martedì 21 giugno 2011

«Riprendersi tutto»: la voce delle «idee senza parole»

L’articolo sarà pubblicato in «Occidentale», giugno 2011.


In principio era la Carne. Poi, solo poi, venne il Verbo. Non si è partiti dalla Repubblica platonica, dalla Bibbia o dal Capitale di Marx. Non si è partiti, cioè, da un’astratta teoria da rendere prassi. Niente di tutto ciò: prima nasce CasaPound, la sua azione metapolitica, mitopoietica e politica, e dopo, allorché se ne è avvertito il bisogno, è uscito Riprendersi tutto di Adriano Scianca (SEB, pp. 381, € 20), che rappresenta sostanzialmente una «messa a punto», un’istantanea del percorso ideale del movimento casapoundiano. Questo libro infatti – ci tengo a precisarlo per i malevoli – non è assolutamente il prodotto dell’intellettuale illuminato e dell’ideologo prezzolato che tenta di dare una patina civile e rivoluzionaria ai barbari rozzi e reazionari, così come quest’opera non è – e questo lo dico ai pigri della mente e dello spirito – la cristallizzazione in Sacra Scrittura di un pensiero che, in quanto rivoluzionario, è invece dinamico e in costante divenire, che non è pertanto un fatto ma un incessante farsi.

Il grande merito dell’autore, in effetti, è stato quello di non rinunciare alla propria individualità e al proprio estro – come si evince dai tanti riferimenti dotti e puntuali (ma mai invadenti o supponenti) – e, al contempo, di rendere questo libro un’opera «corale», descrivendo cioè la Weltanschauung dei casapoundiani soprattutto con il ricorso alle interviste ai militanti, alle canzoni della musica non conforme e, talvolta, addirittura ad allegre chiacchierate al Cutty Sark dalla saggezza e dal sapore «etilico».

Una scelta felice, inoltre, si è rivelata la struttura del libro stesso, ossia la successione e la declinazione delle parole-chiave che illustrano questa singolare «rivoluzione in atto»: rivoluzione dello spirito, del linguaggio e dell’azione. Si tratta di significanti abusati e distorti che, grazie all’afflato creatore dei suoi parlanti, assumono ora significati dall’eco così arcaica e al contempo così nuova, moderna, rivoluzionaria: è, in definitiva, un riappropriarsi dell’Origine (dell’archè, appunto) al fine di proiettarla, potenziata, nell’avvenire come progetto e missione, giacché «porsi in cammino verso l’origine significa andare avanti, non indietro; significa decidersi per un progetto che investe integralmente il nostro destino» (p. 196).

Il percorso di CasaPound infatti, ben descritto nel libro, è caratterizzato dall’uscita definitiva e senza troppi rimpianti dal ghetto del neofascismo sclerotizzato e sepolcrale; rappresenta la ricerca, in mare aperto su nave corsara, della propria origine: una ricerca che, però, è un continuo progredire verso il futuro, verso una nuova aurora. Se la destinazione è ignota, la rotta è nondimeno guidata da salde coordinate, lo sguardo è sempre fisso alla stella polare: non si naviga a vista, non si fa cabotaggio; la bussola non ha perso il suo magnete. La voce «fascismo», infatti, è un piccolo gioiello in cui l’autore ben illustra lo spirito ardente che fa pulsare il cuore delle tartarughe frecciate: uno spirito che ha una «dimensione estetica, simbolica, esistenziale, prima che politica», che è stile prima ancora di essere dottrina, che è fondazione e volontà storificante prima d’essere architettura statuale, che è «volontà di grandezza, di potenza, di bellezza, di eternità, di universalità» (p. 162). È, in definitiva, sogno vissuto e incarnato, mito mobilitante e in-formatore, giammai amministrazione meccanica. 


Che in CasaPound convivano l’antico e il moderno, l’hic et nunc e l’eterno, d’altronde, lo si rileva già da un epiteto, attribuito loro da un giornalista, che ai casapoundiani non è mai dispiaciuto («fascisti del Terzo millennio»), così come dalla monumentale epigrafe marmorea in basso rilievo che si staglia imponente sopra il portone del nr. 8 di Via Napoleone III. Ed è proprio qui, nel marmo baciato dal sole, che si sconfigge la palude, è qui che l’aratro traccia il solco del destino e della storia, è qui che si fonda una civiltà, si crea un mito.

Ma sono veramente tante altre le voci che sorprenderanno coloro che poco o mal conoscono Cpi, quali ad esempio «cultura», «destra», «donna», «identità», «immaginario», «valori», ecc. Illustrando la visione del mondo della tartaruga frecciata, infatti, Scianca, con notevole acume, demolisce ad uno ad uno tanto i «viaggi mentali» del neofascismo terminale quanto gli stereotipi deformati e deformanti della vulgata antifascista. E soprattutto, oltre a bonificare questa venefica melma palustre, l’autore riesce nell’arduo compito di dar voce a queste spengleriane «idee senza parole». Idee che, prima di tutto, sono attive, affermative, positive, creatrici (e quindi poetiche), sono idee lanciate all’assalto. Sono idee fatte di carne.

In principio era la Carne. «Incarnare»: questa è la parola d’ordine dell’etica casapoundiana. È incarnando il proprio mito e il proprio destino che si fa la storia, che si diventa – per dirla con Marinetti – «costruttori d’avvenire». È così che si è esempio, che si è rivoluzione.

Un esempio sui tanti? Parlando giusto poco tempo fa con una persona di grande cultura, ma purtroppo intrisa di radicalismo chic e salottiero, il discorso si era incentrato sull’italianità e sul sentimento d’unità nazionale (uno dei pilastri, cioè, del casapoundismo), e mi si diceva che gli italiani hanno una storia troppo diversificata che impedisce loro qualsiasi sintesi unitaria. In questo senso, mi si chiede che cosa fa CasaPound per realizzare l’unità morale della nazione, che cosa fa nell’hic et nunc. Al che espongo l’esperienza – tra l’altro abbastanza mediatizzata – di Poggio Picenze, ossia del progetto che assunse il significativo nome di «fratelli d’Italia»: Cpi in quell’occasione, infatti, non aiutò la popolazione terremotata in nome di un vago filantropismo, così come non si presentò ad essa per elargirle mortificanti elemosine. Le tartarughe frecciate erano lì, invece, per far sentire il proprio calore a un popolo che sentivano fratello, perché italiano, perché fatto della stessa carne e dello stesso sangue: l’Italia, in quel momento, si faceva lì, era lì. È qui, allora, che cadono gli alibi, che la supponente retorica fa posto al silenzio più eloquente, che lo sguardo, pocanzi altero e sicuro, si abbassa.

Ad ogni buon conto, Riprendersi tutto – oltre all’esposizione organica e allo stile piano e incalzante, che già di per sé lo rendono quanto mai prezioso e godibile – rappresenta a mio parere molto più di un libro, specialmente per i tanti militanti della tartaruga frecciata, perché in alcuni casi può disvelar loro in tutta chiarezza ciò che prima avevano capito e vissuto attraverso l’intuizione, la fascinazione e l’esperienza: più che di un semplice libro, infatti, si tratta di un’altra coordinata da aggiungere sulla bussola, di un punto di riferimento ulteriore per una consapevolezza a 360°, che – si badi bene – non deve trasformarsi né in un manuale d’istruzioni né in un Verbo rivelato, causando così tic e ricorsi autistici all’ipse dixit. Perché Riprendersi tutto – ripeto – non è il punto di arrivo di una percorso, bensì solamente una tappa, un atollo a cui si è fatto scalo prima di salpare nuovamente verso altre acque e altri arrembaggi. Perché la rivoluzione è continua, è permanente: è, come recita il sottotitolo dell’opera stessa, una «rivoluzione in atto».

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