giovedì 24 dicembre 2009

Il Fascismo di Delio Cantimori

Delio Cantimori (foto) fu uno dei più grandi storici italiani del Novecento, eppure non è noto al grande pubblico, e anche fra gli addetti ai lavori, si preferisce ricordare i suoi studi di storia moderna sugli eretici italiani del ’500, o al limite è citato come «il patriarca della storiografia marxista in Italia» (R. De Felice). Tuttavia, il suo percorso politico e intellettuale fu molto più complesso, simile per certi versi a quello di Ernst Niekisch, e non si sbaglierebbe, infatti, a collocarlo tra i rari corrispettivi italiani della Rivoluzione conservatrice tedesca. Basterebbe esaminare i suoi scritti politici (D. CANTIMORI, Politica e storia contemporanea. Scritti (1927-1942), a cura di L. Mangoni, Einaudi, Torino 1991).

Delio nacque a Russi, nel cuore della Romagna rossa e mussoliniana, nel 1904. Condusse gli studi liceali a Ravenna (1919-1922) e Forlì (1922-1924), e fu influenzato dal magistero filosofico di Galvano Della Volpe. Il suo primissimo orientamento era verso l’attualismo gentiliano. A questo periodo risale l’interesse per il Rinascimento e per la cultura tedesca, specie i romantici. Tra il 1924 e il 1929 studiò Storia presso la Scuola Normale Superiore di Pisa.

Suo padre era Carlo Cantimori, d’ardente fede mazziniana, militante del partito repubblicano, corrispondente di Alceste De Ambris, co-autore della Carta del Carnaro, e di Giovanni Gentile, indeciso nel 1922 tra il fascismo e un socialismo reducista e fiumano, infine aderente al regime dal 1926 fino alla fine. Lo stesso Delio, fin da ragazzo, ebbe una forte ammirazione per l’interventismo e appoggiò fortemente l’impresa fiumana, abbonandosi al bollettino della Reggenza del Carnaro e facendo propaganda fra i suoi compagni. Riconobbe presto nel Fascismo una forza veramente rivoluzionaria, e prese infine la tessera nel 1926, ma già nel 1924, ai tempi del caso Matteotti, si dichiarava fascista, approvando l’eliminazione di quest’ultimo, quale nemico politico.

In una lettera a Croce del 19 luglio 1926, affermava esplicitamente di seguire il Fascismo e di considerarla una religione. L’anno dopo definiva con esattezza questa religione: «quella coscienza dell’uomo moderno, consapevole del suo dovere e della sua responsabilità, ma anche del suo limite nella vita della Nazione per la quale egli è quel che è e può operare utilmente, concretamente, senza lasciarsi sviare da anacronistici ritorni a forme di vita morale (e religiosa che è lo stesso), buone per le donne e per la parte femminile degli uomini, che credono che Dio si veneri battendosi il petto ad ore fisse, e via dicendo, e non lavorando e faticando» (Politica e storia contemporanea, p. 26).

Di fatto, egli univa lo Stato etico gentiliano al nazionalismo mazziniano, rimanendo contrario sia al reazionarismo clericale e neoguelfo (ma anche contro il medievalismo ghibellino alla Evola), sia allo sciovinismo francese e al nazionalismo völkisch tedesco. Ovviamente, la sua opposizione era forte anche contro il liberalismo, considerato come sorpassato dalle grandi ideologie sociali del XX secolo. Anche nella simpatia che emerge verso gli eretici, dalle sue pagine storiografiche, si deve vedere piuttosto un intenso afflato libertario, proprio del Fascismo rivoluzionario, ovvero il rifiuto di una religione dogmaticamente e teologicamente imposta.

In politica interna, egli era naturalmente sostenitore dello Stato etico e corporativo. «A organizzazione culturale delle corporazioni, dove accanto alla cultura professionale e tecnica è unita la educazione secondo la morale di ordine e disciplina che il Governo Fascista ama accentuare come propria, appare di nuovo risposta chiara e netta ai bisogni della civiltà europea» (Politica e storia contemporanea, p. 26). In politica estera, è molto interessante il fatto che egli fosse già conscio della decadenza d’Europa, e reagisse con un vigoroso europeismo a prospettiva imperiale, che anticipava già Thiriart (foto). Inoltre sosteneva che l’Italia fascista dovesse farsi forte e diffondere il suo esempio nei rapporti internazionali. «Bisogna che noi ci assuefacciamo a questi orizzonti, e che ci consideriamo appunto perché e in quanto italiani e fascisti, banditori di un’idea universale, cittadini dell’Europa e del mondo» (articolo su «Pattuglia», 2 novembre 1929).

Altrettanto degno di nota era il suo punto di vista sostanzialmente filobolscevico, per cui rifiutava le critiche reazionarie o liberali al modello sovietico e sosteneva la necessità di un’alleanza tra URSS e Italia. Contemporaneamente, Cantimori mostrava un forte interesse per gli autori della Rivoluzione conservatrice, che studiò approfonditamente, conseguendo anche una seconda laurea in letteratura tedesca. Riguardo al nazionalsocialismo, egli apprezzava le teorie minoritarie dei fratelli Strasser, ma criticava il romanticismo politico connesso all’ideologia hitleriana. Il suo pensiero politico lo portava a opporsi sia alle posizioni conservatrici di Schmitt, sia a quelle razzialiste di Rosenberg.

Nel frattempo, insegnò ai licei di Cagliari e Parma, per essere chiamato da Giovanni Gentile all’Istituto Italiano di Studi Germanici nel 1934 e ad insegnare alla Scuola Normale di Pisa nel 1940, dopo aver ottenuto la cattedra di Storia Moderna a Messina l’anno prima. In quegli anni, maturò un certo distacco dal Fascismo, a causa della delusione per il Concordato del 1929, per l’insufficienza delle leggi corporative nel 1934, e la conseguente emarginazione di Bottai, Spirito e di altri fascisti “di sinistra”, e del progressivo avvicinamento alla Germania hitleriana, con conseguente inasprimento dell’anticomunismo. Ai primi del 1936, sposò Emma Mezzomonti, militante comunista.

In ogni caso, il passaggio dal Fascismo al Comunismo fu in Cantimori non un repentino voltare gabbana, bensì un lento e progressivo perdere fiducia in un regime che percepiva come ormai troppo poco rivoluzionario e relativo avvicinarsi ad un nuovo sistema politico-ideologico. Se già nel 1938 egli era ormai più “rosso” che “nero”, ancora nel 1941 egli scriveva su «La civiltà fascista» e fu solo nel 1948 che egli prese la tessera del PCI. In quegli anni, infatti, condusse vari studi su Marx, fino a tradurre il primo libro del Capitale (1951-52). D’altronde, non doveva durare troppo a lungo: già nel 1956, in seguito all’invasione dell’Ungheria, egli uscì dal partito, dedicandosi unicamente agli studi, fino alla sua morte (1966).

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mercoledì 16 dicembre 2009

Cenni su Nicola Bombacci

Giuseppe Parlato, ex rettore dell’Università San Pio V ed autore del libro La sinistra fascista, è intervenuto pochi giorni fa a CasaPound portando il suo contributo ad una conferenza dedicata alla figura di Nicola Bombacci. Le parole del professore hanno messo impietosamente in evidenza quanto l’opinione pubblica e determinati settori culturali del paese siano in ritardo rispetto alle conquiste della storiografia sul tema del Fascismo. Quest’ultimo, ancora definito da più parti quale mera «guardia bianca della borghesia», è stato invece un fenomeno ricco di sfaccettature che attendono ancora di essere colte appieno nel loro insieme.

Nicola Bombacci si inserisce in questo contesto, risultando un personaggio tanto “fuori dagli schemi” quanto indicativo dei fermenti che hanno animato il nostro Paese nella prima parte del secolo scorso.
Romagnolo e socialista come l’amico Mussolini, fu un acceso ed importante esponente dell’ala massimalista del partito. In occasione del primo conflitto mondiale la sua strada e quella del futuro Duce si divisero: Bombacci si schierò contro l’intervento, allineandosi per una volta alle scelte ufficiali dei capi del socialismo italiano, con cui spesso era in polemica.
Al termine della guerra divenne addirittura segretario del PSI, per poi fondare il Partito Comunista dItalia nel 1921. Anche qui si distinse per le posizioni anticonformiste: prima appoggiò entusiasticamente l’occupazione dannunziana di Fiume, poi propugnò lavvicinamento del Fascismo allUrss, nel nome dell’anticapitalismo che caratterizzava entrambe le rivoluzioni.
Era un personaggio scomodo sia per i fascisti avviati alla conquista del potere, ma anche per i suoi stessi compagni di partito, da cui fu espulso nel 1927. Togliatti, dall’alto della sua cieca ortodossia, addusse quale motivazione la colpa di non essere abbastanza marxista e di volere «tutto e subito». Secondo lui un vero comunista non avrebbe dovuto affidarsi all’«azione diretta» di marca soreliana, ma creare le condizioni per lo sviluppo ed il crollo del sistema capitalista. Curioso che Togliatti non si avvedesse del fatto che l’Urss, ove lui risiedeva ed il comunismo era al potere, fosse allepoca della Rivoluzione dOttobre uno Stato post-feudale.

Comunque, sempre nel 1927, si aprirono per Bombacci nuovi spiragli politici in Italia. In quell’anno, infatti, Mussolini riconobbe ufficialmente l’Urss, primo fra i leaders europei. Questa scelta, dettata soprattutto da interessi economici, fu accolta con entusiasmo dal fondatore del Partito Comunista d’Italia, che cercò, tra molte difficoltà, di portare il suo contributo ideale all’interno del dibattito culturale italiano.
Interessanti a questo proposito le sue posizioni riguardo al corporativismo ed alla Guerra d’Etiopia. Egli riconobbe alla politica economica fascista una maggiore efficacia rispetto ai provvedimenti attuati in Urss, apprezzando i primi risultati raggiunti dal regime.
Ancor più sorprendente la sua lettura del conflitto coloniale italiano, che Bombacci descrisse come il naturale proseguimento sul piano geopolitico del conflitto tra «popoli giovani» e plutocrazie capitaliste.
Una tesi che portava alla mente le teorizzazioni del capo dei nazionalisti italiani Enrico Corradini, riassumibili nell’equazione: «proletari contro capitalisti = lotta di classe; popoli poveri contro popoli ricchi = nazionalismo», datata 1910.

Nel 1936 l’impegno di “Nicolino” (come era soprannominato dal Duce) fu finalmente riconosciuto grazie all’uscita della rivista La Verità (traduzione della Pravda sovietica), da lui diretta e punto di incontro di molti esponenti del vecchio mondo socialista. È in questo stesso periodo che Palmiro Togliatti pubblica il famoso «appello ai fratelli in camicia nera», in cui cerca un terreno d’incontro tra comunisti e fascisti sul programma di S. Sepolcro del 1919. Nel frattempo una personalità del calibro del filosofo Ugo Spirito, che vedeva di buon occhio un avvicinamento tra le due rivoluzioni, aveva dato il suo contributo elaborando la teoria della «corporazione proprietaria», auspicando il passaggio della proprietà dei mezzi di produzione alla corporazione, per la definitiva distruzione delle logiche del sistema capitalista. E poi come non menzionare il tentativo di Ivanoe Bonomi, membro storico del parlamentarismo prefascista, di fondare l’«Associazione socialista nazionale», assieme agli ex deputati Bisogni, D’Aragona e Caldara, disposti a collaborare con il regime.
Una serie di fermenti quanto mai interessanti e degni di nota, anche se allo scoppio della Guerra di Spagna i rapporti tra Italia ed Urss tornarono più che mai tesi. Pochi anni dopo, nel momento del breve idillio Stalin-Hitler, fu proprio La Verità (che continuerà ad uscire pressoché ininterrottamente fino al 1943, nonostante l’avversione degli “intransigenti” Farinacci e Starace) ad esprimersi favorevolmente a questa convergenza, in un’Italia fascista comprensibilmente disorientata. «(…) Eppure giorno verrà, in cui il sovieto, permeandosi di spirito gerarchico e la corporazione di risoluta anima rivoluzionaria, si incontreranno sopra un terreno di redenzione sociale», scrisse Walter Mocchi nel numero del 13 ottobre 1940. Ma la guerra andò in una direzione totalmente differente, fino al disastro del 1943 e la rinascita del Fascismo con la R.S.I.

Bombacci, che non ebbe mai la tessera del PNF, si schierò da subito con la decisione che lo caratterizzava: «Duce, già scrissi in La Verità nel novembre scorso – avendo avuto una prima sensazione di ciò che massoneria, plutocrazia e monarchia stavano tramando contro di Voi – sono oggi più di ieri con Voi. Il lurido tradimento del re-Badoglio, che ha trascinato purtroppo nella rovina e nel disonore l’Italia, vi ha però liberato di tutti i componenti di una destra pluto-monarchica del 22 ...», affermò perentoriamente in una lettera a Mussolini.
L’analisi sopra contenuta non era sbagliata: liberati dalle «forze della reazione» (la “destra” interna opportunista e conservatrice), i fascisti stilarono i 18 punti di Verona e diedero inizio alla socializzazione, per lasciare ai posteri il loro messaggio di civiltà. Le realizzazioni furono comprensibilmente incomplete, per ovvi motivi di tempo e l’ostilità di taluni esponenti di governo e dei tedeschi.
Inutile dire che Bombacci si batté entusiasticamente a favore delle riforme, impegnandosi non solo nelle fabbriche ma anche nelle politiche della casa. A questo proposito si impegnò per la stesura e l’attuazione del rivoluzionario punto 15 del Manifesto di Verona: «Quello della casa non è soltanto un diritto di proprietà, è un diritto alla proprietà. Il partito iscrive nel suo programma la creazione di un ente nazionale per la casa del popolo il quale, assorbendo l’istituto esistente e ampliandone al massimo l’azione, provveda a fornire in proprietà la sua casa alle famiglie dei lavoratori di ogni categoria, mediante diretta costruzione di nuove abitazioni o graduale riscatto delle esistenti. In proposito è da affermare il principio generale che l’affitto, una volta rimborsato il capitale e pagatone il giusto frutto, costituisce titolo di acquisto. Come primo compito, l’ente risolverà i problemi derivanti dalle distruzioni di guerra con requisizione e distribuzione di locali inutilizzati e con costruzioni provvisorie».

Il “canto del cigno” di Bombacci avvenne nel marzo 1945, quando a Genova tenne un comizio a cui accorsero ben trentamila operai, nonostante la fine della Repubblica Sociale fosse ormai questione di giorni. Erano ancora in tantissimi a voler ascoltare le forti e rivoluzionarie parole di questo «combattente sociale», le cui scelte furono spesso controcorrente ma mai opportunistiche. Ad ulteriore riprova basti citare il fatto che morì accanto al Duce, gridando in faccia ai suoi assassini: «viva il socialismo!». E così proprio lui, quello del «me ne frego di Bombacci/ e del sol dell’avvenire» cantato dai giovani fascisti, scelse di dare tutto al fianco di Mussolini, nel nome del riscatto sociale di una Nazione intera.

Nel dopoguerra non pochi esponenti (tra quelli rimasti, viste le vendette ed i massacri dei partigiani) di quella “sinistra fascista” che aveva avuto mirabili esempi nei sindacati e nei GUF, confluirono nel PCI, opportunisticamente alla ricerca di quadri competenti per il partito. Il MSI invece nacque tenuto ostaggio dalla “destra”, come ha più volte riportato nei suoi scritti Francesco Mancinelli. Ed infatti, in assenza di colui che aveva saputo tenere fecondamente in equilibrio le diverse tendenze durante il Ventennio, i “continuatori” del Fascismo compirono troppo spesso scelte non in linea con il loro glorioso passato. Ma questa è un’altra storia…

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mercoledì 9 dicembre 2009

“Fascismo, Rivoluzione del Lavoro”: testimonianze di un sindacalista Fascista


Mario Gradi fu un giovane fascista della “prima ora, che compì tutta la sua traiettoria politica all’interno del sindacato. Dopo un breve periodo come dirigente nel GUF romano, entrò nel settore sindacale con la carica di Segretario dell’Unione provinciale dei lavoratori dell’Industria, prima a Perugia e poi Bologna. Dopo aver partecipato alla guerra d’Etiopia, fu trasferito a Roma con incarichi di ancora maggiore rilievo: prima consigliere della Confederazione dell’acqua, gas ed elettricità e dopo consigliere nazionale della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Infine Segretario dell’Unione provinciale dei lavoratori dell’Industria a Roma, fino alle dimissioni il giorno dell’insediamento del governo-Badoglio. Oltre a distinguersi per l’impegno quotidiano sul posto di lavoro, fu molto attivo culturalmente scrivendo su periodici e riviste e pubblicando il libro Fascismo, Rivoluzione del Lavoro (1938).

Un’attività, questa, che continuerà anche nel dopoguerra, senza mai rinnegare i suoi ideali.
Perché questa premessa? Perché interessarsi ad un personaggio come lui?
Molto semplicemente perché «sapere di più su questi dirigenti medi è sempre necessario se si vuol capire questa realtà (del Fascismo ndr) in modo articolato e in particolare la natura e la qualità del personale su cui il regime si fondava e le differenze fra esso ed il precedente periodo liberal-democratico», come disse acutamente Renzo De Felice, nella prefazione alle Memorie di Tullio Cianetti. Infatti, leggendo le testimonianze del Gradi (raccolte nel libro Formazione e vita di un sindacalista, 1987), non si può che rimanere stupiti ed arricchiti dalle sfumature che si possono cogliere su quel ventennio tanto lontano quanto ancora oggi discusso.
L’autore descrive con passione l’entusiasmo (ed anche le velleità e le ingenuità) dei giovani fascisti nel primo dopoguerra, impegnati nella strenua difesa dei reduci e delle rivendicazioni della vittoria contro il disordine rosso e l’incapacità del parlamento. Anni travagliati, conclusisi con la presa del potere di Mussolini, al termine della quale si comincia ad entrare nel vivo della trattazione: l’evolversi delle istanze sindacali all’interno del Fascismo, rievocate attraverso l’esperienza personale di Gradi.
Il protagonista delinea con chiarezza e lucidità tutte le difficoltà dei dirigenti sindacali davanti al fallimento del “corporativismo integrale” voluto da Rossoni. Nel 1928, infatti, Mussolini opta per la “frantumazione” della Confederazione nazionale dei sindacati Fascisti (che riuniva tutto il mondo fascista del lavoro) nelle sei Confederazioni dei lavoratori dell’attività produttiva (industria, agricoltura, commercio, trasporti, credito, gente del mare e dell’aria), con la conseguenza di una riduzione d’importanza dell’elemento sindacale in favore della centralità del Partito.
Il settore industriale accusa il colpo, non riuscendo a trovare negli anni immediatamente successivi una stabilità organizzativa ed un peso politico d’alto livello, come era riuscito, ad esempio, ai lavoratori agricoli magistralmente guidati da Luigi Razza.
Gradi, impegnato al fianco dei lavoratori fino alla fine del regime, sottolinea inoltre le difficoltà salariali ed il permanere di «sacche di arretratezza» (soprattutto al Sud) nel suo settore. Ma ciò che emerge più negativamente è la resistenza al cambiamento di ampi settori economico-finanziari italiani, impegnati a frenare le riforme e mettere in primo piano l’interesse personale. Occorrevano sforzi titanici da parte dei sindacalisti fascisti («in gran parte provenienti dallo squadrismo, quasi tutti dotati di una buona preparazione in campo economico e sociale, uno dei raggruppamenti maggiormente significativi e combattivi del regime, guardiani fedeli dei principi originari del fascismo») per attutire i colpi inferti dagli industriali più conservatori, rappresentanti di quella “destra interna” che non vedeva di buon occhio la perdita dei propri privilegi.

Proprio per questo la classe dirigente sindacale in diverse occasioni recuperò elementi già distintisi nelle organizzazioni socialiste. Ed è già un primo elemento inaspettato. Ma accanto a questo se ne nota un altro: il libero sfogo ai risentimenti ad alle richieste da parte dei lavoratori nelle assemblee di base. L’intento del regime era quello di renderli critici e coscienti delle problematiche nel loro ambito, e di conseguenza inseriti organicamente (non passivamente) nel nuovo “spirito partecipativo” e nelle nuove strutture, come il Dopolavoro.
Negli ultimi sette anni di carriera a Roma, a contatto con i vertici dell’organizzazione dei lavoratori dell’Industria, Gradi nota che la libertà e vivacità dei dibattiti è ancora più accentuata. Ciò traspariva raramente all’esterno, dove invece veniva sottolineata l’unanimità delle posizioni, ma è sufficiente scorrere i verbali della Confederazione per accorgersi della libertà di critica e del fecondo apporto dei rappresentanti dei lavoratori alla elaborazione di scelte e soluzioni in sede corporativa. Un tratto, forse il più difficile da accettare per la storiografia “ufficiale”, emerge prepotentemente: non si trattò di un sindacalismo di mera facciata.
Pur tra innegabili difficoltà e nello «scarso decollo del sistema corporativo», il profilo tracciato dal Gradi è quello di un mondo sindacale consapevole dell’importanza delle riforme sociali e della modernizzazione, convinto a continuare le lotte nel nome della «Terza Via» e dell’emancipazione dei lavoratori.

Per comprendere ancor meglio il profilo di questi “combattenti sociali” non si può non analizzare il succitato testo Fascismo, Rivoluzione del Lavoro, in cui Gradi traccia una rapida e sentita storia del movimento fascista. Non mancano passaggi retorici, ma traspaiono comunque alla perfezione obiettivi e sentimenti dei giovani che avrebbero costituito la futura classe dirigente del regime.

Gli operai di Dalmine, che nel 1919 occuparono una fabbrica innalzando il tricolore e non interrompendo la produzione, vengono presentati quali veri e propri pionieri dell’idea fascista. «Vi siete messi sul terreno della classe, ma non avete dimenticato la Nazione. Avete parlato di popolo italiano, non soltanto della vostra categoria. (…) Non siete voi i poveri, gli umili e i reietti, secondo la vecchia retorica del socialismo letterario, voi siete i produttori ed è in questa vostra qualità che rivendicate il diritto di trattare da pari con gli industriali. (…) È il lavoro che nelle trincee ha consacrato il suo diritto a non essere più fatica, disperazione perché deve diventare orgoglio, creazione, conquista degli uomini liberi nella patria libera e grande entro i confini» disse Mussolini in quella storica occasione. Ed i propositi appena descritti cominciarono gradualmente («La rivoluzione non è sommossa di schiavi, ma sopravvento di superiori capacità produttive. Fino a che i lavoratori non sapranno dimostrare di sapere produrre di più e meglio del sistema capitalista, essi non saranno degni di dirigere la società») a trovare attuazione. Gli accordi di Palazzo Vidoni, la Legge Sindacale del 3 aprile 1926 («immissione ed inserimento politico e giuridico del movimento operaio nella vita dello Stato, per una verace uguaglianza tra categorie sociali»), la Carta del Lavoro, la costruzione dello Stato Sociale e dell’edificio corporativo sono le tappe fondamentali.
«La soluzione fascista agile, dinamica, aderente alla realtà e alle esigenze particolari e generali della produzione, concilia libertà ed autorità, prevedendo la instaurazione di una disciplina nello svolgimento dei cicli economici produttivi, non imposta da una coazione esterna, ma dal di dentro; dalle stesse categorie produttrici, le quali, una volta determinata loro funzionalità nel sindacato, sul piano corporativo trovano il punto di incontro e fissano le direttive di marcia».

Il Fascismo si contrappone evidentemente alle tendenze individualistiche della scuola liberale, la quale considera la società nazionale una semplice somma di particolari, e dall’altra parte non accetta le concezioni del comunismo, le quali, prevedendo la concentrazione di tutte le iniziative, di tutti i beni, di tutti i compiti nello Stato, mirano «ad un assurdo annullamento della individualità umana, a favore dell’unica mostruosa individualità dello Stato-Moloch, onnisciente ed onnipresente».
Secondo l’autore, l’economia corporativa sorge proprio quando i due fenomeni hanno dato ciò che potevano dare, ereditando da essi ciò che avevano di vitale e superandoli: non siamo certo davanti alla conservazione, ma ad un «autentico movimento di popolo, che non ignora le necessità e le aspirazioni del lavoro, ma queste inquadra nel complesso della vita e delle necessità nazionali; queste coordina e potenzia nello sviluppo armonioso delle attività e possibilità della Nazione». All’«agnosticismo internazionalistico della grande finanza», all’«edonismo borghese» ed al «predominio dell’economia sulla politica» esso oppone lo spirito, l’etica e la Patria. Al «materialismo storico» e alla lotta di classe risponde con la collaborazione e la «democrazia organica». Quest’ultimo salta subito agli occhi quale concetto di notevole interesse e, a quanto pare, in quei tempi più diffuso di quanto si potrebbe pensare, come ha fatto notare Massimiliano Gerardi (dell’Istituto Studi corporativi) nella prefazione al medesimo libro. Per contro, non appare neanche una volta il termine «razza», e non a caso Gradi fu spesso in contrasto con il Presidente confederale Tullio Cianetti, d’orientamento filo-tedesco.

Il sindacalista chiude poi enfaticamente l’opera, sottolineando «il carattere autenticamente democratico, nel senso sano, del regime. Tutta l’organizzazione sociale è stata predisposta e sistemata in modo tale che il cittadino e produttore non abbia mai a sentirsi isolato, smarrito, alla mercé del più forte, in una lotta per la vita senza quartiere e senza giustizia: il Partito lo accoglie cameratescamente nei suoi ranghi; l’organizzazione sindacale lo tutela nei suoi diritti e nei suoi interessi. (…) La vera democrazia non è nella verbosa demagogia dei parlamenti, ma nella eloquenza sincera delle opere: nelle strade aperte ai commerci; nelle terre bonificate restituite al lavoro; negli acquedotti; nelle scuole ampie aperte a ricevere in una gioia di aria e di sole la nuova gioventù d’Italia; nei moderni sanatori, negli ospedali. (…)
A volte la tensione cui costringe quest’opera di ricostruzione è dura: ma essa appare sempre lieve se è certa la fede nella meta finale: un grande popolo, una Nazione potente».

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mercoledì 2 dicembre 2009

Bettino Craxi: un punto di vista

Le poche righe che seguono non vogliono essere la minuziosa ricostruzione storica delle vicende che videro protagonista Bettino Craxi, ma semplicemente offrire una visione “altra” dell’ex leader socialista, al di là delle grida indignate delle legioni travagliane, ma anche delle rivalutazioni di comodo effettuate sia dal centro-destra (con Berlusconi che ne condivide l’aspra avversione alla magistratura) che dal centro-sinistra (penosamente alla ricerca di identità).
Craxi si avvicinò alla politica grazie alla militanza antifascista del padre durante la Seconda Guerra Mondiale, entrando di lì a poco nel Partito Socialista e non uscendone più sino al 1994, a causa dei ben noti scandali di Tangentopoli.
Negli infuocati scontri universitari dei suoi anni giovanili cominciò a maturare quella che sarà una costante del suo bagaglio politico: la gelosia per l’autonomia, del suo Paese e del suo partito. I socialisti in Italia infatti, vivevano costantemente all’ombra del PCI, schiacciati dalla forza elettorale e culturale del partito egemone della sinistra italiana. L’inversione di tendenza cominciò proprio con l’elezione di Craxi a Segretario del Partito Socialista, datata 1976. Bettino nel frattempo aveva maturato una notevole abilità ed esperienza, guadagnandosi la prima elezione in parlamento e svolgendo diversi incarichi di rilievo in Italia e all’estero, oltre a divenire il “delfino” di Pietro Nenni.

Eppure l’opinione pubblica conosceva poco o niente di questo giovane catapultato agli onori delle cronache, tanto che fu definito «signor Nulla» in un articolo di Fortebraccio sull’Unità. I “colonnelli” del PSI, come Giacomo Mancini, pensavano di poterlo controllare e manovrare dall’alto, ma sbagliarono clamorosamente i calcoli. Craxi favorì sin da subito le nuove leve del partito, dando inizio a quel ricambio generazionale che è stato definito «la rivoluzione dei quarantenni», che portò nuova linfa ai socialisti. Ad animare il rinnovato protagonismo di questi ultimi fu il fermento culturale acceso dalla rivista «Mondoperaio» di Federico Coen e da Norberto Bobbio, impegnati ad emancipare la sinistra italiana dal marxismo-leninismo.
Craxi si inserì perfettamente in questo contesto, plasmando un PSI indipendente e dalle solide e rinnovate radici culturali. Esse furono descritte nel saggio datato agosto 1978 intitolato Il Vangelo Socialista, da molti considerato l’atto di definitiva rottura dei socialisti con il comunismo. Partendo da Proudhon ed arrivando a Bobbio, passando per Rosselli, Gilas e Russell, il leader socialista tracciò il profilo di una dottrina democratica, laica e pluralista, in contrapposizione con la lezione marxista ed i concetti di libertà collettiva e di egemonia gramsciana.

In quello stesso anno, durante i 55 giorni del sequestro-Moro, fu uno dei pochi politici a spingere per l’apertura di trattative con le Br, contro la «linea della fermezza» espressa dai maggiori partiti del paese: DC e PCI. Questa inaspettata dimostrazione di coraggio ed indipendenza portò il leader democristiano a rivolgersi direttamente a Craxi in alcune lettere dalla prigionia, chiedendogli di fare il possibile per mobilitare la classe dirigente italiana, che però rimase sorda. Una fermezza pericolosamente vicina all’essere un colpevole disimpegno, come ribadito da recenti inchieste giornalistiche (vedasi ad esempio quella ad opera di Sandro Provvisionato e Ferdinando Imposimato, culminata nel libro del 2008 Doveva morire).

Nel 1979 arrivò l’ennesimo “strappo” all’ortodossia ideologica della sinistra, con l’assenso all’installazione degli «euromissili» di matrice americana sul suolo italiano, in risposta allo schieramento degli SS20 da parte dell’URSS, che esponevano l’Europa a rinnovate e pericolose minacce. Una presa di posizione che fu subito bollata dai comunisti come la conferma dell’asservimento di Craxi agli USA e della “mutazione genetica” dei socialisti sotto il nuovo segretario. Ma queste facili letture verrano smentite dal tempo: il politico milanese dimostrerà che la scelta atlantica non impedisce al PSI di mantenere ampi margini di manovra su diversi fronti, che verranno rafforzati con la clamorosa elezione di Craxi a Presidente del Consiglio, datata 1983. Il caso più emblematico è ovviamente quello di Sigonella, il momento più alto di tensione tra Italia ed Usa di tutto il dopoguerra, in cui la concezione di sovranità nazionale imposta dal capo del governo risulta inaspettatamente vincente.

Inoltre fortissimo fu l’impegno per l’accelerazione del processo di integrazione europea, da costruirsi in opposizione al «vento di destra» di marca tatcheriana e liberista. Egli criticò sempre quelli che definiva «burosauri dell’europeismo, fautori di un’Europa tecnocratica, socialmente indifferente e moralmente assente», antitesi della sua visione del continente prima di tutto “politica”, marcatamente sociale ed espressione reale dei cittadini. Craxi vinse gli strenui tentativi d’ostruzione al processo di integrazione di Margaret Tatcher, riuscendo nel Consiglio Europeo di Milano del 1985 ad ottenere la convocazione di una conferenza intergovernativa dei primi ministri da cui discendono l’Atto Unico Europeo, la moneta unica e la lunga marcia verso la Costituzione.

Il suo terreno privilegiato d’impegno però fu quello mediterraneo, volto alla creazione di un vero e proprio asse commerciale e culturale con i paesi arabi. Incentivò collaborazioni ed interventi dell’IRI e dell’ENI nei paesi della zona, guadagnandosi ampio credito, come testimoniato dalla vicinanza delle autorità tunisine nei suoi ultimi anni di vita. Anche Arafat fu un suo grande amico, vista l’opera craxiana di opposizione alla «visione di un grande Israele, installato anche su territori che sono abitati ed appartengono a popolazioni arabe e palestinesi», come disse nel 1982, proprio dopo un incontro con il leader palestinese.
Ma l’apice venne raggiunto nel dibattito parlamentare seguente al succitato caso-Sigonella, dove giunse ad affermare: «Io contesto all’OLP l’uso della lotta armata non perché ritenga che non ne abbia diritto, ma perché sono convinto che la lotta armata non porterà a nessuna soluzione. Non ne contesto la legittimità, che è cosa diversa» [guarda il video], portando ad esempio le lotte risorgimentali italiane, necessariamente violente nell’ottica dell’indipendenza nazionale. Craxi fu un profondo conoscitore e cultore del nostro periodo risorgimentale, divenendo nel tempo uno dei massimi collezionisti di cimeli garibaldini. Oltre a Mazzini, infatti, egli ammirava l’«eroe dei due mondi», non a caso fautore di un socialismo gradualista e riformista, in netta opposizione con Marx. Le relazioni congressuali del leader socialista verranno spesso arrichite con appassionati richiami a quelle lotte e quegli ideali, patrimonio da riscoprire in una società come la nostra, preda di «malattie moderne» e sempre più sommersa da «dubbi, disagi e terapie neuro-psichiatriche».

I congressi del PSI divennero nel tempo sempre più fastosi, grazie alle coreografie dell’architetto Filippo Panseca, visto che Craxi dimostrò ben presto di voler dare un’idea fortemente modernizzatrice di sé e del suo partito, sfruttando in pieno l’immagine ed i mass-media. L’attenzione si concentrò ben presto quasi esclusivamente su di lui, che aveva spazzato via poco democraticamente le correnti interne al PSI, e si era proposto al paese quale leader nuovo e credibile. La sua strategia fu premiata con la nomina a capo del governo, ma le critiche si erano succedute ininterrotte: Biagio De Giovanni parlò di tendenza ad «americanizzare la vita italiana», mentre Bobbio gli contestò aspramente il meccanismo di elezione per acclamazione e la scarsa dialettica interna al partito. Anche Enzo Biagi ed Indro Montanelli non furono teneri. Craxi ovviamente ribatté alle accuse parlando di un partito che aveva trovato l’unità, facendone l’arma per agire più efficacemente.
Nei quattro anni come Primo Ministro (1983-1987), difatti, non mancarono gli eventi significativi: il primo da segnalare è il raggiungimento del quinto posto tra i paesi industrializzati dellItalia, superando la Gran Bretagna, nel gennaio 1987. «Il maggior successo della storia repubblicana» secondo Giano Accame, intellettuale di destra autore del libro Socialismo Tricolore.

Una definizione calzante per la politica craxiana, che mentre promuoveva il progressismo, portava a termine il nuovo concordato Stato-Chiesa, valorizzava come non mai il Made in Italy, ammetteva Almirante per la prima volta alle consultazioni precedenti la formazione di un governo, combatteva le droghe leggere, rifiutava la tesi dello stragismo fascista, riscopriva il garofano quale simbolo e concludeva i congressi al grido di: «Viva l’Italia!».
Inoltre, secondo l’acuta lettura dello storico Marco Gervasoni, il governo-Craxi «evitò ogni privatizzazione» e «cercò sempre il coinvolgimento dei sindacati nella politica della concertazione. Il risanamento passò anche dall’intervento sulla scala mobile. (…) Le politiche economiche dei governi di quegli anni recavano il segno di una sensibilità sociale. Certo si può obiettare che la riduzione dell’inflazione fu facilitata dal mini-boom e si potrebbe dire che tale sensibilità era più il frutto dell’uso politico della spesa pubblica a fini di consenso. Ciò non toglie che gli interventi di allora furono incisivi e costituirono un precedente per gli esperimenti di aggiornamento delle policies socialiste in un periodo di sfide tutto nuovo».

Ma ovviamente ci furono anche aspetti negativi, in primis la crescita esponenziale del debito pubblico, venti punti percentuali secondo gli accurati dati dello Studio Ambrosetti.
Ma ciò che più gli costò fu la mancata attuazione del suo cavallo di battaglia: La «Grande Riforma» istituzionale in senso presidenziale, tesa a velocizzare e migliorare i pachidermici ritmi politici italiani («Non è il paese in ritardo con la Costituzione antifascista, ma la Costituzione fatta all’indomani del trauma della dittatura ad aver disegnato un’attività istituzionale in ritardo sulle esigenze di legiferare e governare», chiarì il giornalista e politico del PSI Ugo Finetti).
Così proprio lui, il più grande fautore del cambiamento, rimase schiacciato dal tacito e convergente interesse alla staticità politica di concorrenti dotati di numeri più pesanti.

Terminata la fruttuosa esperienza di governo a guida socialista, i partiti storici del paese iniziarono un periodo di declino, accompagnato dall’emergere di nuovi fenomeni come quello della Lega Nord (da Craxi aspramente criticata quale movimento «qualunquista e razzista»).

Nel 1989 il crollo del Muro di Berlino e del sistema sovietico diede definitivamente ragione alle battaglie anticomuniste di Craxi, che sin dagli anni giovanili era stato accanto al mondo dei dissidenti di quei paesi. Le sue opere in questo senso furono innumerevoli: dalla candidatura al Parlamento Europeo dell’esule cecoslovacco Jiri Pelikan, alla promozione della «Biennale del dissenso» del ’77 (alla quale fu l’UNICO capo di partito italiano a partecipare), fino alla vicinanza culturale e finanziaria ai movimenti d’opposizione al sistema. Per capire la dimensione della sua opera, basti ricordare le parole di Lech Wałęsa (foto), leader di Solidarność: «Non saprei dire oggi come sarebbero andate le cose se non ci fossero stati leader della portata di Craxi».
È soprattutto per queste azioni che il PCI vide Craxi come fumo negli occhi, poiché il partito di Botteghe Oscure veniva da lui costantemente messo davanti alle proprie contraddizioni. Le legnate del leader socialista non risparmiarono nessuno: dal “padre nobile” Togliatti fino a Berlinguer, con cui si aprì uno scontro all’insegna della diversità politica, d’immagine e di carattere. Tanto austero il sardo quanto spregiudicato e giovanile il milanese, e basti qui citare il cosiddetto periodo della «Milano da bere».

E siamo arrivati ora a Tangentopoli. Craxi fu sicuramente uno dei maggiori responsabili dell’acuirsi della pratica tangentizia, anche per via della sua sfrenata ricerca di spazi politici (la stessa che lo portò a favorire smaccatamente l’imprenditore amico Silvio Berlusconi). Ma l’esito di quel periodo di inchieste non può che lasciare interdetti. Intere parti politiche furono praticamente risparmiate, ed il PCI, parimenti colpevole e per di più finanziato dall’URSS, ne uscì lindo e pulito.
Nel suo libro Il Caso C., Craxi denunciò tutte le anomalie ed abusi di stampa e magistratura (“contro” la quale aveva già promosso il refendum per la responsabilità civile dei giudici, che ebbe esito favorevole ma rimase lettera morta), che lo portarono a sospettare un «complotto» ai suoi danni. Ma l’atto più clamoroso del leader socialista fu sicuramente il discorso pronunciato alla Camera il 3 Luglio 1992, in cui accusò tutti i politici presenti di essere al corrente del finanziamento illegale ai partiti, sfidando chi dissentisse dalle sue parole ad alzarsi. NESSUNO lo fece. [guarda il video]

Nonostante questo Craxi passò come capro espiatorio, mentre altri esponenti della prima repubblica torneranno sulla scena di lì a poco.
Il fatto poi che il polverone si alzò dopo le elezioni del ’92, che, seppur in un clima di sfiducia popolare, avevano visto Craxi affermarsi come unico candidato possibile alla Presidenza del Consiglio, ha portato Finetti a sostenere che «il ritorno di Craxi a Palazzo Chigi è visto con avversione, si configura come la riaffermazione di una centralità del potere politico e di riflesso dello Stato. Alla sua pretesa di “dialettizzare” i vertici imprenditoriali sostenendo l’emergere di nuovi soggetti si aggiunge la riluttanza che sempre più manifesta alla cessione di porzioni strategiche che sono in mano pubblica. In un paese come l’Italia ogni smottamento è frutto di una pluralità di concause. Per i più – magistrati, uomini d’affari, operatori culturali – l’anticraxismo è stato molto semplicemente un’opportunità professionale. Nel rifiuto di assurde dietrologie non bisogna negare l’evidenza e cioè il fatto che Craxi è stato colpito per via extraparlamentare, da forze extraparlamentari e che all’epoca in Italia la più consistente opposizione a Craxi non era nel mondo politico, ma in quello economico-finanziario».

Una tesi che fa il paio con le ricostruzioni di Sergio Romano e Francesco Cossiga, che videro lo zampino della finanza inglese (nazione per di più da sempre ostile ad azioni indipendenti italiane sul Mediterraneo) nello scompaginamento del panoramana politico italiano, per poter approfittare della svendita del patrimonio pubblico. L’incontro del panfilo Britannia tra banchieri della City ed esponenti del mondo economico italiano è stato descritto in lungo e in largo, e la concezione di politique d’abord di Craxi era ciò che di più scomodo potesse esserci a questo disegno. Complottismo? Quello che è certo è che mai come nel periodo seguente a Tangentopoli si è assisto a privatizzazioni continue (proprietà del Ministero del Tesoro, come: Telecom, Seat, Ina, Imi, Eni, Enel, Mediocredito Centrale, Bnl; dell’Iri come Finmeccanica, Aeroporti di Roma, Cofiri, Autostrade, Comit, Credit, Ilva, Stet; dell’Eni: come Enichem, Saipem, Nuovo Pignone; dell’Efim e di altri enti a controllo pubblico, come: Istituto Bancario S. Paolo di Torino e Banca Monte dei Paschi di Siena; di enti pubblici locali, come Acea: Aem, Amga. Solo per dare l’idea...). Mentre la corruzione e l’incapacità della classe politica non sembrano minimamente estirpate. Anzi…

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