mercoledì 9 dicembre 2009

“Fascismo, Rivoluzione del Lavoro”: testimonianze di un sindacalista Fascista


Mario Gradi fu un giovane fascista della “prima ora, che compì tutta la sua traiettoria politica all’interno del sindacato. Dopo un breve periodo come dirigente nel GUF romano, entrò nel settore sindacale con la carica di Segretario dell’Unione provinciale dei lavoratori dell’Industria, prima a Perugia e poi Bologna. Dopo aver partecipato alla guerra d’Etiopia, fu trasferito a Roma con incarichi di ancora maggiore rilievo: prima consigliere della Confederazione dell’acqua, gas ed elettricità e dopo consigliere nazionale della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Infine Segretario dell’Unione provinciale dei lavoratori dell’Industria a Roma, fino alle dimissioni il giorno dell’insediamento del governo-Badoglio. Oltre a distinguersi per l’impegno quotidiano sul posto di lavoro, fu molto attivo culturalmente scrivendo su periodici e riviste e pubblicando il libro Fascismo, Rivoluzione del Lavoro (1938).

Un’attività, questa, che continuerà anche nel dopoguerra, senza mai rinnegare i suoi ideali.
Perché questa premessa? Perché interessarsi ad un personaggio come lui?
Molto semplicemente perché «sapere di più su questi dirigenti medi è sempre necessario se si vuol capire questa realtà (del Fascismo ndr) in modo articolato e in particolare la natura e la qualità del personale su cui il regime si fondava e le differenze fra esso ed il precedente periodo liberal-democratico», come disse acutamente Renzo De Felice, nella prefazione alle Memorie di Tullio Cianetti. Infatti, leggendo le testimonianze del Gradi (raccolte nel libro Formazione e vita di un sindacalista, 1987), non si può che rimanere stupiti ed arricchiti dalle sfumature che si possono cogliere su quel ventennio tanto lontano quanto ancora oggi discusso.
L’autore descrive con passione l’entusiasmo (ed anche le velleità e le ingenuità) dei giovani fascisti nel primo dopoguerra, impegnati nella strenua difesa dei reduci e delle rivendicazioni della vittoria contro il disordine rosso e l’incapacità del parlamento. Anni travagliati, conclusisi con la presa del potere di Mussolini, al termine della quale si comincia ad entrare nel vivo della trattazione: l’evolversi delle istanze sindacali all’interno del Fascismo, rievocate attraverso l’esperienza personale di Gradi.
Il protagonista delinea con chiarezza e lucidità tutte le difficoltà dei dirigenti sindacali davanti al fallimento del “corporativismo integrale” voluto da Rossoni. Nel 1928, infatti, Mussolini opta per la “frantumazione” della Confederazione nazionale dei sindacati Fascisti (che riuniva tutto il mondo fascista del lavoro) nelle sei Confederazioni dei lavoratori dell’attività produttiva (industria, agricoltura, commercio, trasporti, credito, gente del mare e dell’aria), con la conseguenza di una riduzione d’importanza dell’elemento sindacale in favore della centralità del Partito.
Il settore industriale accusa il colpo, non riuscendo a trovare negli anni immediatamente successivi una stabilità organizzativa ed un peso politico d’alto livello, come era riuscito, ad esempio, ai lavoratori agricoli magistralmente guidati da Luigi Razza.
Gradi, impegnato al fianco dei lavoratori fino alla fine del regime, sottolinea inoltre le difficoltà salariali ed il permanere di «sacche di arretratezza» (soprattutto al Sud) nel suo settore. Ma ciò che emerge più negativamente è la resistenza al cambiamento di ampi settori economico-finanziari italiani, impegnati a frenare le riforme e mettere in primo piano l’interesse personale. Occorrevano sforzi titanici da parte dei sindacalisti fascisti («in gran parte provenienti dallo squadrismo, quasi tutti dotati di una buona preparazione in campo economico e sociale, uno dei raggruppamenti maggiormente significativi e combattivi del regime, guardiani fedeli dei principi originari del fascismo») per attutire i colpi inferti dagli industriali più conservatori, rappresentanti di quella “destra interna” che non vedeva di buon occhio la perdita dei propri privilegi.

Proprio per questo la classe dirigente sindacale in diverse occasioni recuperò elementi già distintisi nelle organizzazioni socialiste. Ed è già un primo elemento inaspettato. Ma accanto a questo se ne nota un altro: il libero sfogo ai risentimenti ad alle richieste da parte dei lavoratori nelle assemblee di base. L’intento del regime era quello di renderli critici e coscienti delle problematiche nel loro ambito, e di conseguenza inseriti organicamente (non passivamente) nel nuovo “spirito partecipativo” e nelle nuove strutture, come il Dopolavoro.
Negli ultimi sette anni di carriera a Roma, a contatto con i vertici dell’organizzazione dei lavoratori dell’Industria, Gradi nota che la libertà e vivacità dei dibattiti è ancora più accentuata. Ciò traspariva raramente all’esterno, dove invece veniva sottolineata l’unanimità delle posizioni, ma è sufficiente scorrere i verbali della Confederazione per accorgersi della libertà di critica e del fecondo apporto dei rappresentanti dei lavoratori alla elaborazione di scelte e soluzioni in sede corporativa. Un tratto, forse il più difficile da accettare per la storiografia “ufficiale”, emerge prepotentemente: non si trattò di un sindacalismo di mera facciata.
Pur tra innegabili difficoltà e nello «scarso decollo del sistema corporativo», il profilo tracciato dal Gradi è quello di un mondo sindacale consapevole dell’importanza delle riforme sociali e della modernizzazione, convinto a continuare le lotte nel nome della «Terza Via» e dell’emancipazione dei lavoratori.

Per comprendere ancor meglio il profilo di questi “combattenti sociali” non si può non analizzare il succitato testo Fascismo, Rivoluzione del Lavoro, in cui Gradi traccia una rapida e sentita storia del movimento fascista. Non mancano passaggi retorici, ma traspaiono comunque alla perfezione obiettivi e sentimenti dei giovani che avrebbero costituito la futura classe dirigente del regime.

Gli operai di Dalmine, che nel 1919 occuparono una fabbrica innalzando il tricolore e non interrompendo la produzione, vengono presentati quali veri e propri pionieri dell’idea fascista. «Vi siete messi sul terreno della classe, ma non avete dimenticato la Nazione. Avete parlato di popolo italiano, non soltanto della vostra categoria. (…) Non siete voi i poveri, gli umili e i reietti, secondo la vecchia retorica del socialismo letterario, voi siete i produttori ed è in questa vostra qualità che rivendicate il diritto di trattare da pari con gli industriali. (…) È il lavoro che nelle trincee ha consacrato il suo diritto a non essere più fatica, disperazione perché deve diventare orgoglio, creazione, conquista degli uomini liberi nella patria libera e grande entro i confini» disse Mussolini in quella storica occasione. Ed i propositi appena descritti cominciarono gradualmente («La rivoluzione non è sommossa di schiavi, ma sopravvento di superiori capacità produttive. Fino a che i lavoratori non sapranno dimostrare di sapere produrre di più e meglio del sistema capitalista, essi non saranno degni di dirigere la società») a trovare attuazione. Gli accordi di Palazzo Vidoni, la Legge Sindacale del 3 aprile 1926 («immissione ed inserimento politico e giuridico del movimento operaio nella vita dello Stato, per una verace uguaglianza tra categorie sociali»), la Carta del Lavoro, la costruzione dello Stato Sociale e dell’edificio corporativo sono le tappe fondamentali.
«La soluzione fascista agile, dinamica, aderente alla realtà e alle esigenze particolari e generali della produzione, concilia libertà ed autorità, prevedendo la instaurazione di una disciplina nello svolgimento dei cicli economici produttivi, non imposta da una coazione esterna, ma dal di dentro; dalle stesse categorie produttrici, le quali, una volta determinata loro funzionalità nel sindacato, sul piano corporativo trovano il punto di incontro e fissano le direttive di marcia».

Il Fascismo si contrappone evidentemente alle tendenze individualistiche della scuola liberale, la quale considera la società nazionale una semplice somma di particolari, e dall’altra parte non accetta le concezioni del comunismo, le quali, prevedendo la concentrazione di tutte le iniziative, di tutti i beni, di tutti i compiti nello Stato, mirano «ad un assurdo annullamento della individualità umana, a favore dell’unica mostruosa individualità dello Stato-Moloch, onnisciente ed onnipresente».
Secondo l’autore, l’economia corporativa sorge proprio quando i due fenomeni hanno dato ciò che potevano dare, ereditando da essi ciò che avevano di vitale e superandoli: non siamo certo davanti alla conservazione, ma ad un «autentico movimento di popolo, che non ignora le necessità e le aspirazioni del lavoro, ma queste inquadra nel complesso della vita e delle necessità nazionali; queste coordina e potenzia nello sviluppo armonioso delle attività e possibilità della Nazione». All’«agnosticismo internazionalistico della grande finanza», all’«edonismo borghese» ed al «predominio dell’economia sulla politica» esso oppone lo spirito, l’etica e la Patria. Al «materialismo storico» e alla lotta di classe risponde con la collaborazione e la «democrazia organica». Quest’ultimo salta subito agli occhi quale concetto di notevole interesse e, a quanto pare, in quei tempi più diffuso di quanto si potrebbe pensare, come ha fatto notare Massimiliano Gerardi (dell’Istituto Studi corporativi) nella prefazione al medesimo libro. Per contro, non appare neanche una volta il termine «razza», e non a caso Gradi fu spesso in contrasto con il Presidente confederale Tullio Cianetti, d’orientamento filo-tedesco.

Il sindacalista chiude poi enfaticamente l’opera, sottolineando «il carattere autenticamente democratico, nel senso sano, del regime. Tutta l’organizzazione sociale è stata predisposta e sistemata in modo tale che il cittadino e produttore non abbia mai a sentirsi isolato, smarrito, alla mercé del più forte, in una lotta per la vita senza quartiere e senza giustizia: il Partito lo accoglie cameratescamente nei suoi ranghi; l’organizzazione sindacale lo tutela nei suoi diritti e nei suoi interessi. (…) La vera democrazia non è nella verbosa demagogia dei parlamenti, ma nella eloquenza sincera delle opere: nelle strade aperte ai commerci; nelle terre bonificate restituite al lavoro; negli acquedotti; nelle scuole ampie aperte a ricevere in una gioia di aria e di sole la nuova gioventù d’Italia; nei moderni sanatori, negli ospedali. (…)
A volte la tensione cui costringe quest’opera di ricostruzione è dura: ma essa appare sempre lieve se è certa la fede nella meta finale: un grande popolo, una Nazione potente».

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