non ci stanno i quartierini bohemien per fuori sede benestanti pugliesi, calabresi o siciliani e fighette gaudenti. Ma i protagonisti solcano strade vere, quelle che raccontano di quartieri vittime della speculazione del mercato immobiliare e del degrado, così come quelli di una città orgogliosa che ha conosciuto tra le sue strade la passione vera e i cui muri sono testimonianza, lavagne incise anche dal sangue di questa temperie. Ed è qui – vuoi che sia l’Esquilino e la seduzione notturna di piazza Vittorio o le periferie dell’Eur e di Casal Bruciato – che si muovono tutti i personaggi. La vicenda è un incontro tra tre generazioni che hanno vissuto in modo diverso una certa idea dell’impegno. Ci sono i protagonisti e leader del Blocco Studentesco Flavio e Giorgio, uno figlio della borghesia «che non ride mai» di Roma nord, l’altro romano della Garbatella sfrattato dal quartiere popolare assieme alla famiglia «dai nuovi ricchi borghesi e sinistrorsi, gente che parla con la bocca a culo di gallina, si fa i bagni con l’idromassaggio e si traveste da proletario quando esce». E dall’incontro tra i due, che sono l’alfa e omega di una comunità che intende aristocrazia dello spirito e goliardia popolare come assi cartesiani, che si entra all’interno delle storie nella storia. Perché accanto all’amicizia e alle scorribande dei due c’è la cultura di strada e le cicatrici di Massimo che con i suoi trent’anni rappresenta l’emblema di quella generazione che, a cavallo degli anni Novanta, rimase vittima della transizione politica di una destra che nella fretta di diventare di governo si dimenticò delle responsabilità verso un’intera generazione. E accanto, assieme e oltre questi c’è lui, l’avvocato. Un fascista-beat, un dandy che porta con sé il disincanto del limbo e affoga la rabbia perdendosi nelle vertebre ammorbidite di una rocker. Una sorta di guardiano della soglia, un “vecchio” (appena quarantenne) che di fronte alla vicenda e all’entusiasmo di questi giovani pirati rimarrà alla fine coinvolto e da tutto questo risvegliato. Ma in fondo in questa avventura sono tutti coinvolti. Richiamati da un marcia scandita dalle note degli Zetazeroalfa – la band capitanata dal leader e mentore di CasaPound Gianluca Iannone che nel romanzo assume una fisionomia ieratica – dal sudore che si spreca urlando la propria gloria allo stadio o tra gli abbracci stremati nel ring dopo un incontro. Tutti luoghi dell’anima per questa strana fauna che ha trovato «il proprio posto nel mondo» all’interno di una comunità integrata e variegata. Dove gli “anziani” (il più grande ha trentacinque anni) tramandano ai giovani, ma anche i giovani danno molto ai grandi: ed è da ciò che si irradia quella “bellezza” che nelle pagine del romanzo irrompe ogniqualvolta salpa la ciurma.

E questa avventura si incrocia fatalmente con il girone del dolore. Che è composto dal mondo delle carceri e dei tribunali (luoghi nei quali l’autore apre una fessura non banale né autocompiaciuta). Così come dalle strade e dalle mille storie che ispirano non più canzoni disperate, ma un disperato amore per le canzoni. Ed è nel dolore, infine, che si conosce anche l’altro. Che è carne, sudore, fame, ma anche le linee candide delle donne del romanzo: che sono demoni e genitrici. Perché c’è Giulia «bella come una carica della polizia», Daniela e il coraggio di dirle addio, Martina e il suo sorriso che riempie. Ma, attenzione, qui non c’è per spazio per i “tre metri sopra al fascio”. Lo stesso amore è lacerante, quello che fa crescere nell’incontro quanto nell’abbandono e nell’impossibilità. E anche quando i ragazzi si ritrovano a ponte Milvio, vena “fascia” di Roma descritta efficacemente, lo si fa per brindare all’anima bella di Brasillach e ai vincoli che non si spezzano. Altro che lucchetti.

Un romanzo choc? Forse sì. Ma proprio per il motivo che non ti aspetti: perché chiunque alla fine della storia può riconoscere un pezzo di sé e può immedesimarsi anche in una storia di giovani “fasci”. Un romanzo generazionale – ma anche generativo – frutto di una scelta coraggiosa e riuscita anche da parte della Rizzoli, che ha investito con rara libertà su un fenomeno che fa discutere perché crea dibattito e non, come vorrebbe ancora qualcuno, solo allarme. E proprio l’episodio (vero) di chiusura diventa occasione per raccontare lo spirito con il quale questi giovani si sentono «beati nei lividi di domani». Perché questi negli scontri di piazza Navona – quelli che li hanno messi alla ribalta quando sono stati caricati da chi voleva scacciarli dalla protesta studentesca – scegliendo non l’attacco ma la difesa di un principio hanno consacrato il proprio diritto di esserci. Dinanzi all’intolleranza, hanno sofferto per affermare libertà. Per questo alla fine di tutto non resta proprio “nessun dolore”. Ma solo gioia. E vita.

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mercoledì 13 ottobre 2010

«Nessun dolore»: intervista a Domenico Di Tullio

Fonte: Ideodromo CasaPound

1. Allora, Domenico, per non sbagliare partiamo da un evergreen della banalità giornalistica: quanto c’è di te nella voce narrante di Nessun dolore?

Ritengo che ogni romanzo sia espressione della personalità di chi lo scrive. Certamente fra i personaggi del libro uno in particolare mi è più vicino per età, professione e quartiere di Roma che abita.


2. Un romanzo su CasaPound che esce per Rizzoli: abbiamo vinto la rivoluzione e non ce ne siamo accorti oppure siamo semplicemente diventati parte del paesaggio di un sistema che ci ha già «digeriti»?

Non so se CasaPa’ abbia vinto la rivoluzione, certamente esiste un forte interesse per l’immaginario che esprime: è una fascinazione istintiva, che supera il pregiudizio e genera curiosità. Ciò che attrae è il modo di vivere, l’immagine e lo stile che esprimono le sue iniziative, persino più delle battaglie politiche. Questo libro è certamente la prova di questo interesse, oltreché del coraggio editoriale che bisogna riconoscere a chi lo ha voluto pubblicare. Ogni giorno, del resto, aumenta l’interesse verso il mondo delle tartarughe, lo stupore che un carapace così robusto e diverso dal solito contenga un’anima leggera e deliziosa.


3. Uno dei personaggi del romanzo è un «vecchio» militante che ha un rapporto ambivalente con la novità politica e quasi antropologica dei ragazzi del Blocco studentesco. Senza abbandonarci allo spoiler gratuito, puoi dirci qualcosa in più di questa figura?

Ho voluto costruire un personaggio che racchiudesse in sé tutte le contraddizioni di molti dei militanti della destra radicale prima di CasaPound. Un archetipo di quello che erano gli attivisti quindici anni fa, confusi tra la necessità di superare vecchi schemi e imbarazzanti eredità ideologiche, incapaci di distinguere la differenza tra forma e sostanza, tra tradizione e nostalgia, spesso prima sfruttati e poi sacrificati da chi ha abbandonato velocemente il bomber per cucirsi addosso un doppio petto su misura. Molti di questi «vecchi» militanti hanno successivamente trovato in CP la sintesi perfetta e pacificatrice, altri ancora raccontano di quanto ai loro tempi fosse tutto migliore e diverso, sempre reietti, sempre marginali, in fondo sprecati e inutili.


4. Rimaniamo nella dialettica old school/new school: la tua conoscenza dell’ambiente politico di «destra radicale» data ormai dagli anni ’80, i cambiamenti sono stati molteplici ma diresti che hanno finito con l’investire lo stesso tipo umano che ne fa parte? In altre parole si può parlare di mutazione antropologica, almeno in dati ambiti?


La mutazione antropologica negli ultimi dieci anni è stata evidente, propiziata da un clima più favorevole e dallo sviluppo dei mezzi di comunicazione diretta, che certamente hanno influito e fatto crescere una parte consistente di quella che viene ancora definita la destra radicale. C’è da dire che grande importanza ha rivestito il fatto di avere dei luoghi fisici, occupazioni e spazi in altro modo raggiunti, che sono diventati veri e propri laboratori di cultura e azione, sia politica che, soprattutto, metapolitica.


5. Di tanto in tanto, in Nessun dolore, compare la Bellezza: kratofania che bagna di freschezza le menti e i corpi, vero e proprio «stato di grazia» che sopraggiunge a strappare i protagonisti dalla banalità del mondo degli uguali. Chi conosce il nostro universo sa di cosa parliamo. Agli «altri», a chi leggerà il romanzo senza conoscere il mondo che esso descrive, come racconteresti l’essenza della Bellezza?

La bellezza è l’elettricità che ti pervade, uno tra mille e unito a mille altri, quando riconosci il tuo amore, la tua essenza, il tuo destino. Non so spiegare la bellezza, mi limito a raccontare ciò che, credo, la maggior parte di noi ha la capacità di riconoscere. Nella quotidianità di CasaPound è presente un’attitudine particolare alla ricerca della bellezza, che diventa una vera e propria modalità d’azione: questa pervade le iniziative, i rapporti umani, le scelte culturali ed è una spinta costante, un incentivo, una motivazione fortissima e inebriante.


6. Molto bella la descrizione del «corpo-macchina», di queste membra che si apprestano a compiere uno sforzo fisico che non è più «sport» ma già quasi «rito». C’è una specifica via alla politica attraverso la corporeità che è tipica di CasaPound?

L’azione di CasaPound è sempre molto fisica, la corporeità ha una grandissima importanza tra i suoi militanti e simpatizzanti: le decine di associazioni sportive nate sotto l’egida della tartaruga, i tatuaggi simbolici immediatamente riconoscibili, il rito fisico che spesso accompagna i momenti di passaggio sono le manifestazioni naturali di una concezione tradizionale che vede il benessere del corpo coincidere con quello spirituale. Non è un caso il grande successo degli sport da combattimento tra i militanti di tutte le età, che educano al controllo, alla resistenza al dolore contingente, al rispetto per le regole e l’avversario, al coraggio.

 Quest’ultimo diviene una qualità spirituale e metafisica, uno stile di vita ove corporeità e spirito si fondono senza soluzione di continuità.


7. CasaPound e il «mondo esterno»: in particolare in certi filoni pare emergere un nuovo protagonismo, laddove un tempo la percezione di una condizione di esclusione ha avuto effetti pressoché immobilizzanti... Il tuo romanzo in qualche modo parla anche di questo, no?

Certamente l’attenzione facilita la comunicazione attiva! CasaPound non è comunque un ghetto nel quale rinchiudersi e autocompiacersi, ma un avamposto nel mondo, una posizione da mantenere per slanciarsi alla conquista del nuovo. Il giovane Blocchetto non si limita a ritagliare un suo spazio rappresentativo all’interno di un educato consesso di mini politicanti scolastici, vuole riprendersi tutto un mondo che gli appartiene di diritto; il militante e il simpatizzante della Tartaruga vive con serenità e determinazione una lotta quotidiana per riconquistare tutto ciò che serve la sua visione della vita, non una riserva indiana né un giardinetto in qualche paradiso fiscale.


8. Un altro elemento pare essere cambiato in peso e consistenza: quello della musica in ambito politico, che si è spostata dallo sfondo al primo piano.... La musica è un elemento che ha caratterizzato i primordi di CP. La nostra convinzione personale è che rappresenti al meglio l’ambito nel quale il movimento delle tartarughe eccelle, per ora: quello metapolitico e culturale.

È una convinzione che condivido pienamente: il messaggio delle tartarughe si esprime al meglio attraverso i percorsi metapolitici e l’attitudine alla forma movimento, estremamente fluida e libera, aperta e ricca di iniziative e provocazioni intelligenti. La musica è l’origine del gruppo umano che ha fondato CasaPound e la sua espressione più condivisibile e universale. Il primo manifesto delle Tartarughe è stato sicuramente un cd degli Zetazeroalfa e anche l’ultimo e più recente.


9. L’attuale mondo digitale sta rendendo le forme di appartenenza sempre più «liquide», evanescenti... l’appartenenza che invece esce fuori dal romanzo pare avere tutt’altra concretezza...

Il concetto di appartenenza che racconto coincide esattamente con la militanza: oggi è difficile spiegarlo a chi non ha avuto esperienza diretta dell’unità e della coesione che vivono i ragazzi di CasaPound, della totale dedizione, del sacrificio e della compartecipazione delle loro azioni. La comunicazione digitale offre la possibilità di essere nello stesso istante in mille posti diversi, di sprecare mille vite diverse al giorno, di impegnarsi in cento discussioni contemporaneamente, senza essere mai se stessi, senza versare una sola stilla di sudore. La militanza dei ragazzi di CP è una testimonianza costante e veritiera della loro essenza, ciò che convince e conquista chiunque li veda all’opera.


10. Abbiamo iniziato con il classico «quanto c’è di te nel tuo libro», finiamo con un altro luogo comune: prossimi progetti letterari in cantiere?

Due o tre, beneficiando dei tempi lunghi che mi posso permettere, visto che rimango uno scrivente non professionista. Tra gli altri, mi piacerebbe scrivere un libro che racconti delle esperienze professionali e umane di una particolare declinazione di avvocato: il difensore d’ufficio. Alla maggior parte verrà in mente il pigro avvocato che si rimette alla clemenza della corte, tuttavia la realtà è molto diversa e spesso è grazie all’abnegazione professionale di questi professionisti bistrattati e malpagati che la giustizia italiana non crolla su se stessa. Nel frattempo, sto collaborando a un progetto giornalistico collettivo che si chiama Rashomon come il film di Kurosawa, che vuole raccontare in forma di diario e blog, quindi in soggettiva e in presa diretta, scenari di conflitto etnico e politico dal basso, raccogliendo testimonianze e offrendo immagini senza filtri. A metà settembre siamo stati in Kosovo, nuovo Stato a maggioranza musulmana albanese e radicatissima minoranza serba, che rappresenta bene la realtà balcanica, lacerato cuore dell’Europa più vicina all’Oriente.



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