venerdì 28 ottobre 2011

Italia come volontà di potenza

L’articolo sarà pubblicato in «Occidentale», novembre 2011. 


Ce n’era bisogno. Ce n’era bisogno davvero di questo libro e va detto forte e chiaro. C’era proprio bisogno di questa utilissima raccolta di saggi, diretta dall’ottimo Pietro Cappellari, a cui hanno partecipato, tra gli altri, lo stesso Cappellari, Gabriele Adinolfi, Stelvio Dal Piaz, Francesco Mancinelli, Alberto B. Mariantoni e Massimiliano Soldani, e che è stata recentemente presentata al nr. 8 di Via Napoleone III. Una Patria, una Nazione, un Popolo (Herald Editore, € 20), infatti, è un’opera fondamentale per un motivo molto semplice: fa a pezzi sessant’anni di certo neofascismo che negò e vilipese la memoria e il portato ideale del nostro moto risorgimentale, vuoi per ispirazioni neoguelfe che vedono nel Risorgimento un piano occulto della Massoneria per annientare, assieme al potere temporale dei Papi, lo stesso cattolicesimo, vuoi per certo revanscismo borbonico e legittimista, che identifica l’Unità d’Italia con le depredazioni e le repressioni del Piemonte savoiardo ai danni del Meridione, vuoi infine per certo tradizionalismo di matrice evoliana che nega la nazione (in quanto creazione giacobina e sovversiva) in favore dell’Imperium.

Come si può vedere, pertanto, la questione dell’eredità del Risorgimento per i neofascisti è molto complessa e sfaccettata. Eppure – e questo va evidenziato con la massima decisione – tale questione, per i fascisti, non si era semplicemente mai posta. Si poteva al limite discutere su quale fosse la vera anima del Risorgimento (monarchica, repubblicana, liberale, federalista, socialista, ecc.), ma il nostro moto di liberazione nazionale rimase per il Fascismo un punto fermo nella storia d’Italia, di cui la Rivoluzione delle Camicie nere si presentava anzi come il glorioso compimento. Di questo tema, del resto, mi sono già occupato sulle colonne di «Occidentale» (maggio 2010) con l’articolo Risorgimento e Fascismo: il filo rosso della Liberazione nazionale (vedi anche qui), e quindi a questo rimando. Ora, infatti, vorrei porre l’accento su altre questioni ben analizzate nel libro curato da Cappellari.

L’intento di quest’opera, infatti, è chiaro sin dal suo sottotitolo. Innanzitutto, viene messa in discussione la stessa data del 17 marzo 1861, che altro non rappresenta se non la costituzione formale del Regno d’Italia, laddove, per poter parlare legittimamente di unità, ci si potrebbe viceversa riferire all’acquisizione del Veneto (1866), alla presa di Roma (1870), alla conquista di Trento e Trieste (1914) o anche all’annessione di Fiume (1924). Ma il problema, sollevato giustamente dal libro, non è o – meglio – non è solo territoriale: è anche e soprattutto ideale, morale, politico. Per questo motivo si fa risalire il terminus post quem del Risorgimento direttamente al 1831, all’anno cioè della creazione della Giovine Italia mazziniana e dei primi moti di rivolta nazionale. Perché, ci si potrà chiedere? Semplice: perché è allora che minoranze agguerrite e rivoluzionarie prendono coscienza della loro missione, ossia di rendere l’Italia, tramite l’insurrezione e il combattimento, finalmente libera, indipendente e sovrana.

Si tratta, in sostanza, di rintracciare quel filo rosso rivoluzionario che, al di là della diplomazia, del gretto parlamentarismo dell’Italia demo-liberale e del giolittismo, si dipana lungo la storia del nostro movimento di liberazione nazionale, impersonato in particolare da quelle avanguardie rivoluzionarie che da Mazzini, Garibaldi e Pisacane giungono sino al «crepuscolo degli dèi» della Repubblica Sociale Italiana. Si tratta cioè di individuare quei gruppi, quegli uomini, quei «profeti» (come li chiamò Giovanni Gentile) che, di contro alla mediocrità dell’italietta postrisorgimentale e alla «politica del piede di casa», mirarono a realizzare le genuine aspirazioni di grandezza dell’Italia, ossia a realizzare il mito mazziniano-giobertiano-orianesco della «Terza Roma», cioè della missione universale e del primato civile della nostra nazione nel mondo.

Entriamo così in contatto con fulgide personalità come Mameli, il giovanissimo poeta caduto eroicamente nella difesa disperata della Repubblica romana (1849), come Mazzini, latore di uno spiritualismo antindividualistico e di un cooperativismo solidaristico-nazionale, come Garibaldi, il «Duce» delle camicie rosse che si fece dittatore e che portò la sua guerra di liberazione ai quattro angoli della penisola, come Crispi, che, garibaldino, rilanciò la politica mediterranea dell’Italia, e come lo stesso Mussolini, che coronò i sogni imperiali degli italiani ridestati.

Come si può vedere dunque, a denunciare le politiche rapaci e sanguinarie del Piemonte sabaudo (che, depredando il Sud, creò la ancora irrisolta «questione meridionale») e ad avversare la borghesia rinunciataria e compromissoria (che si era accontentata dei privilegi ottenuti grazie all’Unità), si ergeva tutto un vasto e variegato movimento avanguardistico e rivoluzionario che, rifiutando l’arresto del processo risorgimentale, intendeva proseguire sul cammino tracciato dai suoi «profeti» per fare dell’Italia il faro di una nuova civiltà.

Questo grande disegno, tuttavia, si arrestò proprio alla «Quinta Guerra d’Indipendenza», ossia quel secondo conflitto mondiale che doveva rappresentare l’emancipazione dell’Italia dal giogo francese e, soprattutto, britannico nel Mediterraneo, il mare nostrum, viatico naturale e necessario alla realizzazione delle nostre ambizioni di potenza. È così che lo spirito del Risorgimento finì per animare i combattenti della Repubblica Sociale che, non a caso, enfatizzarono sempre più i loro richiami ai «profeti» della «Terza Italia», riallacciandosi in particolare alla gloriosa Repubblica romana e alla strenua resistenza degli eroi del Gianicolo. Ed è proprio in questa frattura tragica che risiede il dramma di incompiutezza di quel sottile filo rosso della nostra liberazione nazionale: dalle cannonate francesi contro Garibaldi e Manara ai bombardamenti anglo-americani sui militi e sulle popolazioni dell’ultima Italia libera e sovrana.

Perché – non dimentichiamolo! – furono proprio i combattenti di Salò a incarnare lo spirito risorgimentale, e non – come ben argomentano Dal Piaz e Adinolfi – quei partigiani che, viceversa, si resero protagonisti di una vera e propria «guerra di dipendenza» (da Mosca e da Washington). Le bande antifasciste infatti, sostenute da un forte apparato propagandistico, e per tenere il confronto con i fascisti anche su un piano ideologico, intesero presentare la Resistenza come un «Secondo Risorgimento». Fa ridere, lo so, ma è proprio così. Fatto sta che l’infatuazione nazionalistica durò assai poco, dato che ben presto la Dc guardò al Vaticano, il Pci all’Unione Sovietica e Pli e Pri a Londra, cioè a organismi e istituzioni di evidente matrice internazionalistica. Ma già solo la sottomissione politica dell’attuale repubblica parlamentare (nata dalla Resistenza) dovrebbe bastare a mettere in guardia da questo spregevole mascheramento puramente strumentale.

Constatando quindi l’odierno semi-servaggio italiota, non possiamo che rilevare il carattere incompiuto del nostro lungo processo risorgimentale, il cui spirito sembra momentaneamente sopito, o comunque vivente solo in poche minoranze, per quanto avanguardistiche e rivoluzionarie. E proprio in tal senso, questo libro rappresenta un preziosissimo strumento di riappropriazione ideale che, facendo giustizia delle troppe distorsioni interpretative e ideologiche del nostro moto di liberazione nazionale, ci richiama invece a incamminarci nuovamente su quel sentiero interrotto che conduce alla rivendicazione della missione e del primato dell’Italia nel mondo. Un libro quindi che, pur trattando del passato, ci sprona però verso il futuro. Un futuro da prendere d’assalto. Nel nome dei nostri «profeti» e dei nostri eroi.


Per approfondimenti:
Risorgimento e Fascismo: il filo rosso della Liberazione nazionale
Risorgimento e Fascismo

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giovedì 6 ottobre 2011

«Caro Yvon, ...»: parla il Duce

L’articolo sarà pubblicato in «Occidentale», ottobre 2011.


«Pochissimi “documenti” mussoliniani – e nessuno di tanta ampiezza e ricchezza di particolari – hanno, per noi, l’importanza di questi Taccuini per cercare di penetrare la personalità di Mussolini»: parola di Renzo De Felice. Già partendo da qui possiamo afferrare, pertanto, l’importanza che riveste la recente impresa editoriale della casa editrice felsinea de Il Mulino (pp. 736, € 19), che ha voluto ristampare, pochi mesi or sono, la prima e unica edizione (1990) dei Taccuini mussoliniani di Yvon De Begnac (biografo ufficiale del Duce). Sono stati ovviamente mantenuti, inoltre, la prefazione dello stesso De Felice e il ponderoso saggio introduttivo di Francesco Perfetti, che dello storico reatino è uno dei migliori allievi.

Questi Taccuini, in sostanza, rappresentano gli appunti che il giovane giornalista redasse durante i ripetuti incontri con Mussolini a Palazzo Venezia, i quali erano finalizzati alla pubblicazione della vasta biografia ufficiale che il Duce commissionò allo stesso De Begnac (ne uscirono i primi tre volumi, prima che la guerra interrompesse il progetto). Si tratta, in particolare, di lunghi monologhi ai quali il Capo del Fascismo volentieri si abbandonava, rievocando momenti cruciali della storia del movimento delle Camicie nere, tratteggiando ritratti delle massime personalità con cui veniva a contatto (sia fasciste che antifasciste), ma anche analizzando i caratteri principali della «cultura della Rivoluzione», senza tralasciare, infine, i suoi desiderata per l’avvenire.

Quel che emerge dalla lettura dei Taccuini, e che maggiormente colpisce l’attenzione del lettore a tanti anni di distanza dai temi affrontati dal Duce, è la profondità e la lucidità del Mussolini-politico: se risultano certamente importanti – per avallare le considerazioni di De Felice – gli aspetti psicologici e caratteriali della personalità mussoliniana, è a mio parere fondamentale, infatti, rilevare altresì il valore più propriamente politico, culturale, teorico, filosofico addirittura, del pensiero di Mussolini ivi contenuto. Un pensiero la cui vastità e la cui esattezza essenziale sono illustrate in tutta la loro chiarezza dalle corpose sezioni «culturali» della raccolta (capp. VIII e IX).

Entriamo così in contatto con i capisaldi dello spirito rivoluzionario del Fascismo, spirito promanante dalle parole del suo massimo esponente, che, nella colloquialità dell’occasione, quasi pare che si rivolga direttamente a noi, rendendo così la lettura più intima e avvolgente. E veniamo innanzitutto a conoscenza delle ampie ed eclettiche letture del Duce, che spaziano dai teorici marxisti ai Bernstein e ai Sorel, da Stirner a Michelstaedter, dai «vociani» a Nietzsche (quest’ultimo certamente il suo prediletto). E proprio dal filosofo tedesco Mussolini desume l’animus primigenio della cultura fascista, ossia il volontarismo («volontarismo, solo volontarismo nella nostra cultura? In gran parte, sì!»: p. 379), che nella nitida visione del Duce assume contorni «tragici», perché votato a creare e diffondere grandezza: esso, infatti, consiste «nella decisione – individuale, e collettiva – di rendere utile alla società ogni intervento, materiale e morale, autonomamente diretto a risvegliarne il sopito senso della vita e ad annullarne ogni tendenza indotta, volta a provocarne l’indebolimento e la fine. “Volontarismo” non significa compiere la quotidiana buona azione del boy-scout, ma è coscienza del divenire di una nuova civiltà, e determinazione a favorirne, al di fuori di ogni sollecitazione, la crescita. “Volontarismo” è sapere quel che si deve fare per impedire che la rivoluzione decada dall’esercizio del diritto a compiersi nel nome e per conto della collettività» (pp. 335-336).

Già grazie a questa bellissima citazione – nonché alla genialità di sintesi del suo autore – si staglia decisamente la grandezza dell’ideale fascista sostenuto dal suo Capo: l’ideale, cioè, di un «umanesimo antiutilitaristico, antindividualistico, svincolato da egoismi di classe e di casta» (p. 283), «umanesimo della scienza, della tecnica, del lavoro» (p. 304), «fondato sui diritti della giovinezza della vita» (p. 311). Quello che, insomma, un altro gigante come Giovanni Gentile chiamò, nel suo imprescindibile volume Genesi e struttura della società, «umanesimo del lavoro».

Un ulteriore dato che emerge da queste pagine illuminanti, poi, è la conoscenza certosina, da parte del Duce, di tutta la classe intellettuale dell’epoca, della quale sapeva tanto l’affidabilità e la fedeltà quanto l’opportunismo e la meschinità; così come colpisce l’aggiornamento costante sugli sviluppi della cultura italiana, tanto nelle sue forme artistiche quanto in quelle letterarie, non mancando, tra l’altro, di monitorare le promesse della stampa universitaria e giovanile fascista, tra cui spiccano i nomi di Berto Ricci, Edgardo Sulis, Roberto Pavese e Guido Pallotta: «questi giovani sono la giovane cultura italiana che, un giorno, andrà alla guida morale del paese» (p. 396). Ma non sono esclusi dal novero delle letture mussoliniane neanche quegli intellettuali stranieri che, più di altri, si dimostravano in sintonia con la Rivoluzione fascista, come Drieu, Brasillach, Céline, Shaw e Pound.

Una cultura viva, quindi, aderente alla vita della quale è integrazione, una cultura dell’azione: «in termini di cultura della rivoluzione, noi opponiamo la politica dell’azione alla lettera degli scribi che vendono futuro disanimato alle porte del tempio» (p. 399). Parole – come si vede – che si fanno marmo, che si fanno spada che squarcia il grigiore di certo intellettualismo podagroso e supponente, impersonato, in particolare, da Benedetto Croce e Gaetano Salvemini, profeti del deserto che nel deserto predicavano, rinchiusi nelle loro torri d’avorio e inascoltati da un popolo che viveva, invece, una nuova giovinezza, stanco oramai delle prediche e delle omelie dei santoni del liberalismo decadente e decaduto.

Ma perché – ci si potrà chiedere – tanta attenzione alla cultura? Per un motivo molto semplice: perché Mussolini, come ogni costruttore di civiltà, aveva ben compreso che «la rivoluzione è, innanzi tutto, cultura, cultura sociale, arricchimento ideologico nel senso rivoluzionario della parola» (p. 350).

Questi, naturalmente, sono solo assaggi di quella che è una vera e propria miniera di aforismi, sentenze, analisi e intuizioni geniali del Duce del Fascismo, il quale, purtroppo, è più spesso citato che letto. I Taccuini, infatti, rappresentano una fonte fondamentale e indispensabile per penetrare nelle maglie della visione rivoluzionaria di Mussolini, di un uomo, cioè, per cui «esistere, era sempre, sarebbe rimasto sempre, una sfida». Un uomo che visse ardendo, che fece della propria vita un’opera d’arte. Un uomo che ci insegna a scrivere la storia («non la storia fa l’uomo, ma l’uomo la storia»), a costruire con coraggio e determinazione il nostro avvenire («abbiamo creato, con le nostre mani, il nostro destino») e a non arrenderci ai tempi vili in cui ci è toccato vivere. Perché il suo stesso Fascismo rappresentò, tra le altre cose, proprio «la risposta a un’epoca di cui non abbiamo voluto subire la violenza». Come marmo che vince la palude…

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I nemici dell’Italia


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