L’articolo sarà pubblicato in «Occidentale», ottobre 2011.
«Pochissimi “documenti” mussoliniani – e nessuno di tanta ampiezza e ricchezza di particolari – hanno, per noi, l’importanza di questi Taccuini per cercare di penetrare la personalità di Mussolini»: parola di Renzo De Felice. Già partendo da qui possiamo afferrare, pertanto, l’importanza che riveste la recente impresa editoriale della casa editrice felsinea de Il Mulino (pp. 736, € 19), che ha voluto ristampare, pochi mesi or sono, la prima e unica edizione (1990) dei Taccuini mussoliniani di Yvon De Begnac (biografo ufficiale del Duce). Sono stati ovviamente mantenuti, inoltre, la prefazione dello stesso De Felice e il ponderoso saggio introduttivo di Francesco Perfetti, che dello storico reatino è uno dei migliori allievi.
Questi Taccuini, in sostanza, rappresentano gli appunti che il giovane giornalista redasse durante i ripetuti incontri con Mussolini a Palazzo Venezia, i quali erano finalizzati alla pubblicazione della vasta biografia ufficiale che il Duce commissionò allo stesso De Begnac (ne uscirono i primi tre volumi, prima che la guerra interrompesse il progetto). Si tratta, in particolare, di lunghi monologhi ai quali il Capo del Fascismo volentieri si abbandonava, rievocando momenti cruciali della storia del movimento delle Camicie nere, tratteggiando ritratti delle massime personalità con cui veniva a contatto (sia fasciste che antifasciste), ma anche analizzando i caratteri principali della «cultura della Rivoluzione», senza tralasciare, infine, i suoi desiderata per l’avvenire.
Quel che emerge dalla lettura dei Taccuini, e che maggiormente colpisce l’attenzione del lettore a tanti anni di distanza dai temi affrontati dal Duce, è la profondità e la lucidità del Mussolini-politico: se risultano certamente importanti – per avallare le considerazioni di De Felice – gli aspetti psicologici e caratteriali della personalità mussoliniana, è a mio parere fondamentale, infatti, rilevare altresì il valore più propriamente politico, culturale, teorico, filosofico addirittura, del pensiero di Mussolini ivi contenuto. Un pensiero la cui vastità e la cui esattezza essenziale sono illustrate in tutta la loro chiarezza dalle corpose sezioni «culturali» della raccolta (capp. VIII e IX).
Entriamo così in contatto con i capisaldi dello spirito rivoluzionario del Fascismo, spirito promanante dalle parole del suo massimo esponente, che, nella colloquialità dell’occasione, quasi pare che si rivolga direttamente a noi, rendendo così la lettura più intima e avvolgente. E veniamo innanzitutto a conoscenza delle ampie ed eclettiche letture del Duce, che spaziano dai teorici marxisti ai Bernstein e ai Sorel, da Stirner a Michelstaedter, dai «vociani» a Nietzsche (quest’ultimo certamente il suo prediletto). E proprio dal filosofo tedesco Mussolini desume l’animus primigenio della cultura fascista, ossia il volontarismo («volontarismo, solo volontarismo nella nostra cultura? In gran parte, sì!»: p. 379), che nella nitida visione del Duce assume contorni «tragici», perché votato a creare e diffondere grandezza: esso, infatti, consiste «nella decisione – individuale, e collettiva – di rendere utile alla società ogni intervento, materiale e morale, autonomamente diretto a risvegliarne il sopito senso della vita e ad annullarne ogni tendenza indotta, volta a provocarne l’indebolimento e la fine. “Volontarismo” non significa compiere la quotidiana buona azione del boy-scout, ma è coscienza del divenire di una nuova civiltà, e determinazione a favorirne, al di fuori di ogni sollecitazione, la crescita. “Volontarismo” è sapere quel che si deve fare per impedire che la rivoluzione decada dall’esercizio del diritto a compiersi nel nome e per conto della collettività» (pp. 335-336).
Già grazie a questa bellissima citazione – nonché alla genialità di sintesi del suo autore – si staglia decisamente la grandezza dell’ideale fascista sostenuto dal suo Capo: l’ideale, cioè, di un «umanesimo antiutilitaristico, antindividualistico, svincolato da egoismi di classe e di casta» (p. 283), «umanesimo della scienza, della tecnica, del lavoro» (p. 304), «fondato sui diritti della giovinezza della vita» (p. 311). Quello che, insomma, un altro gigante come Giovanni Gentile chiamò, nel suo imprescindibile volume Genesi e struttura della società, «umanesimo del lavoro».
Un ulteriore dato che emerge da queste pagine illuminanti, poi, è la conoscenza certosina, da parte del Duce, di tutta la classe intellettuale dell’epoca, della quale sapeva tanto l’affidabilità e la fedeltà quanto l’opportunismo e la meschinità; così come colpisce l’aggiornamento costante sugli sviluppi della cultura italiana, tanto nelle sue forme artistiche quanto in quelle letterarie, non mancando, tra l’altro, di monitorare le promesse della stampa universitaria e giovanile fascista, tra cui spiccano i nomi di Berto Ricci, Edgardo Sulis, Roberto Pavese e Guido Pallotta: «questi giovani sono la giovane cultura italiana che, un giorno, andrà alla guida morale del paese» (p. 396). Ma non sono esclusi dal novero delle letture mussoliniane neanche quegli intellettuali stranieri che, più di altri, si dimostravano in sintonia con la Rivoluzione fascista, come Drieu, Brasillach, Céline, Shaw e Pound.
Una cultura viva, quindi, aderente alla vita della quale è integrazione, una cultura dell’azione: «in termini di cultura della rivoluzione, noi opponiamo la politica dell’azione alla lettera degli scribi che vendono futuro disanimato alle porte del tempio» (p. 399). Parole – come si vede – che si fanno marmo, che si fanno spada che squarcia il grigiore di certo intellettualismo podagroso e supponente, impersonato, in particolare, da Benedetto Croce e Gaetano Salvemini, profeti del deserto che nel deserto predicavano, rinchiusi nelle loro torri d’avorio e inascoltati da un popolo che viveva, invece, una nuova giovinezza, stanco oramai delle prediche e delle omelie dei santoni del liberalismo decadente e decaduto.
Ma perché – ci si potrà chiedere – tanta attenzione alla cultura? Per un motivo molto semplice: perché Mussolini, come ogni costruttore di civiltà, aveva ben compreso che «la rivoluzione è, innanzi tutto, cultura, cultura sociale, arricchimento ideologico nel senso rivoluzionario della parola» (p. 350).
Questi, naturalmente, sono solo assaggi di quella che è una vera e propria miniera di aforismi, sentenze, analisi e intuizioni geniali del Duce del Fascismo, il quale, purtroppo, è più spesso citato che letto. I Taccuini, infatti, rappresentano una fonte fondamentale e indispensabile per penetrare nelle maglie della visione rivoluzionaria di Mussolini, di un uomo, cioè, per cui «esistere, era sempre, sarebbe rimasto sempre, una sfida». Un uomo che visse ardendo, che fece della propria vita un’opera d’arte. Un uomo che ci insegna a scrivere la storia («non la storia fa l’uomo, ma l’uomo la storia»), a costruire con coraggio e determinazione il nostro avvenire («abbiamo creato, con le nostre mani, il nostro destino») e a non arrenderci ai tempi vili in cui ci è toccato vivere. Perché il suo stesso Fascismo rappresentò, tra le altre cose, proprio «la risposta a un’epoca di cui non abbiamo voluto subire la violenza». Come marmo che vince la palude…
Questi Taccuini, in sostanza, rappresentano gli appunti che il giovane giornalista redasse durante i ripetuti incontri con Mussolini a Palazzo Venezia, i quali erano finalizzati alla pubblicazione della vasta biografia ufficiale che il Duce commissionò allo stesso De Begnac (ne uscirono i primi tre volumi, prima che la guerra interrompesse il progetto). Si tratta, in particolare, di lunghi monologhi ai quali il Capo del Fascismo volentieri si abbandonava, rievocando momenti cruciali della storia del movimento delle Camicie nere, tratteggiando ritratti delle massime personalità con cui veniva a contatto (sia fasciste che antifasciste), ma anche analizzando i caratteri principali della «cultura della Rivoluzione», senza tralasciare, infine, i suoi desiderata per l’avvenire.
Quel che emerge dalla lettura dei Taccuini, e che maggiormente colpisce l’attenzione del lettore a tanti anni di distanza dai temi affrontati dal Duce, è la profondità e la lucidità del Mussolini-politico: se risultano certamente importanti – per avallare le considerazioni di De Felice – gli aspetti psicologici e caratteriali della personalità mussoliniana, è a mio parere fondamentale, infatti, rilevare altresì il valore più propriamente politico, culturale, teorico, filosofico addirittura, del pensiero di Mussolini ivi contenuto. Un pensiero la cui vastità e la cui esattezza essenziale sono illustrate in tutta la loro chiarezza dalle corpose sezioni «culturali» della raccolta (capp. VIII e IX).
Entriamo così in contatto con i capisaldi dello spirito rivoluzionario del Fascismo, spirito promanante dalle parole del suo massimo esponente, che, nella colloquialità dell’occasione, quasi pare che si rivolga direttamente a noi, rendendo così la lettura più intima e avvolgente. E veniamo innanzitutto a conoscenza delle ampie ed eclettiche letture del Duce, che spaziano dai teorici marxisti ai Bernstein e ai Sorel, da Stirner a Michelstaedter, dai «vociani» a Nietzsche (quest’ultimo certamente il suo prediletto). E proprio dal filosofo tedesco Mussolini desume l’animus primigenio della cultura fascista, ossia il volontarismo («volontarismo, solo volontarismo nella nostra cultura? In gran parte, sì!»: p. 379), che nella nitida visione del Duce assume contorni «tragici», perché votato a creare e diffondere grandezza: esso, infatti, consiste «nella decisione – individuale, e collettiva – di rendere utile alla società ogni intervento, materiale e morale, autonomamente diretto a risvegliarne il sopito senso della vita e ad annullarne ogni tendenza indotta, volta a provocarne l’indebolimento e la fine. “Volontarismo” non significa compiere la quotidiana buona azione del boy-scout, ma è coscienza del divenire di una nuova civiltà, e determinazione a favorirne, al di fuori di ogni sollecitazione, la crescita. “Volontarismo” è sapere quel che si deve fare per impedire che la rivoluzione decada dall’esercizio del diritto a compiersi nel nome e per conto della collettività» (pp. 335-336).
Già grazie a questa bellissima citazione – nonché alla genialità di sintesi del suo autore – si staglia decisamente la grandezza dell’ideale fascista sostenuto dal suo Capo: l’ideale, cioè, di un «umanesimo antiutilitaristico, antindividualistico, svincolato da egoismi di classe e di casta» (p. 283), «umanesimo della scienza, della tecnica, del lavoro» (p. 304), «fondato sui diritti della giovinezza della vita» (p. 311). Quello che, insomma, un altro gigante come Giovanni Gentile chiamò, nel suo imprescindibile volume Genesi e struttura della società, «umanesimo del lavoro».
Un ulteriore dato che emerge da queste pagine illuminanti, poi, è la conoscenza certosina, da parte del Duce, di tutta la classe intellettuale dell’epoca, della quale sapeva tanto l’affidabilità e la fedeltà quanto l’opportunismo e la meschinità; così come colpisce l’aggiornamento costante sugli sviluppi della cultura italiana, tanto nelle sue forme artistiche quanto in quelle letterarie, non mancando, tra l’altro, di monitorare le promesse della stampa universitaria e giovanile fascista, tra cui spiccano i nomi di Berto Ricci, Edgardo Sulis, Roberto Pavese e Guido Pallotta: «questi giovani sono la giovane cultura italiana che, un giorno, andrà alla guida morale del paese» (p. 396). Ma non sono esclusi dal novero delle letture mussoliniane neanche quegli intellettuali stranieri che, più di altri, si dimostravano in sintonia con la Rivoluzione fascista, come Drieu, Brasillach, Céline, Shaw e Pound.
Una cultura viva, quindi, aderente alla vita della quale è integrazione, una cultura dell’azione: «in termini di cultura della rivoluzione, noi opponiamo la politica dell’azione alla lettera degli scribi che vendono futuro disanimato alle porte del tempio» (p. 399). Parole – come si vede – che si fanno marmo, che si fanno spada che squarcia il grigiore di certo intellettualismo podagroso e supponente, impersonato, in particolare, da Benedetto Croce e Gaetano Salvemini, profeti del deserto che nel deserto predicavano, rinchiusi nelle loro torri d’avorio e inascoltati da un popolo che viveva, invece, una nuova giovinezza, stanco oramai delle prediche e delle omelie dei santoni del liberalismo decadente e decaduto.
Ma perché – ci si potrà chiedere – tanta attenzione alla cultura? Per un motivo molto semplice: perché Mussolini, come ogni costruttore di civiltà, aveva ben compreso che «la rivoluzione è, innanzi tutto, cultura, cultura sociale, arricchimento ideologico nel senso rivoluzionario della parola» (p. 350).
Questi, naturalmente, sono solo assaggi di quella che è una vera e propria miniera di aforismi, sentenze, analisi e intuizioni geniali del Duce del Fascismo, il quale, purtroppo, è più spesso citato che letto. I Taccuini, infatti, rappresentano una fonte fondamentale e indispensabile per penetrare nelle maglie della visione rivoluzionaria di Mussolini, di un uomo, cioè, per cui «esistere, era sempre, sarebbe rimasto sempre, una sfida». Un uomo che visse ardendo, che fece della propria vita un’opera d’arte. Un uomo che ci insegna a scrivere la storia («non la storia fa l’uomo, ma l’uomo la storia»), a costruire con coraggio e determinazione il nostro avvenire («abbiamo creato, con le nostre mani, il nostro destino») e a non arrenderci ai tempi vili in cui ci è toccato vivere. Perché il suo stesso Fascismo rappresentò, tra le altre cose, proprio «la risposta a un’epoca di cui non abbiamo voluto subire la violenza». Come marmo che vince la palude…
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