venerdì 17 gennaio 2014

Marx e Gentile: idealismo è rivoluzione

Articolo pubblicato in «Il Primato Nazionale», 6 gennaio 2014.

Il mondo non dobbiamo necessariamente accettarlo così com’è. L’uomo ha sempre la possibilità, grazie alla sua volontà creatrice, di trasformalo. È questo, in sostanza, il messaggio che ci viene dalla tradizione filosofica dell’idealismo. Ed è sempre questo il fil rouge lungo cui si dipana l’interessante volume di Diego Fusaro Idealismo e prassi: Fichte, Marx e Gentile (Il melangolo, pp. 414, € 35), uscito da qualche mese nelle librerie italiane.

L’autore, giovane filosofo torinese e ricercatore presso l’Università San Raffaele di Milano, è tra le altre cose il fondatore di filosofico.net, il sito internet in cui, volenti o nolenti, sono incappati quasi tutti gli studenti di filosofia. Fusaro inoltre, a dispetto dell’età, ha già dato alle stampe diverse e interessanti opere, come Bentornato Marx! Rinascita di un pensiero rivoluzionario (2009) e Minima mercatalia: filosofia e capitalismo (2012). Più in particolare, Fusaro appartiene a quella sinistra, purtroppo minoritaria, che ha come esponenti di punta il compianto Costanzo Preve e Gianfranco La Grassa. Quella sinistra cioè che, nell’epoca del dilagante trasformismo della sinistra «istituzionale», non ha rinunciato ai padri nobili della sua tradizione culturale e a una critica serrata dell’odierno capitalismo, ossia il capitalismo finanziario (o «finanzcapitalismo», secondo la definizione di Luciano Gallino).

Insomma il postcomunista Pd, rinnegando la sua storia, ha ceduto in tutto alle logiche del capitale, costituendone anzi una delle «sovrastrutture» ideologiche (per usare il linguaggio marxiano) con la sua bieca retorica del politicamente corretto e la paradossale difesa della legalità e delle regole (capitalistiche). Come direbbe Fusaro, si è passati da Carlo Marx a Roberto Saviano, da Antonio Gramsci a Serena Dandini.

Di qui la rivolta del giovane filosofo che, rileggendo Marx, offre una chiara interpretazione del pensatore di Treviri come nemico di ogni supina accettazione dell’esistente, ponendo in rilievo gli aspetti idealistici del suo pensiero. Di qui, anche, il rifiuto di ogni pensiero debole postmoderno e l’assunzione da parte della filosofia di una funzione interventista e attivistica. La filosofia, dunque, non più vista come mera erudizione estetizzante o come cane da guardia del «migliore dei mondi possibili», ma come strumento per trasformare la realtà. Una filosofia, insomma, che riacquista finalmente la sua dimensione epica ed eroica, come la intendeva Giovanni Gentile.

Diego Fusaro con il suo libro su Marx
Ed è proprio al filosofo di Castelvetrano e al suo rapporto con Marx che Fusaro dedica pagine importanti del suo nuovo libro, proponendo un’interpretazione certamente unilaterale del pensiero marxista, ma tutt’altro che illegittima. È in particolare il Marx delle Tesi su Feuerbach che emerge prepotentemente dall’opera di Fusaro: quel Marx che criticava il materialismo «volgare» dello stesso Feuerbach e che si concentrava maggiormente sul concetto di prassi – quella prassi che, contro ogni determinismo, era sempre in grado di rifiutare una realtà sentita come estranea per fondare un nuovo mondo. La prassi, quindi, come fonte inesauribile di rivoluzione.

Non è un caso, del resto, che sarà proprio Gentile a valorizzare il Marx filosofo della prassi, in quel famoso volume (La filosofia di Marx, 1899) che Augusto Del Noce indicò, non senza qualche evidente esagerazione, come l’atto di nascita del fascismo. Nonostante una ottusa damnatio memoriae che ancora grava su Gentile, ma che è già stata messa in crisi da molti autorevoli filosofi (Marramao, Natoli, Severino, ecc.), Fusaro riafferma la indiscutibile grandezza filosofica del padre dell’attualismo. Lo definisce giustamente, anzi, come il più grande filosofo italiano del Novecento. Non per una mera questione di gusto o di tifo, naturalmente, ma per un fatto molto semplice: tutti i filosofi italiani del XX secolo, nello sviluppo più vario del loro pensiero, si sono necessariamente dovuti confrontare con Gentile. «Gentile – scrive l’autore – sta al Novecento italiano come Hegel – secondo la nota tesi di Karl Löwith – sta all’Ottocento tedesco».

Fusaro, dunque, ricostruisce tutto quel percorso intellettuale che da Fichte, passando per Hegel e Marx, giunge sino a Gentile che, non a caso definito Fichte redivivus da H. S. Harris, chiude il cerchio. Di qui l’interpretazione dell’atto puro di Gentile alla luce della prassi marxiana, così come, per converso, la lettura di Gramsci come «gentiliano» che ha conosciuto Marx filtrato dal filosofo siciliano. Tesi, quest’ultima, tutt’altro che nuova (pensiamo anche solo ai recenti lavori di Bedeschi e Rapone), ma che ancora non ha fatto breccia negli ambienti semi-colti del «ceto medio riflessivo» che legge Repubblica, ripudia Gramsci e ha per guru Eugenio Scalfari.

Il Palazzo della civiltà italiana o della civiltà del lavoro,
comunemente noto come «colosseo quadrato» (Eur, Roma)
Ad ogni modo, non mancherebbero le obiezioni ad alcune tesi di Fusaro sul rapporto di Gentile con Marx, dal momento che l’autore non tiene nel minimo conto gli elementi mazziniani e nietzscheani del pensiero del filosofo attualista, così come manca qualsiasi riferimento alle correnti culturali del fascismo che provenivano dal socialismo non marxista e che non mancarono di influenzare Gentile. Mi riferisco, in particolare, al sindacalismo rivoluzionario (A. O. Olivetti, S. Panunzio) e al socialismo idealistico dello stesso Mussolini: quel socialismo, cioè, che aveva scoperto che rivoluzionaria non era la classe, ma la nazione. Mi riferisco, inoltre, alle giovani leve degli anni Trenta che volevano edificare la «civiltà del lavoro», glorificata dal fascismo con il cosiddetto «colosseo quadrato» che campeggia tra le imponenti costruzioni dell’Eur.

Senza Mazzini e gli altri «profeti» del Risorgimento, del resto, non si potrebbero comprendere gli elementi nazionali del pensiero gentiliano, così come il significato che Gentile dava al termine «umanità». Far discendere l’«umanesimo del lavoro» di Genesi e struttura della società (1946, postumo) da un «ritorno» di Gentile a un confronto con Marx, come fa Fusaro, è dunque possibile solo se si prescinde deliberatamente da tutto il dibattito che la cultura fascista sviluppò negli anni Trenta, con Ugo Spirito, Berto Ricci e Niccolò Giani. E in questo senso allora sarebbe anche possibile interpretare l’umanesimo gentiliano in senso egualitarista. Ma lo stesso Gentile, in alcuni importanti interventi, ha chiarito come intendeva l’universalità (e non l’universalismo), che doveva basarsi sul concetto romano di imperium e su una missione civilizzatrice dell’Italia (e qui ritorna Mazzini), come messo ben in evidenza da Gentile nel fondamentale articolo Roma eterna (1940). Un’universalità verticale, quindi, intesa come ascesa, e non un universalismo orizzontale e azzeratore delle differenze in nome di un’astratta concezione di uomo, avulsa da qualsiasi contesto storico e culturale concreto. In questo senso, dunque, l’umanesimo gentiliano è fondamentalmente sovrumanismo, come lo ha magistralmente descritto Giorgio Locchi.

Giovanni Gentile
Anche sul concetto di «apertura della storia», su cui giustamente insiste il Fusaro, bisognerebbe intendersi. D’altronde, già Karl Löwith sottolineò, nell’immediato dopoguerra, il messianismo intrinseco alla filosofia della storia marxiana. Secondo la teoria scientifica, infatti, il proletariato, ottenuta la coscienza di classe grazie allo sfruttamento capitalistico, avrebbe dovuto, per il tramite dell’azione del partito comunista, abolire le classi e lo Stato, ristabilendo le condizioni dell’Urkommunismus, sebbene in una forma «arricchita», con tutti i vantaggi, cioè, della moderna tecnologia. In questo senso, il marxismo lavorava anch’esso per l’uscita dalla storia che, invece di coincidere con la planetaria democrazia liberale di Francis Fukuyama, avrebbe istituito l’agognata società comunista e la fine di ogni volontà storificante dell’uomo.

Ad ogni modo, queste brevi e sintetiche obiezioni non vogliono in alcun modo sminuire l’eccellente opera di Fusaro, che è invece quanto di meglio si possa leggere oggi in un desolante contesto politico e culturale totalmente appecoronato alle logiche demoliberali, mondialiste e finanzcapitalistiche. La rilettura di Marx in senso idealistico, anzi, ha un innegabile merito: riportare al centro dell’azione politica la volontà creatrice dell’uomo, che scaturisce dalla sua libertà storica. È, in altri termini, il ritorno della filosofia a un approccio rivoluzionario alla realtà. Filosofia non più intesa come glorificazione dell’esistente, ma come motore di storia. Il che, si converrà, se non è tutto, è certamente molto.

Condividi

lunedì 9 dicembre 2013

Corporativismo e New Deal/3

Come abbiamo notato, l'edificio corporativo che si stava lentamente edificando in Italia attirò grandissimo interesse negli Stati Uniti. Questa attenzione andò scemando nel corso degli anni, quando il New Deal venne pesantemente ostacolato (ad esempio dalla Corte Suprema) e nella politica estera dei due paesi si cominciò a scavare un fossato incolmabile. Solamente la guerra permetterà agli Usa di rimettere in carreggiata la propria situazione economica.
In ogni caso, il tratto principale che va rilevato è che la nostra nazione seppe distinguersi in un dibattito culturale ed economico di livello internazionale, lanciando un messaggio sociale importante e divenendo esempio per diverse nazioni2. Perfino verso la Russia sovietica ci fu da parte di molti intellettuali fascisti uno studio e un'attenzione particolare3.
Molto semplicemente, quindi, il contributo italiano fu parte integrante della fase di «più intenso ripensamento del rapporto tra economia, società e politica»4 sul piano mondiale, come ha osservato Alessio Gagliardi5. Il pensiero corporativo fu un significativo «momento della storia del pensiero economico, nel quale lo spostamento dell'attenzione dal comportamento del singolo individuo al comportamento di gruppi sociali considerati globalmente ha portato gradualmente all'approccio macroeconomico»6.
Dall'unità ad oggi è difficile trovare altri momenti in cui l'Italia seppe esprimere un pensiero di pari portata, suscitare dibattiti e tentare la mobilitazione del popolo verso una costruzione socio-economica così complessa e originale.
La miniera rappresentata dalla legislazione e dalle opere teoriche del pensiero corporativo, distrutta dal secondo conflitto mondiale e rimasta sepolta dai pregiudizi e dal dilettantismo della storiografia, merita di essere riportata alla luce nella sua vitalità. L'opera di giovani studiosi Corporativismo del III millennio è un piccolo tentativo in questo senso, per immaginare soluzioni alla crisi attuale che sappiano andare "oltre" i dogmi liberali (o marxisti). Le difficoltà odierne coinvolgono le democrazie parlamentari e i concetti stessi di lavoro e libertà. Coordinate "corporative" quali la concezione organica dello Stato e le idee di responsabilità e partecipazione dei lavoratori potrebbero essere i primi esempi per "ricostruire" il destino del popolo italiano.

1 G. Santomassimo, La Terza Via fascista, cit., p. 208
2 Pensiamo solo alle esperienze austriache, portoghesi e spagnole degli anni Trenta, o a nomi come quelli di Henri De Man, Werner Sombart, Mihail Manoilesco, più volte richiamati negli scritti di Renzo De Felice, Lorenzo Ornaghi e Gianpasquale Santomassimo. L'opera dello studioso rumeno Le siecle du corporatism (Mihail Manoilesco, Le siecle du corporatism, AlcanParigi 1934) sarà alla base del saggio di Philippe Schmitter (Philippe Schmitter, Still the century of corporatism?, «Rewiev of politics», vol. 1, n. 36, gennaio1974, pp. 85 – 131) e della successiva ripresa degli interessi per la tematica corporativa in ambito internazionale: G. Santomassimo, La terza via fascista cit., p. 306.
3 In Italia, infatti, sin dall'inizio degli anni Trenta, l'interesse verso i provvedimenti bolscevichi fu a dir poco intenso. Nel dibattito riguardante «Roma e Mosca o la vecchia Europa?», apertosi sulle pagine di «Critica Fascista», diversi giornalisti ravvisarono somiglianze tra bolscevismo e fascismo, ed altri addirittura predissero futuri incontri (G. Santomassimo, La Terza Via Fascista cit., pp. 198 – 207). Bruno Spampanato e Riccardo Fiorini furono tra i più accesi sostenitori delle somiglianze tra le due rivoluzioni, in una discussione che, nel corso degli anni, interessò un grande numero di personaggi e posizioni diverse, al punto che per contrastare la cosiddetta “moscofilia” il PNF promosse una pubblicazione di spiccata impostazione antisovietica: Pietro Sessa, Fascismo e bolscevismo, Mondadori, Milano,1933. Su impulso di Bottai, vennero tradotti numerosi testi di dirigenti sovietici, tra cui Stalin (G. Santomassimo, La Terza Via fascista, cit., p. 200) e di studiosi marxisti, quale la storia del bolscevismo scritta da Arthur Rosenberg (A. Rosenberg, Storia del bolscevismo da Marx ai nostri giorni, Sansoni, Firenze, 1933). Contemporaneamente libri come quelli di Ettore Lo Gatto (E. Lo Gatto, Dall'epica alla cronaca nella Russia soviettista, Istituto per l'Europa Orientale, Roma 1929 e E. Lo Gatto, URSS 1931: vita quotidiana, piano quinquennale, Istituto per l'Europa Orientale, 1932) Gaetano Ciocca (G. Ciocca, Giudizio sul bolscevismo, Bompiani, Milano, 1933 ) e Gerhard Dobbert (G. Dobbert, L'economia sovietica, Sansoni, Firenze 1935), studioso tedesco trasferitosi a Milano per il suo interesse verso il corporativismo (G. Santomassimo, La Terza Via fascista, cit., p. 202), fornivano validi spunti d'interpretazione sulla situazione economica russa. Nel pieno di questi fermenti culturali, significativo fu l'articolo di Federico Maria Pacces e Bottai: F. M. Pacces, G. Bottai, Verso un piano economico – corporativo, «Critica Fascista», 15 marzo, pp. 103 – 105, mentre Carlo Costamagna arrivò a parlare di un «piano quinquennale europeo», in “concorrenza” e opposizione ai sovietici : C. Costamagna, Per un piano quinquennale europeo. (La marca orientale), «Lo Stato», giugno 1932, p. 453 - 455. Nel 1936 il duce varò effettivamente un «piano regolatore» che avrebbe dovuto lanciare ancora «più avanti» la politica sociale del regime (R. De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso 1929 – 1936, cit., p. 786).
Queste suggestioni sono state descritte in diverse opere riguardanti il fascismo (oltre alle pagine di Santomassimo, il miglior studio specifico è: Roberto Romani, Il piano quinquennale sovietico nel dibattito corporativo italiano. 1928 – 1936, cit., pp. 27 – 41) e possono senz'altro aiutare a contestualizzare e capire il clima e le influenze culturali che si avvertivano in Italia, e l'entusiasmo e la profondità d'analisi che animò diversi protagonisti dell'epoca.
4 Ibidem, p. 11.
5 Ibidem
6 M. Finoia, Il pensiero economico italiano degli anni '30, cit., p. 589.

Condividi

Corporativismo e New Deal/2



Nel regime fascista, accanto a molte posizioni superficiali o di taglio giornalistico, ci fu ampio spazio per chi espresse critiche documentate e ampi studi verso l'America e le sue riforme. In prima fila ci furono i bottaiani, che tentarono di esaminare il problema «alla luce di una definizione più precisa di corporativismo»1, considerato come l'idea che si stava ormai imponendo su scala mondiale. Proprio Bottai fu protagonista di un momento saliente del rapporto tra i due Paesi, quando firmò l'articolo Corporate State e NRA su «Foreign Affairs» («voce ufficiosa ma autorevole del Dipartimento di Stato»2) del luglio 1935, dedicato a un'esposizione teorica del corporativismo e a un'analisi delle differenze e somiglianze sul piano sociale ed economico fra Italia e Stati Uniti3. Non è quindi casuale l'impegno profuso dalla scuola di Scienze Corporative di Pisa (voluta dal gerarca romano) nella raccolta e nella traduzione di libri di numerosi autori americani, quali Stuart Chase, Thorstein Veblen4Henry A. Wallace, segretario all'Agricoltura dell'amministrazione Roosevelt, e dello stesso presidente americano, risultando all'epoca una delle più complete in proposito5. Nello stesso ambiente culturale, autori come Benigno Crespi e Attilio Fontana si concentrarono sull'analisi del taylorismo e dell'organizzazione industriale americana, mettendone in luce i lati positivi6. Ancor più “audaci” furono studiosi come Fritz Ermarth e Andrè Rouart, che descrissero un'America «sulla via delle realizzazioni corporative»7, al pari del «sostenitore più deciso e preciso della somiglianza tra i due casi»8Giovanni Fontana, che ebbe occasione di studiare il caso statunitense attraverso un soggiorno alla Yale University9. Le maggiori critiche rivolte a chi proponeva paralleli riguardavano, in particolare, la mancanza di coinvolgimento dei lavoratori nel processo formativo delle leggi (come si pretendeva avvenisse in Italia) e differenze di carattere spirituale e morale quali divergenze più eclatanti tra le due esperienze10. Numerosi risultarono coloro, quindi, che negarono qualsiasi parentela tra il National Recovery Act (NRA, elemento centrale dell'economia rooseveltiana) e le politiche fasciste, come i nazionalisti e i reazionari11. Il quadro che emerge, comunque, è quello di una vasta schiera di intellettuali e scrittori capaci di esprimere critiche documentate e spiccare per capacità d'analisi e vitalità di pensiero. Non solo Spirito12 e Bottai, ma personaggi quali Fontana13Celestino Arena14 e Guglielmo Masci. Quest'ultimo fece costante riferimento alla teoria dello sviluppo di Schumpeter e agli scritti di Keynes, esprimendo un pensiero economico autonomo e talvolta addirittura anticipatore di alcuni aspetti delle loro opere successive15.

Di primaria importanza e particolarità fu la posizione di Mussolini, che recensì positivamente il libro di Roosevelt Looking Forward16e ci tenne a far pervenire una cordiale lettera al presidente americano, recapitata dall′allora ministro delle Finanze Guido Jung, giunto in visita ufficiale a Washington nel 193317Questo avvenimento si inseriva nel preciso periodo in cui diversi intellettuali e membri del Brain Trust effettuarono studi e viaggi in Italia. Tra i nomi più importanti figurarono Hugh Johnson, James Farley18, Harry Hopkins19 insieme ai professori Raymond Moley e Rexford Tugwell20. Tutti si espressero con toni sostanzialmente positivi riguardo alle politiche economiche fasciste per affrontare la crisi economica. Da qui le polemiche e i confronti nel dibattito americano si fecero più serrati, orchestrati in molti passaggi significativi dall'abile figura del presidente Roosevelt21.
La rivista «Fortune» si spinse fino a dedicare un numero speciale al corporativismo, in cui, oltre a diverse considerazioni critiche, venivano elencati i «vantaggi» che una programmazione economica di stampo fascista avrebbe potuto offrire alla situazione critica del Paese22. Non dissimili le analisi di molti studiosi e giornalisti, poco noti oggi in Italia, che firmarono pagine importanti di questo complesso rapporto. Roger Shaw, ad esempio, scrisse: «La Nra, con il suo sistema di norme, le clausole che regolano l'economia, e certi aspetti tesi a migliorare la situazione sociale, è stata un semplice adattamento americano dello Stato corporativo italiano nei propri meccanismi. La filosofia del New Deal assomiglia da vicino a quella del partito laburista inglese, ma i suoi meccanismi sono stati presi a prestito dall'antitesi italiana al laburismo»23. Sullo stesso piano si posero nomi delle più diverse estrazioni politiche come William Welk24Norman Thomas25, Mauritz Allegren26, Gilbert Montague27 e lo storico Charles Beard28. Ben poche, tra le riviste più importanti e diffuse29, non toccarono l'argomento.
Quest'attenzione verso l'Italia destò allo stesso tempo preoccupazioni e forti rimostranze da parte di politici (principalmente dello schieramento conservatore, come Hoover) e di studiosi quali Leon Samson e Waldo Frank, timorosi riguardo alla possibile perdita dei valori democratici del Paese30. Tra i critici più pungenti verso il fascismo e la sua economia spicca il nome di George Seldes che, nel libro Sawdust Caesar. The Untold history of Mussolini and fascism, mise in luce quelle che considerava le contraddizioni e le finzioni propagandistiche del regime fascista31.
Ciò che stupisce di più, comunque, è il fatto che in ambito americano «i paralleli fra New Deal e corporativismo fascista erano ancor più diffusi (...) che nella stessa Italia»32.



M. Vaudagna, New Deal e corporativismo nelle riviste politiche ed economiche italiane, cit., p. 110.
Ibidem, p. 106.
Ibidem. Anche Ermarth ebbe occasione di illustrare il corporativismo su «Plan Age» (Ibidem, p. 138), rivista dei “pianificatori” americani, diretta dall'economista Lewis Lorwin, e il cui contributo fu uno dei più originali all'epoca.
Questo nome ci consente di aprire una parentesi per citare il tema della “tecnica” e della tecnocrazia, che accomunò le elaborazioni teoriche di alcuni protagonisti-chiave nel contesto preso in esame, come Bottai e Eraldo Fossati.. Cfr. Arturo Masoero, Un americano non edonista, Economia, n.2, febbraio 1931, pp. 151 – 172; E. Fossati, New Deal. Il nuovo ordine di F. D. Roosevelt, Cedam, Padova, 1937;Alexander De Grand, Bottai e la cultura fascista, Laterza, Roma 1978 e Alfredo Salsano, L'altro corporativismo. Tecnocrazia e managerialismo tra le due guerre, Il Segnalibro, Torino 2003.
M. Vaudagna, New Deal e corporativismo nelle riviste politiche ed economiche italiane, cit., p.138.
B. Crespi, Il taylorismo nell'Italia fascista, «Critica Fascista», 15 febbraio 1929, pp. 88 – 91; B. Crespi, Cosa insegna l'America, 15 settembre 1929, pp. 351 – 353; A. Fontana, presupposti e finalità del taylorismo, «L'Ordine Corporativo», II, 7, maggio – giugno 35, pp. 11 – 14. Da segnalare inoltre i libri: Eraldo Fossati, New Deal. Il nuovo ordine di F. D. Roosevelt, Cedam, Padova, 1937 e Mariano PierroL'esperimento Roosevelt e il movimento sociale negli Stati Uniti, Mondadori, Milano, 1937.
M. Vaudagna, New Deal e corporativismo nelle riviste politiche ed economiche italiane, cit., p. 118.
Ibidem, p. 126.
Ibidem, p. 117. Tra le sue ricerche più interessanti da mettere in evidenza, spicca l'accurato studio dei codes americani: G. Fontana, La disciplina della concorrenza e i codici di Roosevelt, Diritto del Lavoro, Roma 1935 e il volume: G. Fontana, La concorrenza sleale negli Stati Uniti d'America, Cya, Firenze 1936.
10 In proposito cfr. le posizioni degli economisti Alberto De Stefani, Luigi Amoroso, Felice Vinci e Renzo Sereno (Ibidem, p.113) o del giornalista Piero Campana. Ibidem, p. 130.
11 Valgano per tutti i numerosi corsivi dell'epoca presenti ne La Vita Italiana dell'antisemita Giovanni Preziosi, ne L'Economia Italiana, rivista improntata allo «statalismo autoritario», che non esitò a definire il capitalismo americano come «un'economia di rapina» (M. Vaudagna, New Deal e corporativismo nelle riviste politiche ed economiche italiane cit., pp. 112 – 113) e negli scritti di Giuseppe Attilio Fanelli, caratterizzati da un'ideologia «ruralistica e antiamericanistica». G. Santomassimo, La Terza Via Fascista cit., pp. 273.
12 Come già osservato, Spirito fu protagonista nel dibattito intorno alle questioni sociali,politiche ed economiche degli anni '30. Il filosofo aretino, tentando di dare alle sue intuizioni respiro internazionale, espresse interesse per il fordismo americano (U. Spirito, Il problema del salario nella trasformazione del capitalismo, «Critica fascista», 15 settembre 1932, pp. 365 – 367), formulando al contempo una critica all'economia liberale «per certi versi in notevole sintonia con i primi scritti di Keynes». M. Finoia, Il pensiero economico italiano degli anni '30, cit., p. 585.
13 Il già citato studioso scrisse su La rivista di Politica economicaIl Diritto del LavoroRassegna corporativa e Commercio. M. Vaudagna, New Deal e corporativismo nelle riviste politiche ed economiche italiane cit., p. 117.
14 Francesco Perillo ha osservato che, nella sua produzione, «Arena riprende temi già sviluppati, in quegli anni, dal pensiero anglosassone immediatamente pre-keynesiano; tuttavia queste analisi testimoniano una inaspettata sintonia con le linee di sviluppo dell'analisi economica all'esteronon rintracciabile invece nella scuola accademica liberale: così che, proprio attraverso le tematiche emergenti nell'area del pensiero corporativo, è possibile cogliere i limiti dell'immobilismo concettuale del liberismo italiano» (F. Perillo, Introduzione a: La teoria economica del corporativismo, vol. 2, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1982, 2 voll., p. 345). Arena diresse anche, insieme a Bottai, la «Nuova Collana di Economisti Stranieri e Italiani». Keynes non venne ovviamente trascurato: Piero Bolchini, La fortuna di Keynes in Italia, «Miscellanea Storica Ligure», Anno XIV, Genova 1982, pp. 7 – 70; Aurelio Marchioro, Il keynesismo in Italia nel periodo a cavallo della seconda guerra mondiale, «Studi di storia del pensiero economico», Milano 1970, pp. 628 – 652 e Giacomo Beccantini, L'acclimatamento del pensiero di Keynes in Italia: introduzionead un dibattito, «Passato e presente», II, luglio – dicembre 1983, pp. 85 – 104.
15 M. Finoia, Il pensiero economico italiano degli anni '30 cit., p. 573 – 574. Riferendosi a lui, con un'affermazione tutt'oggi valida, l'economista Federico Caffè scrisse: «si è indotti a chiedersi perché un pensiero così fecondo, vivace, stimolatore sia oggi praticamente ignorato» (F. Caffè, Frammenti per lo studio del pensiero economico italiano, Milano, Giuffrè, 1975, p. 125). Riguardo alla politica americana dei primi anni '30, Masci espresse apprezzamenti per quello che considerava un esperimento «vasto e interessante». Ibidem, p. 583.
16 Benito Mussolini, Roosevelt e il sistema, «Il Popolo d'Italia», 7 luglio 1933, riportato in Bollettino del Ministero degli affari esteri, 7 luglio 1933, pp. 715 - 717. Gli apprezzamenti verso la figura del presidente USA e la sua politica di interventismo statale furono confermati l'anno successivo da una nuova recensione del duce, questa volta a un libro di Henry A. Wallace, chiusa enfaticamente: «Dove va l'America? Questo libro non lascia dubbi: è sulla strada del corporativismo, il sistema economico di questo secolo». I provvedimenti americani erano visti come prova della bontà delle idee fasciste, oltre che occasione propagandistica da sfruttare, come suggerisce W. Schivelbush, Three New Deals, cit., pp. 27 – 28.
17 La polemica riguardante la lettera del duce e i suoi rapporti con Roosevelt è stata posta all'attenzione del pubblico da Lucio Villari e Sergio Romano: Che cosa unisce e cosa divide New Deal e fascismo, “Corriere della Sera”, 14 novembre 2010, p. 29. La lettera fu recapitata il 24 aprile 1933, neanche due mesi dopo l'elezione del presidente democratico. Tale fu l'attenzione verso Roosevelt che nel luglio 1933 l'Ufficio stampa del duce diramò l'ordine di non definire “fascista” il New Deal, per non offrire argomenti agli oppositori politici del presidente americano. Le azioni italiane in questo periodo furono ricambiate da parole lusinghiere da parte di Roosevelt, che definì Mussolini «that admirable Italian gentleman» (J. P. Diggins, L'America, Mussolini e il fascismo, cit., p. 362).
18 R. De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso, cit., p. 554.
19 G. Santomassimo, La Terza Via fascista, cit., p. 208.
20 W. Schivelbush, Three New Deals, cit., pp. 34 – 35.
21 «Primo grande presidente “mediatico”, Franklin D. Roosevelt fu maestro nel controllo dell'opinione pubblica: allestì un efficiente servizio di monitoraggio dei giornali, inaugurò l'abitudine di tenere regolari conferenze stampa, coltivò rapporti di amicizia personali con i principali cronisti politici, curò scrupolosamente la sua immagine». Oliviero Bergamini, La democrazia della stampa. Storia del giornalismo, Laterza, Bari 2006, p. 231.
22 «Fortune», X, luglio 1934, pp. 137 – 138, riportato in J. P. Diggins, L'America, Mussolini e il fascismo, cit., pp. 208 – 210. Proprio questa rivista ospitò anche alcune considerazioni sull'Italia fascista del presidente Roosevelt: cfr. in proposito J. P. Diggins, L'America, Mussolini e il fascismo cit. pp. 365 – 366.
23 R. Shaw, Fascism and the New Deal, «North American rewiew», vol. CCXXXVIII, 1934, p. 472.
24 Su «Foreign Affairs» questo politologo firmò una lunga e lusinghiera inchiesta sull'economia fascista: W. Welk, Fascist economic policy and Nra, «Foreign Affairs» XXI, ottobre 1933, 98 – 108. Welk successivamente pubblicò un libro sul tema: W. Welk, Fascist Economic Policy; An Analysis of Italy's Economic Development, Harvard University Press, Cambridge 1938. Oltre a questa, non pochi i volumi significativi che videro la luce negli anni '30: Carmen Haider, Capital and Labour under fascism, Columbia University Press, New York 1930; Ernst Basch, The Fascist: His state and His Mind, Morrow, New York 1937; George Lowell Field, The syndacal and corporative institution of Italian fascism, Columbia University Press ,New York 1938; Carl T. Schmidt, The Corporate State in Action. Italy Under Fascism. Oxford University Press, New York 1939. Queste sono opere ancora colpevolmente ignorate dalla storiografia, quanto fondamentali per capire il clima culturale e le proposte economiche dell'epoca.
25 Thomas fu il capo dell'American Socialist Party nel periodo in esame, e si occupò delle analogie tra i due paesi in diverse sue elaborazioni. W. Schivelbusch, Three New Deals cit., p. 32.
26 Giornalista liberale, Allegren si occupò di questioni estere e socio – economiche sulle pagine dello Spectator, toccando spesso temi riguardanti l'Italia a confronto con gli Usa, e guardando con interesse alle riforme fasciste (W. Schivelbusch, Three New Deals, cit., p. 31). Su posizioni simili il direttore del New Republic George Soule (Ibidem, p. 32). Sull'importanza centrale di questa rivista nel contesto del New Deal: Francesco Villari, Il New Deal, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 264.
27 Anche lui liberale, fino al 1935 fu uno dei più strenui sostenitori delle somiglianze tra corporativismo e New Deal. Cfr. Ibidem, p. 35 e John P. Diggins, L'America, Mussolini e il fascismo cit., p.212.
28 Beard si occupò a lungo di economia e corporativismo, e i suoi scritti sono fondamentali nel quadro analizzato, in primis il libro: Charles Beard, The future comes. A study of the New Deal, McMillan, Londra 1933.
29 Uno dei più grandi magnati della stampa americana come William Randolph Hearst fu un ammiratore del capo del fascismo (John P. Diggins, L'America, Mussolini e il fascismo,cit., pp. 59 – 60), mentre Henry Luce, altro uomo di punta dell'editoria americana, fu un repubblicano d'impostazione liberista e antifascistaTrale tante riviste che si dedicarono a critiche e paralleli, ci furono in primis «New York Times» (di Hearts), «Fortune» (di Luce) e l'«Harper's Magazine» (W. Schivelbusch, Three New Deals cit., pp. 32 – 33), dove apparve uno degli scritti più significativi: Joseph Brown Matthews e Ruth Enalda Shallcross, Must America go fascist?, «Harper's Magazine», vol. CLXXX, 1935, p. 159.
30 Questi due autori si occuparono diffusamente delle analogie tra i sistemi economici italiano e americano, al punto di firmare due articoli dal titolo e dai contenuti simili: L. Samson, Is fascism possible in America?, «Common Sense», agosto 1934, p. 17 e W. Frank, Will fascism come to America?, «Modern Monthly», vol. VIII, 1934, p. 135. La rivista «Common Sense» fu una delle tribune di discussione più interessanti riguardo all'economia degli anni Trenta. Trai suoi collaboratori spiccò il nome di John T. Flynn, uno dei più attivi critici sia del New Deal che del fascismo. Cfr. John Moser, Right Turn: John T. Flynn and the Transformation of American Liberalism, New York University Press, New York 2005.
31 G. Seldes, Sawdust Caesar. The Untold history of Mussolini and fascim, Harper, New York 1935.
32 G. Santomassimo, La Terza Via fascista, cit., p. 208

Condividi

Corporativismo e New Deal/1

La crisi del capitalismo fra le due guerre mondiali stimolò riflessioni teoriche in ogni angolo del mondo. Gli stati europei, colpiti dalle conseguenze delle difficoltà economiche, tentarono di esprimere ricette innovative, con l'Italia che recitò un ruolo da protagonista. Nel nostro paese, «Critica Fascista» si distinse per l'alto livello delle sue elaborazioni teoriche1.
Sul finire degli anni Venti questa rivista intensificò visibilmente il suo impegno verso la diffusione dei principi della «terza via», alimentando un dibattito che presentava il corporativismo come ordinamento capace di superare le teorie economiche classiche e dare vita ad una «nuova scienza economica»2. Aspirazioni riscontrabili dalla lettura di altri fogli del regime e condivise anche da numerosi intellettuali, che tentarono di dare un respiro internazionale alle proposte italiane in campo economico3. Ne derivò una serie di fermenti culturali e illusioni propagandistiche che conobbe un crocevia fondamentale proprio con la «grande crisi» del 1929, la quale ebbe conseguenze significative sugli orientamenti di molti studiosi ed economisti italiani4. Le difficoltà del sistema liberale offrirono al fascismo l'occasione per proporre la tematica corporativa al di fuori dei confini nazionali5: tanto che essa fu, come ha osservato Gianpasquale Santomassimo, «una delle leve fondamentali del successo internazionale del fascismo»6. Attenzione particolare nella pubblicistica del regime venne riservata alla situazione americana, dove la crisi fu più dirompente.
D'altra parte, proprio a causa delle difficoltà economiche, oltreoceano si cominciava a guardare con sempre più interesse ai provvedimenti d'impostazione dirigista del fascismo. A seguito dell'insediamento di Franklin Delano Roosevelt alla Casa Bianca nel 1933 e del varo del New Deal, tra i due Paesi si intensificarono notevolmente i rapporti culturali e istituzionali, dando vita ad una serie di contatti che merita di essere studiata in profondità.
- Stato degli studi
Le posizioni fasciste di fronte al New Deal (e in genere alle politiche economiche degli Stati Uniti) così come quelle americane nei confronti del corporativismo sono state analizzate raramente dalla storiografia. Cenni sulla questione, infatti, si trovano solamente in alcune opere dedicate generalmente agli Stati Uniti e al fascismo, come ad esempio nella biografia di De Felice dedicata a Mussolini7. Da segnalare poi la breve ma densa analisi presente in Santomassimo8 e il volume datato ma prezioso di John P. Diggins9. Quest'ultimo costituisce ancor oggi una piattaforma indispensabile per capire l'atteggiamento statunitense di fronte al fascismo. Qui vengono esaminate nel dettaglio tutte le reazioni ed i rapporti con l'Italia da parte del governo, dell'opinione pubblica, dei giornalisti, del mondo degli affari, dei cattolici e dei sindacati americani.
Gli studi più specifici sul tema, in ambito italiano, sono rappresentati da un articolo di Franco Catalano10 e dai saggi di Maurizio Vaudagna11. Sul piano internazionale, invece, speciale menzione merito uno scritto di John A. Garraty, pubblicato negli anni Settanta,che più di altri contribuì a mettere in discussione i pregiudizi riguardo ai rapporti tra il totalitarismo italiano (e tedesco) e la democrazia statunitense e alla natura delle loro convergenze politiche, economiche e culturali12. L'autore illustrò inoltre le somiglianze tra i due Paesi e accennò ai dibattiti che avevano animato Italia e America negli anni Trenta, venendo in questo seguito diverso tempo dopo da Diane Ghirardo13 e, recentemente, da Wolfgang Schivelbusch. Ed è proprio di quest'ultimo il volume più importante pubblicato finora sul tema, ossia Three New Deals: Reflections on Roosevelt's America, Mussolini's Italy, and Hitler's Germany14Qui l'autore analizza tutte le affinità tra Italia e Stati Uniti sul piano economico, culturale, oltre che delle opere pubbliche, delle istituzioni e della propaganda, approfondendone i comuni elementi populisti e statalisti. La panoramica offerta è di estremo interesse, quanto però lontana dall'essere esaustiva. Per comprensibili ragioni di spazio e di vastità di argomenti affrontati, le porte aperte a critiche e approfondimenti storiografici ulteriori sono a dir poco numerose15. Allo stesso modo, l'opera precedentemente richiamata di Vaudagna, fondamentale per inquadrare il contesto culturale entro cui i fascisti recepirono ed interpretarono la situazione americana, risulta oggi quanto mai suscettibile di ulteriori approfondimenti16. L'autore, poi, tradisce i suoi pregiudizi ideologici quando definisce fascismo e New Deal due «forme di dominio capitalistico borghese». Affermazione a dir poco superficiale. Ad oggi, infine, il tema è stato rilanciato con forza da Lucio Villari17 e da Paolo Mieli sulle colonne del Corriere della Sera18.
___________________
La rivista di Giuseppe Bottai, tra le più sensibili alle questioni internazionali, si avvalse «delle migliori firme giornalistiche e della pubblicistica italiana di quegli anni» (Gabriele De Rosa, Bottai e «Critica Fascista». Saggi introduttivi all'antologia di «Critica Fascista»: 1923 – 1943, Luciano Landi Editore per C. E. N.Roma 1980p. XCV) e la sua lettura costituisce un passaggio imprescindibile per capire a fondo la storia dell'«illusione corporativa» tra le due guerre (Francesco Malgeri, Bottai e «Critica Fascista», cit., p. LXXI).
2 Nel corso del 1928 «Critica Fascista» ospitò uno dei più rilevanti “scontri” tra teorici di estrazione liberale e sostenitori del corporativismo quale «nuova scienza economica», al quale parteciparono Giuseppe Bottai, Lello Gangemi, Massimo Fovel, Gustavo Del Vecchio, Ettore Lolini, Gaetano Napolitano, e dove emersero le fragilità delle nuove concezioni fasciste, ma anche la convinzione di perfezionarle e portarle avanti (G. Santomassimo, La Terza via fascista, cit., pp. 111 – 115). Nella costruzione teorica di questa vagheggiata «nuova scienza» al nazionalista Filippo Carli spetta «l'indubbia primogenitura» (Ibidem, p. 69), mentre Ugo Spirito ne fu forse il più noto ed “estremo” propugnatore. Oltre che per via del suo celebre intervento al Congresso di Ferrara del 1932, ciò si evince dall'analisi dei suoi libri (U. Spirito, Critica dell'economia liberale, Sansoni, Firenze 1930; U. Spirito, I fondamenti dell'economia corporativa, Sansoni, Firenze 1933; U. Spirito, Capitalismo e corporativismo, Sansoni, Firenze 1933; U. Spirito, Dall'economia liberale al corporativismo, Sansoni, Firenze 1939) e della sua rivista «Nuovi studi di diritto, economia e politica», uscita dal 1927 al 1935. La discussione fu ampia e articolata in quanto secondo alcuni il corporativismo costituì pressoché l'unico argomento sul quale durante il regime si potessero esprimere opinioni difformi. Cfr. F. Chabod, L'Italia contemporanea (1918 – 1948), Einaudi, Torino 1961, p. 87; Pier Giorgio Zunino, L'ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime, Il Mulino, Bologna 1995, p. 246.
3  «Gli studiosi dell'epoca ebbero chiara consapevolezza che la loro riflessione non fosse legata alla situazione politica italiana», secondo Massimo Finoia (M. Finoia, Il pensiero economico italiano degli anni '30, Rassegna Economica, Banco di Napoli, Maggio – Giugno 1983, p. 583). A questo proposito ha scritto Giacomo Beccantini: «Io credo che con tutti i loro equivoci (…), le critiche di Spirito e compagni all'economia liberale, contenessero molti grani di verità e fossero comunque meno anacronistici delle pur labili e dotte difese dei custodi del tempio. E credo anche che quelle controversie e coloro che ne furono protagonisti non siano da considerare come un momento di smarrimento della ragione economica o come il prezzo pagato ad una dittatura politica invadente il terreno della cultura». G. Beccantini, «Alberto Bertolino (1898 - 1978) », in AA. VV., L'inflazione oggi: distribuzione e crescita, Giuffrè, Milano 1981, p. 129.
4 Santomassimo, riferendosi a studiosi di primo piano come Gustavo Del Vecchio, Ulisse Gobbi e Giorgio Mortara, ha scritto: «(…) si poteva notare un'evoluzione nell'atteggiamento degli economisti nei confronti del corporativismo, indotta certamente dalle ripercussioni, anche intellettuali, che la crisi economica cominciava a diffondere in Italia. Non si trattava affatto di una conversione esplicita, che non sarebbe mai avvenuta, ma di casi isolati in cui cominciavano a cadere barriere e preclusioni, a volte anche in base a considerazioni critiche sulla capacità di resistenza dei modelli teorici fino ad allora sostenuti» (G. Santomassimo, La Terza via fascista, cit., p. 131). In questo contesto, Alberto De Stefani compì «un lento decorso dal liberismo al solidarismo cattolico attraverso l'esperienza corporativa» (Ibidem, p. 219).
5 Tra l'espansione del fenomeno fascista e la «crisi» ci fu uno «stretto rapporto». Questo favorì l'attenzione verso le teorie economiche italiane all'estero, oltre che la popolarità del duce. Le dinamiche in questione sono state approfondite da De Felice in: R. De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso 1929-1936, Einaudi, Torino, 1974, pp. 538 – 587. Il ministro delle Corporazioni Bottai organizzò due Convegni di studi sindacali e corporativi proprio dopo l'irrompere della crisi (Roma 1930 e Ferrara 1932), in cui si discusse a proposito dell'ordinamento economico italiano ed internazionale, nel momento di massima difficoltà del sistema economico a livello europeo e mondiale.
6 G. Santomassimo, La Terza Via fascista, cit.p. 11. Ancora una volta fu la «grande crisi» a spingere il regime verso il rafforzamento delle sue «illusioni universalistiche». Molti giovani e intellettuali negli anni Trenta vollero proporre l'esperienza italiana come modello per gli altri Paesi, progettando la costruzione di un'«internazionale delle camicie nere» che avrebbe dovuto soppiantare la «vecchia democrazia borghese», come descritto da Michael Ledeen nel suo L'internazionale fascista, Laterza, Roma – Bari 1973. Cfr. anche: Marco Cuzzi, Antieuropa. Il fascismo universale di Mussolini, MB Publishing, Milano 2006. De Felice ha affrontato il tema in: R. De Felice, Mussolini il duce, vol. I: Gli anni del consenso 1929-1936, Einaudi, Torino 1974, pp. 307 – 311.
7 Ad esempio cfr. R. De Felice, Mussolini il duce, vol. I: Gli anni del consenso (1929-1936), Einaudi, Torino 1974, p. 542.
8 G. Santomassimo, La Terza Via Fascista cit., pp. 207 – 212.
9 J. P. Diggins, L'America, Mussolini e il fascismo, Laterza, Bari 1972.
10 F. Catalano, New Deal e corporativismo di fronte alle conseguenze della grande crisi, «Movimento di Liberazione in Italia», Aprile – Giugno 1967, pp. 3 – 34.
11 M. Vaudagna, New Deal e corporativismo nelle riviste politiche ed economiche italiane, in: a cura di Giorgio Spini, Gian Gioacomo Migone e Massimo Teodori, Italia e America dalla grande guerra ad oggi, Marsilio, Padova, 1976, pp. 101 – 140. L'autore in questione ha scritto anche: M. Vaudagna, Corporativismo e New Deal, integrazione e conflitto sociale negli Stati Uniti (1933-1941), Rosenberg & Sellier, Torino 1981 e M. Vaudagna, The New Deal and the American welfare state: essays from a transatlantique perspective (1933-1945), Otto, Torino 2013, che affrontano in particolare il tema della situazione sociale degli Stati Uniti nel periodi indicati.
12 J. A. Garraty, The New Deal, National Socialism, and the Great Depression, «The American Historical Review», 78/4 (ottobre 1973), pp. 907-944 .
13 D. Ghirardo, Building New Communities: New Deal America and Fascist Italy, Princeton University Press, New York 1989.
14 W. Schivelbush, Three New Deals: Reflections on Roosevelt's America, Mussolini's Italy, and Hitler's Germany. 1933-1939, Metropolitan Books, New York 2006.
16 Questo scritto analizza i contributi di molte riviste italiane in maniera efficace quanto veloce e, inoltre, sembra sopravvalutare i pregiudizi che pure caratterizzarono parte delle analisi di molte riviste specializzate, come si nota in primis dalla lettura di «Critica Fascista».
17 Lucio Villari, America amara, Salerno editrice, Roma 2013.
18 P. Mieli, Quell'amicizia finita male tra Mussolini e Roosevelt. Le forti sintonie tra fascismo e new deal, Corriere della Sera, 26 novembre 2013.

Condividi