venerdì 30 gennaio 2009

Studenti romani per un Tibet libero

Students for a free Tibet è un’associazione internazionale che lotta per i diritti del Tibet, soprattutto a livello studentesco.

Nasce nel 1994 a New York ed ha sedi in tutto il mondo. Dal 2005 ha posto le sue radici anche in Italia grazie a Gelek Yakar, responsabile nazionale. Successivamente si è estesa anche a Milano, Trento, Bolzano, Siena e nel maggio 2008 a Roma.
È e vuole essere un’associazione completamente apolitica e trasversale, che porti nelle scuole e negli atenei, attraverso assemblee, conferenze e qualsiasi altra attività, una sensibilità maggiore per il dramma che il millenario popolo tibetano patisce quotidianamente, oramai da lunghi decenni.

Negli anni passati siamo stati protagonisti di molte proteste, tra cui quelle antecedenti alle olimpiadi di Pechino, abbiamo organizzato varie conferenze in licei ed università e abbiamo partecipato a molte manifestazioni, cercando di dare sempre il massimo alla lotta per la libertà del Tibet.

Con l’occasione della nascita del sito internet di Students for a free Tibet Roma, proponiamo questo interessante articolo intitolato “Gli interessi cinesi in Tibet” tratto dall’opuscolo informativo “La questione tibetana”, scaricabile in formato pdf sia nella sezione link sulla destra del nostro blog, che direttamente dal sito http://www.sftitalia.org

I motivi per cui la Cina porta avanti una vera e propria occupazione coloniale nel terzo millennio sono molteplici e tutti inquadrabili nella continua ricerca di risorse per sostenere il suo sfrenato sviluppo economico.
Il programma di sviluppo occidentale cinese del 2000 (China Western Development) è stato attuato anche in diverse regioni “autonome” e così milioni di dollari arrivati da Pechino hanno potuto trasformare il Tibet da una delle zone più incontaminate del mondo ad una immensa fabbrica di risorse naturali e manodopera a costo zero. Non solo infrastrutture, sfruttamento di risorse naturali e centrali nucleari ma anche i cosiddetti “programmi di educazione e salute sociale” hanno cambiato in modo irreversibile “il tetto del mondo” e la sua popolazione; decine di specie di mammiferi, rettili e volatili sono scomparse dalla faccia della terra e vastissime riserve naturali oggi sono violate da autostrade, industrie e discariche nucleari.
Negli ultimi anni sono state distrutte foreste millenarie di querce e betulle per fare spazio all’agricoltura intensiva praticata dagli immigrati cinesi in cerca di fortuna, senza contare che la sola raccolta di legname ha fruttato alla Cina più di sessanta miliardi di dollari.

L’altopiano tibetano e i suoi ghiacci rappresentano la più importante riserva d’acqua di tutta l’Asia, il controllo di questo bene sempre più raro è fondamentale per il governo cinese: oltre alla costruzione di dighe e centrali idroelettriche sono stati deviati i corsi di decine di fiumi per rifornire d’acqua città cinesi come Chengdu, Xining, Lanzhou e Xian con tutte le nefaste conseguenze ambientali che questo comporta, dalla desertificazione alle inondazioni improvvise.
L’estrazione di petrolio concessa a compagnie petrolifere occidentali e lo sfruttamento delle risorse minerarie (uranio in primis ma anche ferro, oro, rame) di cui il Tibet è ricchissimo hanno fatto guadagnare al regime di Pechino più di ottanta miliardi di dollari. Secondo i rapporti di diversi organismi internazionali e per stessa ammissione del governo cinese il Tibet, essendo dotato delle più importanti riserve di uranio oggi conosciute, è teatro di numerosi esperimenti nucleari portati avanti dall’industria bellica e ciò produce gravissime conseguenze su tutta la popolazione.

Allo sfruttamento intensivo delle risorse naturali si accompagnano i famigerati programmi di educazione sociale e l’arrivo di milioni di immigrati da una Cina sempre più afflitta dal problema della sovrappopolazione.
Negli ultimi cinquant’anni nella sola provincia dell’Amdo la popolazione è aumentata da 1,5 a 5 milioni di abitanti, migliaia di pastori e contadini locali sono stati costretti a trasferirsi, acquistare nuove case e indebitarsi con le banche. L’esercito della Cina comunista occupa tutt’ora militarmente il Tibet e, dopo aver costretto all’esilio il Dalai Lama e il governo, continua nella distruzione dei monasteri, delle biblioteche e di tutta la millenaria cultura tibetana, basti pensare che oggi nelle scuole tibetane viene insegnato soltanto il cinese.

Intanto nel 2008 gli Usa cancellano la Cina, uno dei maggiori investitori di Wall Strett, dalla lista dei paesi che violano i diritti umani (ignorando che moltissime multinazionali nordamericane sfruttano la manodopera a costo zero dei laogai), arrivano le olimpiadi e tutti i paesi occidentali fanno a gara per delocalizzare la produzione e stipulare accordi commerciali con la dittatura capital-comunista.

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martedì 27 gennaio 2009

Chi ha tempo, si aspetti tempo!



In un’era come quella odierna, in cui il capitalismo sfrenato manovra la vita della gente come il burattinaio che tiene i fili delle proprie marionette, in Italia esiste un’associazione che questi fili è riuscita, almeno in parte, a tagliare da circa vent’anni.

Nasceva, infatti, nel 1988 in Emilia-Romagna (oggi presente anche a Roma, in Lombardia e nel Triveneto) la “Banca del Tempo”: associazione apartitica, senza scopo di lucro, basata sullo scambio del tempo a disposizione di ogni socio facente parte del sistema organizzativo.
All’interno della “Banca del Tempo”, pur essendoci organi gerarchici come il Tesoriere, l’Assemblea, il Consiglio Direttivo ecc., non esistono distinzioni sociali di alcun tipo perché come “moneta” viene usato il tempo che è costante e immutabile per ogni persona.

Chi fa parte di questa Banca del Tempo, sia esso un imbianchino, un insegnante, una casalinga, un addestratore di animali, un medico, un avvocato o qualsiasi altra persona, mette a disposizione il proprio tempo, poniamo di un’ora, che gli verrà restituita dal servizio di un altro socio per la durata di un’ora.
Facendo un esempio, l’insegnante di pianoforte fa una lezione di due ore ad un ragazzo di 16 anni, questo ragazzo per due ore insegna ad un avvocato come usare il pc e l’avvocato aiuta, sempre per due ore, l’insegnante di pianoforte per una denuncia a suo carico.
Ovviamente il tempo può essere non solo accreditato ma anche addebitato: qualora infatti avessi bisogno di 3 ore di servizio e fossi in credito solo di 2, potrei comunque usufruire dell’ora e restituirla in seguito.

Provate ad immaginare questo tipo di sistema non solo fra tre persone, come nel mio esempio, ma fra migliaia o milioni. Non pensate che sia una bella alternativa al capitalismo odierno?
Tutto questo non solo permette di adoperare in modo positivo il proprio tempo e di essere utili a qualcuno, ma soprattutto di abbattere le classi sociali, di considerare (come succedeva 70 anni fa) anche i lavori più umili come dignitosi, importanti ed indispensabili.

Per mostrare come funziona il meccanismo dello scambio del tempo nello specifico, è utile leggere il breve regolamento dell’associazione:

1. Scopo della Banca del Tempo è lo scambio paritario e non lucrativo di servizi o beni tra i soci. L’organizzazione delle attività dell’associazione è affidata a un Consiglio direttivo eletto dai soci.
2. Per aderire alla Banca del Tempo occorre:
• essere maggiorenni
• compilare la richiesta di adesione
• tenere un colloquio informativo
• sottoscrivere il regolamento
• pagare la quota d’iscrizione Auser consistente in lire 15.000 per anno solare (oggi circa 8 euro), a copertura di un’assicurazione sugli infortuni che potrebbero verificarsi durante la fornitura dei servizi
• versare ogni anno alla Banca del Tempo un assegno di 3 ore, che andranno a costituire un Fondo Ore.
3. Il Fondo Ore rappresenta un “Capitale Sociale” che potrà essere utilizzato per:
• coprire le ore impiegate da coloro che contribuiscono al funzionamento della Banca del tempo
• coprire ore di soci che non siano in grado di fornire servizi.
4. L’unità di misura dello scambio è esclusivamente il tempo, conteggiato in ore e mezze ore, a prescindere dal valore economico del servizio erogato o ricevuto. Si esclude quindi qualsiasi scambio di denaro tra gli utenti, tranne i rimborsi per i materiali eventualmente utilizzati.
5. Non vi è garanzia sulla qualità dei servizi (o beni) scambiati solo per il fatto che avvengano all’interno della Banca del Tempo. Quest’ultima pubblica un elenco dei servizi disponibili, ma non può essere ritenuta responsabile per essi. Il socio rinuncia espressamente a rivalersi nei confronti della Banca del Tempo per eventuali danni subiti in relazione agli scambi effettuati.
6. I rapporti di debito e di credito di ogni singolo socio sono contratti unicamente con la Banca del Tempo e non nei confronti dei singoli aderenti.
7. Il tempo impiegato negli spostamenti effettuati per erogare un servizio può essere eventualmente computato nello scambio, previo accordo tra i partecipanti.
8. I familiari dei soci, pur non essendo coperti da assicurazione, possono offrire e ricevere servizi, che verranno accreditati o addebitati agli stessi soci.
9. I rapporti di dare e avere di ogni singolo aderente saranno registrati mediante appositi assegni. La Banca del Tempo redigerà periodicamente gli estratti conto e fornirà l’elenco aggiornato dei servizi e degli iscritti. Quest’ultimo elenco, ai sensi della legge nazionale 675/96 (relativa alla privacy), non potrà essere mostrato né prestato ad estranei.
10. Chi alla fine dell’anno ha delle ore di credito in eccedenza può farne dono alla Banca del Tempo per gli scopi indicati al punto 3. A chi avesse contratto una quantità notevole di debiti, il Consiglio direttivo, dopo aver valutato i singoli casi, può offrire la possibilità di riequilibrare i conti.
11. Chi decidesse di non rinnovare l’iscrizione alla Banca del Tempo è tenuto a restituire il libretto degli assegni e l’elenco dei soci, ed è pregato di bilanciare i propri conti.
12. La Banca del Tempo richiede agli aderenti una disponibilità ad incontrarsi in date stabilite dai soci per garantire un efficace sistema di scambio e per offrire la possibilità di conoscersi.
13. Il presente Regolamento potrà essere modificato dall’Assemblea dei soci, con le stesse modalità con le quali è regolata la modifica dello statuto.


Non è difficile capire che, per come è organizzata fino ad ora questa associazione, non può proporsi certo come sistema economico indipendente e sovvertire i meccanicismi capitalisti presenti oggi, ma comunque è un buon punto di partenza, o per lo meno un modo per dare meno valore al puro denaro e un po’ di più alle capacità ed alle possibilità di ogni persona.


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sabato 24 gennaio 2009

L’Università che vogliamo



A conclusione del ciclo “Scuola e Università”, è Francesco Polacchi, responsabile nazionale del Blocco Studentesco, a offrirci la sua penna. Dopo l’analisi del pensiero di illustri uomini della cultura europea, è il momento di noi giovani! Ecco l’università che vogliamo!


Oggi si vive un momento molto particolare per l’Università italiana che viene colpita da più parti e su più livelli.
Cominciando dalle ultime novità in materia di legge, che prevedono la possibilità di trasformare gli atenei italiani in fondazioni di diritto privato permettendo, in futuro, a interessi privati di subentrare nei consigli di amministrazione e, al di là di scopi di mecenatismo, di usufruire delle strutture e delle ricerche che vengono condotte all’interno. Questo è quindi l’ennesimo atto di smantellamento dell’università pubblica appartenente allo stato sociale, ossia alla “cosa pubblica”.

Partendo proprio dal concetto di “res publica”, oggi lo Stato dovrebbe essere l’integrazione spirituale alla vita di un Popolo che si riconosce nella storia e nelle tradizioni dei propri Padri che hanno vissuto entro certi limiti geografici: la Nazione. L’idea di Stato è quindi la sintesi etica della comunità di Popolo che vive la Nazione. Esso deve aspirare alla formazione per la crescita delle nuove generazioni e adempiere il proprio destino. Per questo c’è bisogno di un continuo ricambio al proprio vertice e che siano i giovani, più volenterosi e attivi, a farsene carico.

Il luogo per eccellenza fruitore di una sana educazione alla vita della comunità nazionale e della specializzazione professionale e tecnica in una visone organica dello Stato è l’Università.
Domanda: oggi è veramente così? Lo Stato garantisce, secondo un’equa considerazione dei diritti e dei doveri del cittadino, la possibilità di avere un’istruzione che non sia semplicemente un’impartizione nozionistica su base manualistica? La risposta è ovviamente no.

Leggendo le considerazioni che Nietzsche faceva sull’università tedesca e di Le Bon su quella francese di fine ‘800, capiamo quanto esse siano attuali. Oggi assistiamo infatti allo svilimento della cultura nel suo aspetto più puro, ossia nella ricerca. Bisogna però fare un distinguo importante: per ricerca non si intende solo quella scientifica e tecnica, ma anche quella umanistica che è stata completamente sormontata e declassata negli ultimi tempi, in favore proprio di quella sopracitata che crea però un approccio del tutto diverso nella vita di tutti i giorni. Se è vero che bisogna ammiccare al progresso e alla tecnologia senza perderne il controllo (il rischio è quello di essere sottomessi dalla tecnica anziché saperla sfruttare), non è ammissibile che ci sia così poco riguardo per tutte quelle discipline che nella storia hanno elevato l’Uomo a “non essere solo ciò che mangia”, ma anzi sono riuscite a creare le basi culturali favorevoli allo sviluppo delle civiltà che si sono susseguite. Di fatto possiamo dire che la salute dell’Università possa essere indice del grado di civiltà a cui una determinata società/comunità sia arrivata. Per civiltà intendo la capacità di un popolo di aspirare ai valori assoluti di Giustizia, Bene e Bellezza sapendoli adattare al tempo e allo spazio (evoluzione del diritto, tipologia di architettura…).

Sempre nell’articolo su Nietzsche si legge come egli avesse notato che la cultura si andava adattando all’uomo sovvertendo la vecchia abitudine in cui era lo studente che doveva avviarsi a un percorso di crescita. Ciò avveniva e avviene tutt’oggi in quanto si vuol far conoscere un po’ di tutto a tutti. Dunque la televisione. Informazioni su informazioni, riempire la testa di informazioni tanto da far sembrare a chi le riceve di essere dinamico, non accorgendosi invece della passività cui è portato. Questo diviene il primo passaggio verso la standardizzazione del pensiero generale che ci porta palesemente verso il “pensiero unico”, ossia sulla divisione delle analisi legate più al gusto che non alla scelta profonda dell’individuo. È così infatti che si è creata nell’ultimo secolo la finta battaglia ideale, comunque dualista, tra liberal/capitalismo e comunismo: che differenza c’è nella sostanza, e non nella forma, tra globalizzazione e internazionalismo, tra le due forme di materialismo (del denaro e dialettico/storico) che portano comunque sempre all’assenza di una visione della vita e della cultura che sia “al di sopra dello stato del bisogno”, e nelle lotte di classe del ricco contro il povero o della classe “proletaria” che si arroga gli stessi privilegi delle classi più abbienti?

Starà comunque ai giovani essere in grado di rimettere le mani sul proprio presente per costruire il proprio futuro, è la giovinezza che deve salire al potere. L’idea di giovinezza! Essa non è un periodo della vita, ma una mentalità, una forma mentis, uno stato d’animo.
È la giovinezza che deve farsi carico, per dirla con Heidegger o con Mazzini (in foto), della missione spirituale di un popolo. Una volta apportata questa rivoluzione esistenziale ci sarà bisogno di una maggiore rappresentanza studentesca all’interno dei vari organi istituzionali universitari che portino una ventata di originalità e partecipazione alle attività comunitarie.

Si deve ritornare alla costituzione dei giochi sportivi, come quelli della gioventù, in cui far prevalere i concetti di sportività e sana competizione tipo spirito olimpico (quello antico non quello attuale).
Si deve ricostruire, inoltre, un nuovo rapporto tra uomo e natura cercando di trasformare le università in dei laboratori di crescita e sviluppo delle energie alternative, riuscendo cioè a essere in grado di sfruttare tutte le opportunità che essa ci offre.

In conclusione l’ambizione della nuova generazione deve essere quella di scrivere l’enciclopedia di tutte le scienze, a Le Bon non piacerà, basandosi sullo studio più raffinato, approfondito e meticoloso alla materia che viene presa in esame. Essa non deve essere vista come sapere statico, come assenza di attenzione verso il singolo o come inculcazione di nozioni da recepire e subire. Il concetto di enciclopedia non deve escludere l’attività manuale o fisica e deve essere un ampliamento delle conoscenze di base anche per la formazione del carattere e della personalità del singolo. È fondamentale che ci sia questa aspirazione perché essa starebbe alla base della conoscenza generale su cui poter intervenire inserendo i propri studi, o dal quale se ne possano ricavare testi sintetici per le scuole primarie. Sta alle nuove generazioni creare attenzione sulla cultura, e promuovere ogni forma di studio. Non è certo la staticità da manuale che bisogna ricercare, ma un lavoro di squadra finalizzato alla condivisione del sapere per tutto il popolo italiano, e al fornire strumenti specifici e migliori per chi vuole intraprendere studi più dettagliati. Come fece la Treccani durante il fascismo.

Mio caro Le Bon le masse si basano su istinti irrazionali che li portano a distruggere anziché a costruire, è vero, ma se guidate, non solo da un capo carismatico bensì da un’avanguardia del pensiero e della politica, esse possono maturare e trasformarsi in Popolo e il Popolo necessita di un’educazione e di un’istruzione a 360 gradi.


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mercoledì 21 gennaio 2009

Heidegger e l’Università


In tempi in cui torna a farsi prepotente il dibattito sull’educazione superiore, vale la pena di riprendere in mano un’opera minore del grande esistenzialista tedesco Martin Heidegger (1889 – 1976, in foto). Si tratta del suo discorso d’insediamento al rettorato: “Die Selbstbehauptung der deutschen Universität” – pubblicato in Italia dall’editrice “Il melangolo” col titolo “L’autoaffermazione dell’università tedesca” – il quale è stato più volte accusato dalle solite ‘anime pie’ di collusione col nazionalsocialismo. Tuttavia, come mettono bene in chiaro gli apparati critici inclusi nel volumetto, non ultima la prefazione del figlio Hermann Heidegger e il breve scritto “Il rettorato 1933/34” (“1933/34”) redatto dal filosofo nel 1945, non solo non vi è il minimo riferimento al nazionalsocialismo nel testo, ma addirittura questo discorso non fu affatto gradito dal Partito. D’altra parte l’indubbio valore filosofico del testo fu ammesso anche da filosofi di sinistra quali Karl Jaspers (1883 – 1969) e Karl Löwith (1897 – 1973): “L’autoaffermazione dell’università tedesca è un discorso di elevato tenore filosofico e di grandi pretese, un piccolo capolavoro nella formulazione e nella composizione. Alla luce della filosofia è un’opera straordinariamente ambigua… e chi lo ascolta alla fine non sa se deve prendere in mano la silloge dei presocratici curata da Diels o marciare con le S.A.”

In ogni caso, nonostante Martin Heidegger fosse pienamente inserito nell’ambiente della Destra tedesca anti-weimariana, legato da rapporti anche d’amicizia con Carl Schmitt (1888 – 1985) ed Ernst Jünger (1895 – 1998), e ambisse ad essere per Hitler ciò che Gentile fu per Mussolini, gli eventi presero presto una piega diversa. In primo luogo, Heidegger, come molti altri autori della konservative Revolution, non condivideva affatto le teorie razzialiste che costituiscono la maggiore e più radicale differenza tra fascismo e nazionalsocialismo. Inoltre mancò da parte dei nazionalsocialisti, a differenza del fascismo italiano con le riforme Gentile e Bottai, un progetto organico che promuovesse e garantisse il valore e l’autonomia del sistema d’istruzione e dell’università tedesca (per altro già molto solide di per sé). Questo discorso risulta comunque essere di particolare interesse, proprio perché, nel suo piccolo, contiene in nocciolo una teoria coerente dell’università nazionale e sociale.

In esso, Heidegger rivendica innanzitutto l’autonomia dell’università come corpo studentesco e corpo docente uniti sotto la guida del rettore. Ai fini di quest’autonomia, è però necessario interrogare se stessi, meditare sul proprio stesso essere. “L’università tedesca è per noi l’istituzione che sulle fondamenta della scienza e mediante la scienza educa e forma nella disciplina i capi e custodi del destino del popolo tedesco. Volere l’essenza dell’università tedesca significa volere la scienza e cioè volere la missione spirituale del popolo tedesco, in quanto popolo giunto alla piena coscienza di sé nel suo stato”. Per meditare su se stessi e cogliere l’essenza di questa scienza, è opportuno risalire all’inizio stesso del pensiero occidentale: la filosofia greca, la quale era ben consapevole dell’impotenza del sapere davanti al destino, ragion per cui l’interrogarsi non è avulso dalla realtà, ma guarda saldamente davanti a sé.

“Dalla decisione del corpo studentesco tedesco, di fronteggiare il destino tedesco nella sua estrema indigenza, proviene una volontà diretta all’essenza dell’università”. Perciò, il concetto spesso travisato di ‘libertà accademica’ viene ricondotto a tre obblighi, uguali per necessità e rango: il primo rivolto alla comunità del popolo, consistente nel servizio del lavoro; il secondo rivolto all’onore e al destino della nazione, consistente nel servizio delle armi; il terzo rivolto alla missione specifica del popolo tedesco, consistente nel servizio del sapere. “L’università tedesca può acquistare potenza e forma solo se i tre servizi (…) si trovano cooriginariamente congiunti in un’unica forza”. A questo fine, “ogni capacità della volontà o del pensiero, tutte le forze del cuore e tutte le facoltà del corpo devono svilupparsi mediante la lotta, accrescersi nella lotta, e perseverare come lotta”, (intendendo questa in senso eracliteo).

Concludendo, emerge chiaramente come l’università, basata sull’unione del corpo studentesco e del corpo insegnante, debba essere autonoma nel perseguire gli obblighi che la rendono veramente capace di affrontare la scienza come missione spirituale della nazione, di fronte al destino.


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lunedì 19 gennaio 2009

L’utopia di una scuola pubblica nella Grecia classica


Il primo filosofo e uomo politico ad intraprendere iniziative relative all’allargamento dell’istruzione verso un pubblico sempre più vasto, secondo una tradizione riferita dallo storico Diodoro Siculo, sarebbe stato Caronda di Catania, il semimitico autore delle leggi di Turi nel VII sec. a.C.; il legislatore avrebbe fatto varare, fra gli altri, un provvedimento secondo il quale i figli di tutti i cittadini avrebbero dovuto imparare le lettere e che le spese della loro istruzione avrebbero dovuto essere pagate completamente dalla città. Aneddoti come questo aiutano certamente a cogliere un cambiamento circa le modalità dell’istruzione fra l’età classica e l’età ellenistica, e di un più generale approccio alla problematica pedagogica.

Nella Grecia dell’età classica l’istruzione era una questione essenzialmente privata. Soltanto le famiglie che avessero avuto un’adeguata disponibilità economica sarebbero state in grado di impartire un’educazione ai propri figli, rivolgendosi comunque a maestri privati. In mancanza di una qualsiasi forma di monitoraggio pubblico (mancavano dei corsi di studio regolari intesi in senso moderno), l’educazione non mirava al conseguimento di un bagaglio di nozioni determinate, ma all’adesione completa ai valori della polis. All’interno di questo sistema, stabilire quanti possedessero le competenze necessarie per leggere un qualsiasi tipo di opera letteraria è difficile capirlo; l’ipotesi più probabile è che comunque questo bagaglio di competenze si restringesse alle classi egemoni, le uniche a possedere la disponibilità economica indispensabile, e che quindi riguardasse un numero ristretto di individui.

L’interesse verso l’allargamento dell’istruzione comincia ad avvertirsi alla metà del IV sec. a.C.




I primi segni di questo processo sono inizialmente limitati alla speculazione teorica e sono ravvisabili nella riflessione filosofica di Platone, in cui, nei dialoghi della maturità, quali ad es. la Repubblica, le osservazioni pedagogiche proposte fino a quel momento diventano funzionali alla costituzione dello Stato ideale continuamente cercato. Dalla tarda antichità ci è pervenuta la notizia per cui sul portone dell’Accademia era esposta questa frase come epigrafe: ΑΓΕΩΜΕΤΡΗΤΟΣ ΜΗΔΕΙΣ ΕΙΣΙΤΩ («non entri chi non è geometra»), e ciò in virtù della selezione da affrontare per poter raggiungere le vette dell’educazione, cui solo il filosofo può aspirare. Tuttavia, quand’anche l’epigrafe risultasse essere solo una finzione poetica creata dai rètori ellenistici, la massima esprime in modo assolutamente perfetto il programma che Platone metteva in atto nell’Accademia, per cui la scienza del numero costituiva lo sbarramento per poter raggiungere la sfera dell’intelligibile e contemplare l’Essere. Al fine di costruire una città il più possibile ordinata, Platone fornisce alcune indicazioni concrete in tal senso, contenenti molte novità rispetto alla tradizione precedente, come l’insistenza in più di un luogo della sua opera di pianificare per legge un aumento del numero degli alfabeti.

La trattatistica politica successiva continua a confrontarsi con il problema dell’educazione, come riflesso delle esigenze delle nuove realtà statali createsi dopo la morte di Alessandro Magno (323 a.C., in foto). Nei regni dei diàdochi, infatti, caratterizzati da un alto tasso di burocratizzazione e da un conseguente aumento del numero dei documenti, gli analfabeti erano penalizzati rispetto a chi possedesse un alfabetismo anche solo funzionale. Il filosofo Aristotele dedica all’argomento la fine del VII e tutto l’VIII libro della Politica, purtroppo giunto a noi in forma incompleta. Quest’opera, nonostante un’impostazione teorica meno ambiziosa, pone l’educazione al centro delle preoccupazioni politiche di un governante: «nessuno potrà contestare che il legislatore debba adoperarsi al massimo grado per garantire l’istruzione dei giovani». Tutto ciò implica che l’istruzione sia garantita a tutti e pubblica: «non come accade oggi che ognuno si prende cura privatamente dei propri figli e fornisce loro, in privato, l’istruzione che preferisce». Quest’idea inizia a trovare accoglienza sempre più vasta presso altre scuole filosofiche ellenistiche, cui sono dedicati un ampio numero di trattati specialistici: il Perì paidèias (“Sull’educazione”) che Sozione annovera tra gli scritti di Aristippo, i Paudeutikòi nòmoi (“Le regole dell’educazione”) di Aristosseno e, non ultimi, il Perì tès Ellenikès paidèias (“Sull’educazione ellenica”) di Zenone, e il Perì agoghès (“Sul percorso educativo”) di Cleante.

Tuttavia, nonostante l’interesse mostrato verso questo tipo di esigenze, avvertite da strati sempre più ampi della popolazione, l’accesso all’istruzione non raggiunse mai soluzioni di massa, come nei tempi attuali, ma fu patrimonio esclusivo di un’élite politico-militare di volta in volta al comando.

Lo stesso avvenne ad Atene, madre legittima della genuina e autentica democrazia, in cui, sebbene l’alfabetismo fosse lievemente più diffuso che in altre poleis elleniche, una scuola pubblica capace di formare il cittadino politicamente capace non vide mai la propria nascita. Non a caso Socrate (in foto) – antidemocratico viscerale – lamentò più volte il mal costume proprio dei sofisti, i quali attiravano i rampolli delle più nobili schiatte della città al fine di essere remunerati in cambio di lezioni private. E la retorica sofistica era arma assai preziosa in un sistema assembleare e formalmente paritetico quale quello ateniese.

Anche nell’Atene democratica, dunque, l’istruzione – o meglio la “precettura” – fu esclusivo appannaggio delle classi abbienti ed egemoni, le reali, benché inconfessate, detentrici del potere politico.

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venerdì 16 gennaio 2009

L’educazione da Le Bon a Gentile

Gustave Le Bon (1841 – 1931, in foto) è stato uno dei pionieri della psicologia e della sociologia moderne: i suoi studi influenzarono l’opera di Freud e Jung da un parte, e di Pareto e Sorel dall’altra.

Le Bon è conosciuto principalmente per la sua celeberrima Psychologie des foules (Psicologia delle folle), pietra miliare per la storia degli studi sui comportamenti delle masse. Le sue teorie illustrano che le folle, per loro intrinseca natura, agiscono non già perché sospinte dal lume della ragione, bensì secondo istinti irrazionali: ogni individuo, a prescindere dalla propria cultura e dal proprio livello sociale, unendosi alla folla, smarrisce la propria razionalità lasciandosi trasportare dall’inconscio collettivo, perdendo di fatto la propria individualità: «La logica e la ragione non sono mai state le vere guide delle nazioni. L’irrazionale ha sempre rappresentato uno dei più forti incentivi all’azione che l’umanità abbia mai conosciuto».

La massa è priva di freni inibitori ed è quindi eminentemente distruttiva, mai costruttiva, e la sua azione è mossa da un desiderio di distruggere per conservare, non già per innovare: «gli istinti della folla sono istinti conservatori». Le masse sono altresì estremamente volubili e volitive al tempo stesso, e da qui Le Bon elabora la teoria del capo carismatico, l’unico che possa efficacemente cavalcarne i furori, il quale non fornisce loro argomentazioni logiche e razionali, bensì intende le loro esigenze e i loro sentimenti e sa indirizzarli: «Non è ai lumi della ragione che il mondo si è trasformato. [...] I sistemi filosofici di fatti non propongono alle folle che argomenti, quando invece l’animo umano chiede solo speranze».

Psicologia delle folle fu pubblicata nel 1895, andando a minare il positivismo di stampo illuministico che era alla base delle democrazie di fine ‘800: se si negavano infatti alle masse moderazione e raziocinio, l’ideale di regime democratico sostenuto dal popolo illuminato veniva ineluttabilmente meno. Le sue tesi furono poi raccolte e messe in pratica da due esempi paradigmatici di capo-popolo: Mussolini e Lenin.

Da tali considerazioni psicologiche e sociologiche di Le Bon nacque, infine, il suo noto aforisma assurto a summa del suo pensiero politico:

«La ragione crea la scienza. I sentimenti guidano la storia»

Un’altra opera fondamentale di Le Bon è Psychologie de l’éducation (Psicologia dell’educazione), che vide la luce nel 1910. In essa il Nostro analizzava la decadenza della scuola e dell’università francese, indicandone le cause – tra l’altro già comprese dagli accademici coevi – e proponendo il proprio ideale di educazione per la gioventù.

All’inizio del XX secolo si discuteva in Francia di una riforma della scuola e dell’università, giacché le condizioni dell’istruzione vi apparivano critiche e scoraggianti. Sono veramente sorprendenti, in proposito, le calzanti analogie tra la scuola della Francia del primo ‘900 e quella italiana attuale!

Gli accademici francesi, di fronte a tale profonda crisi, si arrovellavano invano il cervello al fine di escogitare le giuste modifiche da apportare ai programmi scolastici. Tuttavia fu Le Bon ad intuire genialmente che la chiave di volta non era da ricercare nei programmi, bensì nel metodo di insegnamento.

Gli studenti, dalle elementari sino alle facoltà universitarie, sono condannati all’apprendimento mnemonico di manuali che servirà loro unicamente alla “recitazione” in sede d’esame. Già di per sé il manuale rappresenta un accesso al sapere di seconda mano, poiché filtrato da colui che lo ha redatto, il quale ha già dato – per forza di cose – un’impronta personale alla materia che intende trattare. Lo studente non è quindi libero di trarre il nutrimento della propria cultura direttamente dalla fonte ma, impossibilitato al giusto sviluppo del suo senso critico, non fa che ripetere nozioni impostegli dall’alto. Ma la vera sciagura è che coloro che hanno buona memoria ma poca intelligenza vengono più spesso premiati a scapito degli altri più meritevoli.

L’apprendimento acritico del libro scolastico porta inoltre con sé il catastrofico abbandono dell’attività manuale e fisica, tra l’altro snobbata dai genitori perché ritenuta plebea e squalificante. Al contrario Le Bon insiste sul fatto che il lavoro manuale, complementare a quello intellettuale, tempri e fortifichi la volontà del giovane discente, il quale possa poi godere e gioire del successo finale scaturito dal suo sudore e dal suo sacrificio.

Altro problema è rappresentato dall’ideale enciclopedico dell’insegnamento, il quale integra il metodo mnemonico. La scuola propugna infatti l’apprendimento di tutto lo scibile umano, riassunto e compendiato – ovviamente – in manuali. Lo studente è così costretto alla memorizzazione di migliaia di pagine stampate che sfida le leggi d’ogni potere umano e divino. L’apprendimento nozionistico finalizzato all’esame è inoltre assai labile: trascorso infatti qualche mese dall’esame stesso, il ragazzo non potrà che dimenticare la maggior parte della pletora di nozioni memorizzate poco prima. Al contrario Le Bon auspicava una formazione culturale dello studente più limitata, ma realmente acquisita.

Il sociologo francese si mostrava tuttavia scettico nei confronti di una riforma che potesse veramente raddrizzare le disgraziate sorti della scuola e dell’università. Occorreva infatti anzitutto cambiare la mentalità dei maestri e dei professori, malauguratamente troppo vecchi e fieri per cambiare; se con loro – essi pensavano – il metodo aveva funzionato, ciò voleva dire che esso era il migliore: pura e presuntuosa vanità… Tutti coloro che invece si dimostravano liberi e innovatori venivano inevitabilmente messi in minoranza o ignorati.

Il vero ideale di Le Bon riguardo all’educazione era quello che riuscisse a formare il carattere e la personali dei giovani, in luogo di preparare quest’ultimi alla monotona “recitazione” di un sapere che non è il loro. La scuola deve dunque formare ed educare prima ancora che istruire.

Per Le Bon, in ultima analisi, un uomo si valuta in base al suo carattere, non alla sua cultura.

Questi presupposti saranno poi ripresi e sviluppati dall’eminente filosofo Giovanni Gentile (1875 – 1944, in foto), il quale li tramutò nella più grandiosa ed efficace riforma che l’Italia unita ricordi.

Nel 1923 il ministro dell’Istruzione varò dunque tale riforma che si ispirava in buona parte ai princìpi fondamentali propugnati da Le Bon.

Il sapere enciclopedico non era più praticabile. Esso affondava le proprie radici nel lontano medioevo, nel quale tutto lo scibile umano si credeva – dopo la rivelazione di Cristo – dato una volta per sempre. Il metodo mnemonico era stato poi perfezionato dai padri gesuiti e finalizzato all’apprendimento del latino, dando ottimi frutti. Ma ora che le conoscenze per tutte le materie si erano arricchite in maniera più che massiva, era veramente troppo il pretendere dal giovane studente una titanica impresa di memorizzazione di tutte queste nozioni.




Per la riforma gentiliana era quindi necessario riaccendere nella scuola la fede nelle forze spontanee dello spirito, e di assegnare di nuovo ad essa come fine non già l’enciclopedia o l’immediata utilità, bensì la formazione della personalità del discente. Occorreva dunque riaffiatare la scuola con la vita, della quale doveva essere prosecuzione e consapevole approfondimento, non già negazione.

L’ideale enciclopedico, più consono alla mentalità delle masse, tende a valutare quantitativamente ogni forma di attività umana, premuta com’è da esigenze utilitarie. Tale utilitarismo, di stampo anglosassone, pone l’individuo in grado di trarre dal patrimonio del sapere il maggior numero possibile di nozioni immediatamente utilizzabili. Per i fautori della nuova riforma, invece, il sapere non esiste avulso dalla matrice che lo crea e lo alimenta – ossia la mente dell’uomo – ed educare significa suscitare e disciplinare energie, non già distribuire nozioni. Il manuale è dunque bandito: a insegnare poesia saranno i poeti, a insegnare filosofia saranno i filosofi. In questo modo il giovane studente, attraverso la lettura diretta delle fonti, dovrà sviluppare il proprio senso critico e svegliare la sua capacità di giudizio. Il manuale, ossia il sapere preconfezionato, lascia il posto alla dura ricerca del ragazzo, il quale si farà da sé il proprio manuale, frutto del suo lavoro intellettuale, e quindi veramente acquisito.

Deve parimenti essere reintrodotta l’attività fisica, complementare a quella speculativa, di cui il regime fascista farà una bandiera, poiché, attraverso lo sforzo fisico, il discente deve temprare la propria volontà e il proprio senso del sacrificio in vista dell’obiettivo finale.

Ma come è possibile superare lo scetticismo che aveva espresso Le Bon riguardo alla mentalità dei professori che dovranno farsi carico di questo cambiamento metodologico? Come è possibile far loro rinunciare al metodo che li ha formati e che quindi reputano retto e giusto?

I riformatori fascisti si appellarono dunque non già ai vecchi maestri della vecchia scuola, bensì ai giovani, a quegli stessi giovani che hanno entusiasmo e voglia di cambiare e innovare.

E non poteva essere altrimenti in una nazione che viveva e cantava al suono di “Giovinezza”…

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mercoledì 14 gennaio 2009

Nietzsche. Riflessioni sulla scuola

La cultura “attuale trapassa qui nell’estremo della cultura “adatta al momento: cioè il rozzo afferrare quel che è utile al momento. Nella cultura si vede ormai solo ciò che reca vantaggio con la cultura. La cultura generalizzata trapassa in odio nei confronti della vera cultura. Compito dei popoli non è più la cultura: bensì il lusso, la moda. [...] L’impulso alla massima generalizzazione possibile della cultura ha la sua origine nella totale secolarizzazione, nella subordinazione della cultura in quanto strumento al guadagno, alla felicità terrena rozzamente intesa.[...]

Nietzsche, 1871. Spunti tratti dagli appunti preparatori alle 5 conferenze sulla scuola tenute tra gennaio e marzo


Miei stimati uditori!

L’articolo di oggi verterà Sull’avvenire delle nostre scuole. Cinque sorprendenti conferenze sui problemi dell'educazione tenute da Friedrich Nietzsche (1844-1900) nel 1871.

Sul tema dell’educazione il filosofo prussiano rintraccia due tendenze figlie della modernità: da un lato si assiste alla massima estensione e diffusione della cultura, dall’altro al suo indebolimento e svilimento. Se dunque si allarga la diffusione della cultura entro cerchie più ampie, allo stesso tempo si esige che essa rinunci alle sue più alte e nobili vette per «dedicarsi al servizio di una qualche altra forma di vita». Ora, per mezzo dei moderni istituti di formazione, non è più l’uomo che sceglie di avvicinarsi alla cultura ma, viceversa, è la cultura che viene obbligata ad adattarsi all’uomo. Il risultato sarà che ognuno, in base alla propria natura, verrà formato in modo tale che dalla sua quantità di sapere tragga la massima quantità possibile di felicità. Un esempio di questo allargamento-svilimento della cultura e, al tempo stesso un ambito cui le due tendenze confluiscono, è il giornalismo. Il giornale prende il posto della cultura e anche lo studioso che non ha abbandonato pretese culturali spesso vi si appoggia; è nel giornale che culminano i fermenti culturali del presente ed è il giornalista che ora prende il posto del grande genio e diviene guida. Ma, come sappiamo, il giornale è diretto a un pubblico molto ampio e diversificato sia dal punto di vista sociale che intellettuale; è quindi ancora una volta la cultura che, trovando adesso espressione nelle pagine del giornale, deve di volta in volta cambiare veste ed adattarsi agli uomini e alla loro natura variabile e diversificata.

Nietzsche prosegue la sua analisi parlando del liceo e dei problemi che la modernità ha portato a tale istituzione considerata dal filosofo di grande importanza.

La sua prima considerazione verte sulla lingua tedesca che nel presente è per Nietzsche «scritta e parlata così male e in modo così volgare quanto solo è possibile in un’epoca di tedesco giornalistico». Una causa di ciò sta nel come oggi ci si accosta alla lingua: invece che spingere gli allievi a una severa autoeducazione lingustica, l’insegnante tratta la lingua madre come se fosse una lingua morta. Ma la cultura, invece, inizia quando si è in grado di trattare il “vivente come vivente e, per quanto riguarda la lingua, bisognerebbe insegnarla reprimendo l'interesse storico.

Altro aspetto dell'insegnamento moderno che Nietzsche critica è “l’istituzione educativa del tema. Il giovane liceale, nell’affrontare un tema, si trova a dover esprimere la propria individualità su materie per le quali però il suo pensiero non è ancora maturo. Ecco che, in un certo senso, dovrà dare il voto a opere poetiche o caratterizzare personaggi storici; compiti questi che necessitano di riflessioni che un liceale non è ancora in grado di sviluppare. Detto ciò la situazione è poi aggravata dal ruolo che gioca l’insegnante nel dover giudicare tali temi: egli infatti nel dare un giudizio andrà a criticare proprio gli eccessi di individualità che evincono dal tema dell’alunno, eccessi tuttavia più che giustificabili perché dettati dalla naturale condizione di giovane. Questo atteggiamento porterà a una progressiva mediocrità e a una standardizzazione del pensiero giovanile in quanto al giovane viene sì richiesta originalità, ma l’unica originalità possibile a quell’età viene poi giudicata negativamente e quindi rifiutata. Nel moderno liceo ognuno è considerato in diritto di avere opinioni personali su cose molto serie, mentre la giusta educazione è quella che abitui il giovane a «una stretta obbedienza sotto lo scettro del genio». Questa “obbedienza tuttavia non avviene, e non può avvenire in un contesto come quello moderno poiché lo “scettro del genio, che altro non è che la cultura classica, non viene percepito come qualcosa che vive con noi e, invece che «crescere sul suolo dei nostri apparati educativi» e accompagnare il giovane nella sua educazione, questo “scettro risulta essere un ideale culturale sospeso per l’aria e perciò distante dalla scuola. Il passato dovrebbe dunque congiungersi al presente per il futuro in modo naturale, e siccome per Nietzsche il percorso storico ha forma ciclica, non possiamo stupirci né tantomeno dubitare sulla naturalezza e la giustezza di questa congiunzione tra passato, presente e futuro: tra Tradizione e progresso.

La cultura è per sua natura qualcosa che vive al di sopra dello stato del bisogno umano e della necessità. Le moderne scuole risultano essere invece istituzioni utili al superamento di necessità vitali umane. La cultura non è più studiata nella sua assolutezza, ma relativamente a quello che serve all’uomo. Nei licei non sono più gli studenti che vengono severamente indirizzati verso la cultura, ma viceversa è la cultura che viene asservita agli scopi e ai bisogni della scuola che si configura ora come istituto volto a formare, a seconda del ramo in cui è specializzata, i futuri funzionari, ufficiali, contabili, commercianti, e via dicendo.

L’indipendenza intellettuale che viene lasciata al liceale nell’accostarsi alla cultura classica la si rintraccia “all’ennesima potenza nell' università dove è amplificato “all’ennesima potenza anche il danno che tale indipendenza reca. In un’età in cui «l’uomo è massimamente bisognoso di una mano che lo guid, lo si lascia libero di scegliere se seguire questa o quella lezione e, per quanto riguarda la filosofia, lo si lascia libero di scegliere e di misurare il valore di questo o quel filosofo. Lo stimolo a occuparsi di filosofia in maniera così neutrale non farà altro che bandire la filosofia stessa dall’università. Tuttavia, se un rapporto seppur troppo semplicistico esiste con la filosofia, con l’arte l’università non si rapporta affatto. A questo punto il filosofo prussiano si chiede: vivendo senza filosofia e senza arte che bisogno potrà mai avere il moderno e “indipendente accademico di dedicarsi alla cultura greca e romana? E come si potrà arrivare alla cultura se l’università – che della cultura dovrebbe esserne regno – viene meno all’avvicinamento alla Grecia, all’antica Roma, alla filosofia e all’arte?


Nietzsche conclude la sua trattazione con l’elogio della corporazione studentesca che da lui è vista come valido tentativo di istituzione culturale. La corporazione studentesca aveva infatti capito, forse grazie all’esperienza della guerra e della vita militare, che chiunque voglia accostarsi alla cultura può farlo solo partendo dalla disciplina e dall’obbedienza verso grandi figure-guida. Dotata e portatrice di un vero spirito tedesco, e trovando in Schiller (1759-1805, in foto) una guida, alla corporazione studentesca si spalancarono le porte della filosofia, dell’arte, dell’antichità: della cultura! Tuttavia Schiller fu «troppo precocemente consunto dalla resistenza del mondo ottuso, di cui ora sentiva la mancanza con intima rabbia» e segnò così la fine della corporazione studentesca che perì per colpa delle troppe discordie interne dovute proprio alla mancanza di una nuova guida carismatica.

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lunedì 12 gennaio 2009

Friedrich Nietzsche: un profilo


Friedrich Wilhelm Nietzsche nacque a Röcken, villaggio della Sassonia, il 15 ottobre 1844; il padre, pastore luterano, morì lasciandolo orfano a quattro anni; il giovane Nietzsche studiò al prestigioso ginnasio di Pforta, studiò filologia classica – abbandonando la teologia a cui lo voleva destinare la madre (figlia anch’essa d’un pastore luterano) – a Bonn e a Lipsia, fino a conseguire la cattedra di Filologia Greca a Basilea nel 1869; assolse al servizio militare nel 1868 e servì la Patria come infermiere nella guerra Franco-Prussiana. Nel 1879 lasciò l’insegnamento e visse in Nord Italia, spostandosi prevalentemente tra la Costa Azzurra, il Tigullio e l’Engadina. Patì diverse crisi nervose e in generale una cattiva salute. Non si riprese più dall’accesso di follia che lo colse a Torino nei primi giorni del 1889, e passò gli ultimi anni in stato semi-vegetativo, finché non morì il 25 agosto 1900.

Nietzsche, come d’altronde è consueto per le persone dotate d’intelletto e di genio, crebbe un’infanzia e un’adolescenza prevalentemente solitarie, temperate da amicizie tanto rare quanto solide, sviluppando così tendenze coltivate e rinforzate da un percorso di studi elitario e rigoroso, al punto che tutte le testimonianze confermano il ritratto di un Nietzsche nettamente distaccato ed elevato rispetto alla folla, dotato di un’autocoscienza aristocratica e di una profonda nobiltà d’animo, ma anche di uno spiccato gusto e di un profondo sentimento per la Kultur. La sua giovinezza si svolse subito dopo i moti del ‘48, i quali segnano la fine della Restaurazione e l’inizio di un periodo nuovo dominato dalla borghesia e dal positivismo. Nietzsche, senza farsi illudere da “magnifiche sorti progressive” denuncia il carattere decadente di quest’epoca. La sua condanna non coinvolge solo il cristianesimo e il conservatorismo, ma anche le nuove ideologie – borghesi e anti-borghesi – che, pur pretendendo di superare le vecchie posizioni, si riducono in realtà ad aggiornarle ai tempi, mantenendone farisaicamente i caratteri fondamentali. Il suo pensiero e la sua opera si possono dividere in tre fasi successive, che riecheggiano nel primo discorso dello Zarathustra come le tre metamorfosi dello spirito, i tre passaggi attraverso i quali l’uomo si fa superuomo (Übermensch).

Nel primo periodo, Nietzsche studiò e ammirò la civiltà degli antichi Elleni, specialmente nel loro periodo preclassico, traendone lo spunto per la teorizzazione di una concezione tragica e artistica della vita, attribuita alla tragedia greca, nata dal contrasto tra apollineo e dionisiaco, come scrive nella sua prima opera (La nascita della tragedia, 1872), nutrita d’influssi schopenhaueriani e wagneriani. E proprio Schopenhauer (1788 – 1860) e Wagner (1813 – 1883) sono i suoi modelli di riferimento in questo periodo, a cui risalgono anche le Considerazioni Inattuali. Dalla filosofia nietzscheana traspaiono dunque l’apprezzamento per la Kultur tragica greca, e una comunione di pensiero con lo spirito aristocratico di Teognide ed Eraclito.

Il secondo periodo si apre nel 1878, con la frattura dell’amicizia tra Wagner e Nietzsche: il secondo replica al misticismo cristiano del Parsifal con Umano, troppo umano, staccandosi dall’estetismo tragico e intraprendendo una fase d’intensa critica e distruzione di ogni valore. Nietzsche scrive e pubblica altri libri di aforismi: Aurora – un inno alla passione della conoscenza e alla liberazione da ogni morale, e La gaia scienza, che si pone come un seguito dei libri precedenti e, insieme, un preannunzio dell’ultima fase: in esso vi è annunziata la “morte di Dio” e vi è anticipata l’idea dell’eterno ritorno.

Il terzo periodo si apre nel 1883-84 con Così parlò Zarathustra, che costituisce il preambolo e contiene in nuce la filosofia dell’ultimo Nietzsche, ruotante attorno tre capisaldi: il superuomo, la volontà di potenza e l’eterno ritorno. Singoli libri come Genealogia della morale, Al di là del bene e del male, L’anticristo, Ecce Homo approfondiscono singoli temi filosofici, ma per avere una veduta unitaria di quest’ultima fase, quella in cui Nietzsche esprime in maniera costruttiva il suo pensiero più maturo ed autentico, non si può che consigliare la sua opera più ‘maledetta’: l’antologia postuma La volontà di potenza, realizzata dalla sorella e dal discepolo Peter Gast come tentativo estremo di mostrare in un insieme coerente il pensiero nietzscheano, lasciando parlare semplicemente i suoi frammenti di filosofia forgiata col martello.

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venerdì 9 gennaio 2009

E noi? Baciamo le mani ai nostri CARNEFICI!

Signore e signori ecco a voi il più grande furto legalizzato della storia del mondo moderno: il Signoraggio!

Con il termine “signoraggio” si intende il provento che gli Stati ricavano attribuendo alle monete coniate un potere d’acquisto superiore a quello del metallo in esse contenuto.
In un regime monetario metallico quale quello vigente in Occidente fino all’inizio del sec. XX, il signoraggio deriva storicamente dall’inclusione dei costi di coniazione nelle regioni di scambio tra metallo coniato e metallo non coniato: tale regione di scambio è maggiore dell’unità (il metallo coniato comanda cioè un signoraggio) in quanto chi emette moneta deve recuperare i costi di coniazione.

Con il graduale rafforzarsi dell’autorità centrale dello Stato si instaura il monopolio statale della coniazione e si attribuisce alla moneta legalmente certificata potere liberatorio nei confronti dei rapporti di debito, in primis del debito fiscale; il signoraggio viene così a includere anche un vero e proprio profitto di monopolio. Il passaggio al corso forzoso della moneta durante questo secolo implica che la carta moneta non rappresenta più una passività redimibile in risorse reali (oro, terreni, ecc.) emettendo un debito irredimibile (la moneta) a fronte del quale non contrae nessuna obbligazione di pagamento per interessi. Il signoraggio si configura come una vera e propria fonte di entrate che lo Stato trae dall’emissione di moneta. Nell’uso corrente la nozione di signoraggio viene talvolta estesa a comprendere l’insieme delle risorse che lo Stato trae dal suo potere di creare inflazione espandendo l’offerta di monete, indipendentemente dallo strumento finanziario con cui esse vengono esatte.

Per fare un esempio, una banconota di 500 euro ha un valore intrinseco (circa 30 centesimi per stampa, distribuzione, ecc.) e un valore nominale (500 euro appunto); la differenza tra valore nominale e valore intrinseco è – appunto – il Signoraggio.

Ora spiegato il significato di signoraggio, veniamo all’Italia e alle implicazioni che ha sulla nostra economia.


La nostra moneta, ovvero l’euro, viene coniata dalla BCE (Banca Centrale Europea) che è un organo privato e di cui vari Paesi – compresa l’Italia – ha delle quote. La BCE ha il monopolio sulla coniazione dell’euro e regola, di conseguenza, tutti gli interessi che i Paesi devono pagare sulle banconote emesse e acquistate dal singolo Paese. La quota maggioritaria la detiene la Banca d’Inghilterra (Paese che non ha aderito all’euro, strano eh?). La BCE presta all’Italia 60 miliardi di euro l’anno di banconote, con un interesse del 3%, alla fine dell’anno l’Italia, tramite la tassazione ai cittadini, riesce a malapena a ripagare gli interessi alla BCE, quindi circa 2 miliardi di euro all’anno.
Non è difficile dedurre da questo che se l’Italia coniasse le proprie banconote senza interessi sopra, come fa per le monete ad esempio di 1 o 2 euro, non ci sarebbero interessi sul prestito e di conseguenza ogni cittadino risparmierebbe il 3% del proprio patrimonio.

Perché allora tutto questo? Chi è che si riempie le tasche? I banchieri!

E la politica? Cosa può fare? Beh come disse Ezra Pound (1885 – 1972) «i politici sono i camerieri dei banchieri»; fu infatti Pound uno dei primi a capire la truffa del signoraggio e il primo a teorizzarla e definirla.
In Italia il professore Giacinto Auriti (1926 – 2006) si è più volte battuto contro questa truffa sostenendo che la soluzione è semplice: «All’atto dell’emissione, la moneta nasce di proprietà dei Cittadini italiani, e va accreditata dalla banca Centrale allo Stato». Non solo questa soluzione non fu accettata, ma nonostante la continua lotta e dopo aver parlato sia con Fazio che con il Presidente della Repubblica in persona, nessuno è stato in grado di contraddirlo, ma nessuno ha fatto nulla per cambiare le cose perché ci sono gli interessi dei banchieri in ballo. Non so voi, ma io questa la chiamo MAFIA!

Dobbiamo questo problema non solo all’UE che legittima l’azione della BCE, ma sopratutto agli USA: le banconote infatti sono per legge trasformabili in dollari Usa, ma i dollari Usa non sono convertibili in oro e beni reali dal 1971.


Per concludere vorrei sottolineare che le Banche Centrali (la BCE e la FRB degli USA) regolano tutti i rapporti con le Nazioni e la Banca Mondiale (proprietà della banca d’Inghilterra e della FRB e proprietaria del Fondo Monetario Internazionale) non da prestiti alle Nazioni che non accettano di privatizzare l’acqua potabile.

Insomma, l’Europa ci “mette in crisi”, l’America pure... traete voi le vostre conclusioni!

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