venerdì 24 dicembre 2010

Buon Natale!

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martedì 21 dicembre 2010

Hávámal

di Gabriele Adinolfi

Solstizio, tempo d’introspezione e di doni che fan bene allo spirito.
Il dono solstiziale quest’anno non può essere altro che Hávámal, edito da Diana in quest’anno solare.

Hávámal, come ci ricorda il curatore dell’opera, può essere tradotto con «Parole dall’Alto», ossia di Odinn (in italiano Odino), la massima divinità del pantheon nordico. La tradizione vuole infatti che gli Hávámal siano stati composti da Odinn stesso.
Il testo appare in una raccolta che va sotto il nome di Edda Poetica, da non confondere con l’omonima Edda di Snorri.

Si tratta di precetti di vita che provengono dall’alto della saggezza e che trattano ogni aspetto: si va dall’ospitalità, all’amicizia, all’etica, alle relazioni tra i sessi.
Si passa poi di livello, con la rievocazione del modo con il quale Odinn s’impossessa dell’idromele della saggezza e con la trasformazione iniziatica, fino al commiato.
Con le strofe del Runatal viene evocato l’atto solenne del sacrificio di Odinn. Il re degli Dei nordici s’impicca all’albero del mondo, Yggdrassill, per conquistare mediante il ciclo di morte e rinascita la conoscenza delle Rune, gli arcani simboli della magia nordica.

Antonio Costanzo, un giovane napoletano che ho avuto la fortuna di conoscere mentre era impegnato nell’opera, ha curato quest’edizione dell’Hávámal con anni e anni di studio filologico che lo hanno condotto a parlare correntemente l’islandese e a trascorrere mesi in Islanda allo scopo di renderci questa perla in tutta la sua brillantezza e nella sua precisione.
Un vero e proprio capolavoro di serietà, di rigore e di dedizione, Antonio.

Chi non avesse idea di cosa stiamo parlando sappia che la lettura degli Hávámal non solo è agevole ed estremamente piacevole, ma che tutto quel che ci trasmette è al contempo più sensato, più profondo e più tangibile di ciò a cui siamo stati abituati dalle consuete letture etiche, religiose ed esistenziali.
Una sobrietà luminosa caratterizza gli Hávámal.
259 pagine più annessi per € 18,50.
Il regalo solstiziale per eccellenza.

http://www.dianaedizioni.com/havamal.html

Antonio Costanzo è nato a Napoli nel 1979. Laureato con lode in fisica teorica alla Federico II di Napoli con la tesi Approccio spazio-temporale alle teorie di gauge quantizzate. Studioso delle lingue moderne ed antiche, parla correntemente islandese, norvegese, tedesco e inglese. Studioso della cultura germanica collabora con riviste e giornali di settore. È animatore del centro studî Nostra Romanitas e direttore responsabile della collana di studî nordici, Sunna, per la casa editrice Diana.

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giovedì 9 dicembre 2010

mercoledì 1 dicembre 2010

Posizione del Blocco Studentesco sulla Riforma Gelmini

di Noah Mancini (senatore accademico della seconda Università di Roma Tor Vergata, eletto nella lista del Blocco Studentesco)


Pubblichiamo, in via straordinaria, la posizione ufficiale del Blocco Studentesco in merito al DdL 1905, redatto dal ministro dell’Istruzione Gelmini, in merito alla riforma dell’Università. Il lavoro di Mancini è volutamente tecnico e articolato (la versione sintetica sarà pubblicata a breve sul nuovo numero di «Idrovolante»), poiché si rivolge a quegli studenti (e non) che si sono stufati degli slogan vuoti e demagogici che si sentono in questi giorni, preferendo quindi informare con competenza e spirito antipregiudiziale coloro che vogliono vederci chiaro sulla tanto vituperata, quanto poco analizzata, Riforma Gelmini. Buona lettura!


Il DdL 1905 (la cosiddetta «Riforma Gelmini» riguardante l’Università), già approvato al Senato il 29 luglio di quest’anno, è passato recentemente, benché emendato, anche alla Camera (30 novembre), e l’approvazione definitiva avverrà solo dopo il voto di ratifica al Senato. Per quest’ultimo la seduta è stata attualmente calendarizzata al 9 dicembre.

In ragione di ciò, e in virtù anche delle mobilitazioni da noi organizzate, è chiaro come non possiamo esimerci dall’esprimere un giudizio di merito sulla Riforma, che può essere senz’altro considerata un ambizioso tentativo di ridare slancio all’istruzione superiore e uno sforzo di affrontare di petto i problemi dell’Università. Chi la rifiuta in blocco lo fa, infatti, unicamente per faziosità ideologica oppure perché appartiene ai settori più conservatori del mondo universitario.

Innanzitutto, bisogna ammettere che risultano sicuramente apprezzabili i princìpi ispiratori della Riforma.

Al punto 4 art. 1 del DdL in effetti si legge: «Il Ministero, nel rispetto della libertà di insegnamento e dell’autonomia delle università, indica obiettivi e indirizzi strategici per il sistema e le sue componenti e, tramite l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR) per quanto di sua competenza, ne verifica e valuta i risultati secondo criteri di qualità, trasparenza e promozione del merito, anche sulla base delle migliori esperienze diffuse a livello internazionale, garantendo una distribuzione delle risorse pubbliche coerente con gli obiettivi, gli indirizzi e le attività svolte da ciascun ateneo, nel rispetto del principio della coesione nazionale, nonché con la valutazione dei risultati conseguiti».

Qualità, trasparenza, promozione del merito, rispetto del principio della coesione nazionale. Nulla da eccepire. Anzi: ben venga una svolta meritocratica e ben venga lo stop ai finanziamenti a pioggia.

Bisogna tuttavia prestare molta attenzione. Considerati  i princìpi informatori (trasparenza, meritocrazia, taglio agli sprechi, ecc.), emerge chiaro l’intento del Governo di «asciugare» gli sprechi. Occorre però tener presente che la Riforma viene fatta su vasta scala, senza render conto dei singoli Atenei e delle rispettive condizioni economiche in cui essi versano.

Vale a dire: ok, basta con i finanziamenti a pioggia… ma qui si rischia di effettuare tagli con l’accetta.

Inoltre, se consideriamo la meritocrazia e la «virtuosità» dell’Ateneo in un senso puramente economico,  assurto a principale criterio di valutazione per l’attribuzione del finanziamento, è chiaro che le Università private partiranno sempre e comunque avvantaggiate rispetto a quelle pubbliche, gravando su queste ultime anche i tagli al Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) prefissati nella legge 133.

La conseguenza principale, e che indubbiamente merita una particolare attenzione da parte della comunità universitaria tutta, è che trovandosi a doversi mantenere fondamentalmente sulla base delle tasse universitarie, gli Atenei pubblici si troveranno costretti (in molte realtà già sta succedendo) a reperire finanziatori esterni sul mercato.

Procedendo quindi con ordine, ciò che maggiormente rileva ai fini dell’elaborazione di una linea politica sul DdL, che sia coerente e produttiva, è la risoluzione dei problemi relativi a due questioni focali: la riforma dei Consigli di Amministrazione (CdA) e la questione dei ricercatori


La riforma dei Cda

Abbiamo detto che, nel momento in cui alle Università pubbliche verrà effettivamente decurtata la parte del FFO necessario al loro funzionamento (come previsto dalla legge 133 convertita nella 180), queste si troveranno a doversi mantenere principalmente sulle rette pagate dagli studenti. Alternative in questo caso diventano giocoforza: 1) un sensibile incremento delle rette, che tuttavia non può essere sufficiente; 2) la necessità dell’Ateneo di rivolgersi a uno o più finanziatori esterni, in larga parte privati.

Ciò in alcuni casi potrà avere come conseguenza anche l’ingresso di soggetti privati nei CdA degli Atenei pubblici. CdA che, secondo il punto g) dell’articolo 2 del DdL, avranno una composizione «nel numero massimo di undici componenti, inclusi il rettore componente di diritto ed una rappresentanza elettiva degli studenti; designazione o scelta degli altri componenti secondo modalità previste dallo statuto, anche mediante avvisi pubblici, tra personalità italiane o straniere in possesso di comprovata competenza in campo gestionale e di un’esperienza professionale di alto livello; non appartenenza di almeno il quaranta per cento dei consiglieri ai ruoli dell’ateneo a decorrere dai tre anni precedenti alla designazione e per tutta la durata dell’incarico; elezione del presidente del consiglio di amministrazione tra i componenti dello stesso...».

Di fatto ciò che viene qui espressa è la volontà di far entrare delle persone che abbiano delle esperienze in campo manageriale, ma che non siano al contempo interne all’amministrazione universitaria. La misura viene vista come una necessità, un criterio imprescindibile, un po’ come le quote rosa in Parlamento. In più, anche se nel documento non è specificato, si presuppone che queste persone di comprovata «competenza in campo gestionale» possano essere soggetti privati facenti parte di società per azioni o anche a responsabilità limitata, creando così un conflitto d’interessi notevole. A un certo punto compare anche una parolaccia: ALMENO. Ci si riferisce proprio a quel 40% di personale esterno che deve subentrare nei CdA. Che vuol dire «almeno»? Invece di essere quotato il limite massimo viene quotato il limite minimo.

Il CdA tra l’altro, secondo la Riforma, pur mantenendo tutte le attuali competenze sulle questioni finanziarie,

1) acquisirà il potere di gestione e programmazione su tutto il personale, docenti e ricercatori inclusi;

2) avrà il potere di decidere l’attivazione o la soppressione dei Corsi di Laurea e delle Sedi;

3)  deciderà l’indirizzo strategico dell’Ateneo.

Qual è il rischio?

Il rischio è che tale incremento delle funzioni del CdA, in previsione di un sempre maggiore ingresso di soggetti finanziatori in larga parte privati nel sistema universitario pubblico, può senz’altro costituire una minaccia per l’indipendenza e l’autonomia dell’Università pubblica in sé.

È evidente come, nel momento in cui tali soggetti privati saranno chiamati a investire negli Atenei pubblici, lo faranno soltanto in quei settori che risulteranno ai loro occhi più «accattivanti» da un punto di vista di profitto economico, e nella misura in cui acquisteranno un vero e proprio potere decisionale nella gestione economica e didattica di quegli stessi settori nei quali hanno investito.

Le possibilità sono due: o è stato un abbaglio oppure si crede veramente che per risolvere il problema dei finanziamenti a pioggerella, con un sistema di tipo «un po’ per uno non fa male a nessuno», se ne debba creare un altro, ossia l’ingerenza del privato nel settore pubblico.

La soluzione? Autonomia e non etero-direzione

Il Blocco Studentesco Università due anni fa, prima delle proteste autunnali, quando la legge 133 non era ancora stata trasformata nella 180, aveva esposto in modo chiaro come primo punto del programma l’idea di bloccare «qualsiasi intromissione dei privati nell’Università che non sia subordinata, legalmente ed economicamente, al controllo diretto, in forma partecipativa, da parte dell’Ateneo. Autonomia e non etero-direzione! Siamo contrari a qualsiasi proposta che possa dare alle università italiane la possibilità di trasformarsi in fondazioni di diritto privato, giustificazione ai tagli effettuati dal Governo, primo passo verso una futura privatizzazione dell’intero sistema universitario. Così facendo si correrebbe anche il rischio di penalizzare facoltà che non suscitino un particolare interesse economico» (punto 1 del programma: «nessun privato nell’università»).

In alcune interviste avevamo anche affermato che, qualora strutture private avessero dovuto rientrare nei piani di gestione degli Atenei, la quota non avrebbe dovuto superare il 40%, rifacendoci in tal modo alla struttura universitaria russa che vede, appunto, pubblico e aziende private collaborare organicamente nell’idea di uno Stato inclusivo. Recuperando così, per altro, il principio della coesione nazionale citato tra i princìpi ispiratori della Riforma.

Effettivamente il DdL prevede che questi agenti esterni non possano rimanere in carica più di 4 anni; il che, sebbene possa essere aggirato con escamotage da imprese che ne hanno l’interesse, ovviamente è una forma di garanzia per impedire l’appoltronamento di chi ne farebbe una mera questione d’interesse.

Tuttavia ciò che rimane da specificare (e che la Riforma purtroppo non prevede) a questo punto sono i criteri di scelta per l’ingresso.

Se l’Università deve essere il luogo di formazione della futura classe dirigente di una nazione, allora essa è una struttura che lavora ai fini dello Stato, e per questo motivo anche le imprese, se d’imprese si parlerà, che subentrano nei Consigli di Amministrazione, dovranno dimostrare di essere organiche alla società e all’idea di sviluppo e crescita nazionale.

Criteri-base – secondo la nostra proposta – dovrebbero essere: le imprese devono essere italiane o al massimo europee, ma con sede legale in Italia, perché bisogna assolutamente evitare l’intromissione di multinazionali estere (per esempio quelle farmaceutiche); le industrie italiane non devono assolutamente delocalizzare le proprie sedi di produzione in altri Paesi, soprattutto se fuori dall’UE. Men che meno possono essere ammesse banche o fondazioni bancarie, e neanche aziende che abbiano capitale di debito con una qualsiasi banca.

Con ciò bisogna ribadire l’assoluto NO alla «possibile» trasformazione delle Università in fondazioni di diritto privato, il che è evidentemente un vero attacco per smantellare ciò che ci rimane dello Stato sociale.

È proprio questo il punto centrale del discorso: la presenza dello Stato. Esso è insostituibile. Ma costituisce un problema anzitutto culturale. In questo senso, se ci fosse uno Stato etico in cui i cittadini e le altre categorie sociali cooperino sinergicamente, in quanto componenti organiche del progetto nazionale, questo punto del DdL sarebbe sottoscrivibile. Usiamo a proposito la parola «sarebbe», nella forma condizionale, proprio perché le logiche che regolano il meccanismo sociale odierno puntano sempre e solo al profitto. Così ciò che va ribadito è che, se la Riforma si tramutasse in una tappa verso l’americanizzazione del sistema universitario, o più semplicemente verso la sua privatizzazione, risulterà necessario bloccarla immediatamente alle prime avvisaglie di speculazione.


La questione dei ricercatori

Altra questione che merita qualche chiarimento è quella relativa ai ricercatori universitari.
Al momento attuale, l’aspirante ricercatore, al termine del dottorato,  ha davanti a sé un periodo di precariato, di durata indeterminata. In questo periodo può percepire un assegno di ricerca (al massimo per 4-5 anni) o altre forme di borse e/o contratti. L’ingresso ad uno status a tempo indeterminato avviene con concorso da Ricercatore universitario (mediamente, l’età di ingresso è oltre i 35 anni).

Procediamo ora ad analizzare caso per caso le singole situazioni.

I ricercatori a Tempo Indeterminato (TI) oggi:

1) il concorso è pubblico e avviene sulla base del curriculum e delle pubblicazioni. Prevede due prove scritte e una orale, in cui normalmente il candidato ha modo di illustrare la propria attività di ricerca;

2) i ricercatori universitari sono sottoposti ad un periodo di prova per la durata di tre anni. Per essere confermato, il ricercatore deve redigere una relazione sull’attività scientifica e didattica, sottoporla all’approvazione del Dipartimento e della Facoltà e a una commissione nominata dal Ministero, composta da 3 professori di altri Atenei;

3) coloro che non superano per due volte il giudizio di conferma cessano di essere ricercatori, e possono passare ad altra amministrazione.

I ricercatori a tempo determinato (TD) oggi:

1) a partire dall’entrata in vigore della nuova legge, non sarà più possibile bandire nuovi posti per ricercatore a TI. Si potranno bandire solo posti a TD, con contratti di tre anni, rinnovabili una volta soltanto;

2) i contratti saranno banditi sia dagli Atenei, sia a livello nazionale. Per questi ultimi si dovrà presentare un progetto di ricerca: in caso di successo, si potrà scegliere la sede in cui andare a svolgerlo, ma i fondi necessari non sono garantiti;

3) per entrare nel ruolo di professore associato sarà necessario conseguire un’idoneità a livello nazionale, indetta ogni anno.

4) se il ricercatore a TD consegue l’idoneità entro la scadenza del secondo triennio, potrà venire chiamato come professore associato… altrimenti deve trovarsi un nuovo lavoro;

5) gli Atenei non sono obbligati a garantire che ci siano le risorse necessarie per la chiamata (come avviene invece nei Paesi anglosassoni con la tenure-track), sicché il ricercatore a TD, presa l’idoneità al termine dei 3+3, si potrebbe ritrovare senza lavoro per semplici motivi di bilancio.

Dal DdL, inoltre, si percepisce come tanto la prima quanto la seconda categoria siano sottoposte a un regime di controllo rigidissimo in ordine alla trasparenza sulla documentazione del lavoro svolto, ossia entra in vigore l’obbligo di presentare tot pubblicazioni ogni anno, e diventa necessario adempiere l’obbligo di informazione sul monte «ore cattedra» durante l’anno accademico. Emerge tuttavia, in maniera abbastanza chiara, come la Riforma di fatto penalizzi i ricercatori, poiché

1) non li considera: mette in esaurimento il ruolo, non riconosce il lavoro effettivamente svolto da tempo nella didattica, li esclude dalle commissioni per i concorsi universitari;

2) li penalizza economicamente: scatti stipendiali da biennali a triennali (fatta salva però la retribuzione totale), eliminazione della ricostruzione di carriera, pensionamento anticipato rispetto ai professori;

3) crea loro grosse difficoltà di avanzamento di carriera: i tagli al finanziamento dell’Università, che inevitabilmente riducono i nuovi posti da Professore Associato, e l’introduzione della figura del Ricercatore a TD che, dopo 3+3 anni se non chiamato è disoccupato, inducono una competizione iniqua e sgradita tra Ricercatori a TI e TD.

Il problema dei ricercatori si innesta, inoltre, sulla più ampia questione relativa al sottofinanziamento generale a cui è sottoposta l’istruzione pubblica superiore. La marginalizzazione dei ricercatori attuali e la precarizzazione di quelli futuri, uniti ai tagli al FFO, all’ingresso dei privati nei piani gestionali e amministrativi dell’Università, rischiano, se non controllati in maniera adeguata, di provocare un depauperamento della didattica e della ricerca in generale.

In questo senso bisogna prestare attenzione anche a un dato molto importante relativo all’arretratezza generale dell’Italia  in materia di finanziamenti alla ricerca e alla didattica.

Per quanto riguarda il finanziamento della ricerca, infatti, al generale aumento di investimenti per ricerca e sviluppo nell’area OCSE di questi ultimi anni, fa riscontro addirittura la diminuzione del PIL del nostro Paese sotto l’1%. Da questo punto di vista, siamo a distanza siderale da Paesi quali gli Stati Uniti, e ci troviamo invece a staccare di poco altri Paesi quali l’Estonia.

Per quanto riguarda invece l’arretratezza del Paese circa il finanziamento alla didattica, la Riforma non interviene nella direzione di colmare il divario che, attualmente, separa l’Italia sempre dai Paesi membri dell’OCSE, in termini sia di spesa pro capite per studente (Italia: 8.725 dollari; media OCSE: 12.236), e sia di rapporto studenti/docente (Italia: 20; media OCSE: 15).

Insomma, per dirla in parole povere: passi lo stop ai finanziamenti a pioggia, passi la svolta meritocratica, passino i tagli agli sprechi, passi pure l’ingresso dei privati nell’istruzione pubblica (solo se e nella misura in cui tale ingresso si configuri in termini di autonomia universitaria, volta alla cooperazione tra pubblico e privato in senso organico e funzionale al sistema nazionale).

Ma, da una visione di insieme, ciò che risulta sempre meno presente in tutto questo è la figura dello Stato stesso, che, sebbene si sforzi di affrontare questioni nodali quali appunto gli sprechi delle pubbliche amministrazioni, la lotta ai baroni e alla fannulloneria che purtroppo spesso pervade le amministrazioni pubbliche stesse (quelle preposte all’istruzione pubblica in primis), dimentica di tracciare linee-guida chiare in relazione a quei settori che invece, alla luce della Riforma, maggiormente richiedono risposte forti e decise.

Ci riferiamo a quanto detto più su in merito ai criteri di selezione per l’ingresso di soggetti privati nei Cda, affinché il ricorso a finanziatori esterni risulti alla fine dei fatti un vero e proprio contributo alla formazione degli Italiani di domani, in un’ottica appunto «organica» di Stato coesivo e inclusivo, e non un mero sfruttamento guidato da logiche di profitto fine a se stesse.

Ci riferiamo ai fondi necessari a garantire la ricerca, i quali sembrano lasciati un po’ al caso, e che invece richiedono necessariamente risposte concrete e rapide; a partire forse proprio da un investimento maggiore del PIL, sempre in un’ottica di crescita e sviluppo dell’intero Paese.

Ci riferiamo ad una maggiore attenzione nei confronti dell’Università pubblica, affinché essa torni ad essere fucina di uomini e di idee, e non frontiera di conquista e colonizzazione di interessi particolari.

Perché ciò sia possibile, è necessario, nella pratica, che questa parta dallo stesso livello delle Università private nella distribuzione dei fondi stanziati e, a tal fine, gli interventi perequativi previsti dal DdL 1905 non sembrano affatto sufficienti. Che sia un abbaglio o un rischio calcolato, non è neanche lontanamente prefigurabile una futura distinzione tra Università di serie A (quelle private) e Università di serie B (quelle pubbliche).

Come detto più su, tutto passa per un problema culturale: quello di riconcepire lo Stato come uno Stato etico, organico e sociale. Questa è l’unica direzione da seguire. Uno Stato dove si tiene certamente conto del merito, ma dove TUTTI in quanto cittadini, in quanto Italiani, partono dallo stesso nastro di partenza. Solo con questa base ed entro quest’ottica si arriva al traguardo. Questo traguardo si chiama «futuro». Riprendiamocelo.

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mercoledì 24 novembre 2010

«Astrazioni Concettuali»: il nuovo futurismo di Corrado Delfini


Autore: Corrado Delfini.

Luogo: Galleria Arte & Valore, Via Labicana 48, Roma.

Data & Orari: 19-28 novembre 2010, ore 17.00-20.30.

Manager: Matteo Pietrobelli (matteo.1@hotmail.it).

(Corrado Delfini)

Il 19 novembre è stata inaugurata la mostra Astrazioni Concettuali dell’artista romano Corrado Delfini, al cui vernissage ho presenziato di persona.

Recensione: L’opera di Corrado Delfini è fortemente materica. La tela è scelta e tagliata appositamente, per poi essere preparata con un procedimento quasi alchemico (pasta più fondo acrilico), alle pennellate ad olio, fino ad arrivare agli ultimi ritocchi, fatti col gesso. Strada facendo, non è raro che frammenti di giornali, o degli stessi stracci usati per pulire i pennelli, trovino il loro posto sulla tela. Il risultato è una pittura quasi tridimensionale, in cui il tatto subentra alla vista come secondo senso d’approccio.

Lo stile a cui egli si attiene è una scelta felice: una sintesi tra l’astrattismo (si sprecano le citazioni a Kandinskij), e il futurismo – italiano così come  russo. Le avanguardie di un secolo fa, ciò che tre generazioni d’uomo fa erano il futuro, ora diventano fonte di nuova ispirazione, e matrice per nuove avanguardie. Delfini non fa antiquariato, beninteso, e il suo astrattofuturismo diviene qualcosa di nuovo e immediato. Gli omaggi al passato non mancano affatto – da Roma a Majakovskij, al 1919 – ma è un passato reso presente (e quindi proiettato verso il futuro). E così Manifestazione non autorizzata rievoca l’impegno politico e l’allegria squadristica di CasaPound, cui il nostro artista è vicino, con gli stessi termini, in cui Marinetti celebrava la vis polemica del primo fascismo.

(C. DELFINI, Roma)

Le opere pittoriche di Corrado Delfini non sono però (né vogliono essere) interpretabili in maniera univoca o immediata, come allegorie o trasfigurazioni, quasi fossero dei rebus che, una volta risolti, perdono d’importanza. L’approccio a queste opere può essere sciolto da un’intuizione subitanea e fulminea, oppure richiede una meditazione, una contemplazione che faccia scaturire la scintilla della comprensione, che possa rivelare un dettaglio di più. E tuttavia, ci si rende subito conto che non può essere compresa e risolta una volta per tutte e per tutti, ma che ciascuno deve confrontarsi con l’opera vis-à-vis, senza pretendere d’averla vista definitivamente. E anche per questo motivo, conviene affrettarsi, finché l’esposizione sarà aperta.

Andrea Virga 



 


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giovedì 11 novembre 2010

Delio Cantimori e il Corporativismo (2)

Corporativismo fascista e nazionalsocialismo

In questo primo caso, egli individua e basa la differenza tra il fascismo italiano, rivoluzionario, e il nazionalsocialismo tedesco, reazionario, su una radicale alterità di carattere filosofico. Il secondo è fondato su una concezione romantica della politica, affine a quella cattolica, esemplificata da Cantimori in Schlegel (1) e Schmitt (2), mentre il primo è piuttosto erede della rivoluzione sociale risorgimentale e mazziniana, e trova i suoi fondamenti filosofici nell’attualismo gentiliano. Quest’opinione è accentuata dopo la legge sul lavoro del gennaio 1934 e la purga del 30 giugno 1934 (la cosiddetta «Notte dei Lunghi Coltelli»), quando gli elementi più rivoluzionari del movimento nazionalsocialista, che destavano l’interesse del nostro autore, furono eliminati in favore di una maggiore stabilità e rispettabilità del regime di fronte ai poteri forti tradizionali (industriali ed esercito). Cantimori è un osservatore molto attento della situazione politica tedesca, e intende ammonire circa le differenze tra fascismo e nazionalsocialismo, in linea con il suo maestro, Giovanni Gentile, e con gli ambienti del fascismo sociale, come la rivista «Critica fascista».

Un testo fondamentale è il breve saggio Note sul nazionalsocialismo, comparso sulla rivista «Archivio di studi corporativi» nel 1934 (3). Esso fu scritto nell’aprile del 1934 a Zürich, e s’inscrive nel dibattito, intrapreso presso la Scuola di scienze corporative dell’Università di Pisa, sul carattere sociale ed economico dell’incipiente regime nazionalsocialista, e su cui conviene dare alcuni cenni. Lo studioso intende qui privilegiare l’analisi socioeconomica dell’ideologia nazionalsocialista, più che non il nazionalismo e il razzismo, e lo fa ripercorrendo la storia della NSDAP, dagli inizi fino all’ascesa al potere. In particolare egli parla diffusamente del nazionalismo rivoluzionario dei fratelli Strasser, dei quali sottolinea «l’autarchia economica, forti tasse sulle attività intermediarie nella vita economica, e una nazionalizzazione corporativa della produzione». Tuttavia, per le varie correnti (con programmi annessi) nazionalsocialiste esaminate, si deve parlare più che altro di riforma agraria e di nazionalizzazione delle banche o, nei casi più estremi, dei mezzi di produzione, ma non di una vera e propria teoria corporativistica.

Non c’è difatti accenno al corporativismo in questa succinta ma pregnante analisi del nazionalsocialismo, neanche laddove egli si dilunga sulla corrente rivoluzionaria facente capo alle Sturmabteilungen di Ernst Röhm (foto). A suo parere, anche il socialismo delle SA è ben lontano dal fascismo corporativo, in quanto anch’esso frutto della Weltanschauung romantica, religiosa e völkisch comune alla Deutsche Bewegung, e ch’egli individua come affondante le proprie radici nella Riforma luterana.

Anche se interpretiamo questo «socialismo spontaneo» che «nasce dalla vita dell’S. A.» (4) come una espressione politico-sociologica della comunanza di vita nel cameratismo soldatesco, queste parole non sono meno caratteristiche. È evidente che questo socialismo utopico è romantico, sentimentale: «del cuore» (5). Ma il contenuto di questo romanticismo, la sostanza di questo sentimento è religiosa: di religiosità razzista (Völkisch). A questa religiosità della razza, della stirpe, del popolo, della nazione, non manca neppure l’impeto missionario […]. La divinità, presente solo interiormente, nell’intimo dell’anima, non è più il dio biblico o cristiano, è il «Reich» da venire, è la «Nation» (6).

Dunque, sul piano dell’ideologia, non vi è contatto alcuno tra le due dottrine politiche. Viceversa, sul piano pratico, Cantimori crede d’intravedere qualche spiraglio d’applicazione politica dei princìpi corporativistici. Al di là delle leggi agrarie, la legislazione nazionalsocialista in ambito lavorativo (7) risulta basata, come il corporativismo, sulla collaborazione tra lavoro e capitale, tra operai ed imprenditori. Ciò avviene, è vero, secondo il concetto nazionalsocialista di Führerprinzip, ovvero l’imprenditore è Führer della propria azienda, responsabile di fronte ad operai e tecnici, ed ogni contratto è concluso direttamente tra queste due parti in causa, senza contratti collettivi a livello nazionale, ed è fondato sull’onestà e sulla buona fede dei contraenti. Tuttavia l’autore rimane scettico, eccetto per l’istituzione dell’Arbeitsdienst, ovvero il servizio lavorativo semestrale obbligatorio per i giovani di entrambi i sessi, cui però accenna soltanto suggerendo la sua affinità al piano etico-sociale del corporativismo:

Quindi non si può dire che sia di «carattere sociale», nel senso comune della parola: non si può dire cioè che favorisca la situazione economica o che accresca la dignità umana dei lavoratori. Ma sottopone le aziende a una forte sorveglianza da parte dei fiduciari governativi del lavoro.
Le istituzioni nelle quali meglio si vede un inizio di attuazione del potente movimento di idee e di aspirazioni «socialistiche» e della volontà di «rivoluzione totale» dei giovani e delle moltitudini nazionalsocialiste sono quelle dell’Arbeitsdienst, soldatescamente organizzate, a carattere militare e educativo: si vogliono educare i giovani ed i lavoratori al cameratismo, alla disciplina militaresca, alla gioia del lavoro fisico compiuto in comune.

Un secondo scritto molto indicativo è la recensione che Cantimori scrive a proposito dei libri di Carl Schmitt (foto) Der Begriff des Politischen (8) e Staat, Bewegung, Volk (9), comparsa nello stesso anno sulla rivista «Leonardo» (10). Egli considera Schmitt un interlocutore privilegiato all’interno del nazionalsocialismo tedesco:

Sono opere di una mente aperta, ricca di cultura non esclusivamente tedesca, di un giurista avvezzo a formulazioni precise e nette, spesso brillanti. Questo li rende comprensibili anche al lettore cui non sia famigliare lo strano mondo ideologico del nazionalsocialismo. Va notato però che non si tratta di una persona chiusa in un astratto mondo intellettuale, né di un dotto estraneo al fermento di passioni e di idee che ribolle fra le terribili imprese dei capi nazionalsocialisti (11).

Ciononostante, riguardo alla concezione sociopolitica dello Schmitt non si dilunga troppo:

Stato, Movimento, Popolo; i funzionarî e la burocrazia statale, il partito, «ordine», «élite organizzata», e gli uomini dedicati all’attività economico-sociale: dove si pensa alle tre classi di Platone, con la differenza che i «guerrieri» platonici fan tutt’uno qui coi sacerdoti filosofi governanti, nel «movimento» o Partito, e fra essi e il popolo (concepito quasi identico al platonico) c’è la nuova organizzazione amministrativa dei funzionarî (12).

Anche qui descrive una realtà sociale di stampo corporativistico, ma questo termine non compare. Infine, è opportuno tenere presente i tre saggi, apparsi su «Studi Germanici» nel 1935, in cui Cantimori esamina il pensiero di tre grandi autori della rivoluzione conservatrice: oltre a Schmitt (13), anche Ernst Jünger (14) e Arthur Moeller van den Bruck (15), ma anche qui non c’è traccia di discussione del corporativismo. Se ne deve dunque, a maggior ragione, concludere che Cantimori ritenesse il corporativismo strettamente legato al fascismo italiano e del tutto estraneo al nazionalsocialismo tedesco.


Corporativismo fascista ed economia mista (planismo)

Un altro caso molto interessante, sviluppato in un testo importante, seppure breve, è quello in cui Cantimori si confronta direttamente con Le Plan du Travail, preparato per il 48° Congresso del Parti Ouvrier Belge (Natale 1933) come programma del Partito, dal vicepresidente Henri (o Hendrik) de Man (foto). Del teorico socialista fiammingo, Cantimori si era già occupato poco prima (16), recensendo il suo libro Die sozialistiche Idee, uscito nel 1933 a Jena e subito sequestrato dalla censura nazionalsocialista (17). La critica del Cantimori al De Man s’incentra soprattutto sulla mancata comprensione del fascismo, nel non aver saputo comprenderne lo spirito etico e corporativo, non dissimile dalle idee dello stesso De Man. Del teorico fiammingo, ne parla poi in relazione ad Ernst Jünger (18), in quanto entrambi mettono in connessione storica liberalismo borghese e socialismo proletario. Tuttavia, per De Man, si tratta di una connessione positiva che restituisce al movimento operaio l’eredità della fase eroica della borghesia (19).

L’opuscolo Le Plan du Travail era stato pubblicato in Italia dalla Sansoni di Firenze, nel 1935, col titolo Il piano De Man e l’economia mista (20) e un’ampia introduzione di Ugo Spirito (21), il quale elogia sì l’evoluzione del socialismo che si riscontra in De Man e il suo obiettivo di superare l’aporia marxista del contrasto tra rivoluzione e riformismo (la prima inasprirebbe la reazione capitalistica, il secondo dividerebbe gli operai), ma al contempo sostiene che l’autore non abbia compreso la vera essenza del corporativismo. Questo perché l’economia mista del piano prevedeva la contraddittoria coesistenza tra libera concorrenza e pianificazione economica e la convivenza di un’economia privata e di un’economia pubblica, senza una realtà superiore che le sovrasti impedendo a una delle due di prevalere.

Tuttavia la traduzione – comprendente sia il discorso tenuto al Congresso (22), sia la risoluzione (23), sia le Tesi di Pontigny (24), elaborate sulla base del Piano – era ad opera proprio di Cantimori, che si era basato sull’edizione Labor (francofona) di Paris-Bruxelles. Nelle due pagine di note finali alla traduzione (25), Cantimori esprime poi alcune importanti precisazioni. Innanzitutto, egli ritiene che il discorso di De Man non sia generale, ma relativo al contesto belga e, per di più, trascurando il problema agrario. D’altra parte, apprezza di questo progetto l’anticapitalismo unito alla distanza dall’estremismo e all’approccio realistico, cioè volto ad agire in maniera differente a seconda della situazione.

Dove il capitalismo s’è svolto monopolisticamente, realizzare, con la nazionalizzazione, l’espropriazione degli espropriatori: dov’è ancora in via d’evolversi attraverso la concorrenza, orientare questa evoluzione, a mezzo dell’economia diretta: dove ha lasciato sussistere l’unità di proprietà e lavoro, mantenere e fortificare tale unità (26).

Cantimori vede inoltre un avvicinamento tra il socialismo planista e il cattolicesimo sociale, come sottolinea citando la critica dell’Unione Cattolica per le Scienze Sociali (27), l’incontro con R. de Decker (28), e i tre articoli comparsi sulla rivista personalista «Esprit» nel febbraio 1934.

L’interesse per questi scritti del De Man deriva soprattutto da questo: che additano il punto principale da riformare nel predominio monopolistico del capitale finanziario; che non sconfinano nel campo teorico o in quello degli estremismi radicali e inconcludenti, e non scambiano la necessaria profondità e strutturalità delle riforme con una astratta generalità o totalità di sovvertimento dell’ordinamento sociale-economico vigente nei paesi capitalistici; che rappresentano lo sforzo più serio per sintetizzare l’esigenza della libertà politica, civile, intellettuale con quella della giustizia sociale, distaccandosi nettamente dal socialismo e comunismo tradizionali; e che di conseguenza si sono mostrati atti a riunire gli elementi più arditi del movimento sociale cattolico con quelli del socialismo così rinnovato (29).

La parola chiave in questo testo è «strutturalità», che rimanda alle strutture organiche del corporativismo, il cui fine è proprio quello della giustizia sociale e della libertà politica, civile, intellettuale.


Corporativismo fascista e bolscevismo

Infine, nel pensiero e nelle opere di Delio Cantimori, analogamente a molti autori della Konservative Revolution (30), si nota un forte interesse per il bolscevismo e per l’Unione Sovietica. Per la sua formazione politica e culturale individuale, egli rifiuta la critica liberale e la critica cattolica al socialismo, troppo spesso riprese anche in ambito nazionalfascista e reazionario. Lo stesso vale sul piano geopolitico, laddove egli ammonisce a che l’Italia non svolga il ruolo di baluardo della Reazione nei confronti della Russia sovietica, a favore delle potenze capitalistiche occidentali (31). In particolare è a cura di Cantimori (32), allora a Berlino, la raccolta e la proposizione di un’antologia di testi di Stalin, Molotov (foto), Kujbysev e Grinko, tradotta poi da G. Zamboni col titolo di Bolscevismo e capitalismo, edito – con un’Avvertenza dello stesso Bottai – dalla Sansoni nel 1934 come primo volume della serie Documenti delle Pubblicazioni della Scuola di scienze corporative.

Su questo punto si è già detto, ma è importante sottolineare come questa simpatia per il bolscevismo costituisca un vero e proprio fil rouge all’interno del suo percorso politico, a partire dal «mazzinianesimo» della prima giovinezza, fino al comunismo cui approderà nell’età matura. Il distacco di Cantimori dal fascismo, e il successivo passaggio al bolscevismo, sono dovuti anzitutto alla constatazione di come il regime mussoliniano andasse perdendo, a livello di politica fattuale, quei tratti in cui lo studioso identificava i caratteri positivi del fascismo: corporativismo, rifiuto del reazionarismo e dell’anticomunismo, critica del nazionalsocialismo e anti-razzismo, eticità immanentistica e non confessionale. In particolare, per quanto riguarda il corporativismo, dopo la legge del 5 febbraio 1934, fu la forte delusione per il distacco tra la legislazione adottata e le elaborazioni dei corporativisti pisani, specie da parte di questi, i quali a loro volta furono sorvegliati dal regime.

Per quanto concerne Cantimori, la sua reazione immediata fu un distacco dalla politica attiva per rifugiarsi negli studi storici. Al tempo stesso, intraprese un percorso di avvicinamento al marxismo, grazie anche al matrimonio con la comunista internazionalista Emma Mezzomonti, che lo portò a guardare retrospettivamente all’esperienza corporativista con occhio piuttosto critico.

Questa linea di polemica – scrive – è analoga a quella che fino a qualche anno fa ha condotto il battagliero corporativismo dello Spirito e dei suoi seguaci, in nome di un soddisfacimento più completo e radicale delle esigenze che si postulavano presso gli avversari, riducendole a un comune denominatore generale, e spogliandole della loro reale concretezza storica. In questo tipo di polemica la parte più interessante è in genere quella negativa, critica, che non è volta direttamente contro l’avversario, ma contro un ‘falso scopo’ (capitalismo, ingiustizia sociale), col quale si dimostra identificarsi alla fine l’avversario che si combatte (ad es. comunismo eguale capitalismo di Stato, o eguale ingiustizia sociale). Sono tutte argomentazioni efficaci, e giuste: ma rimangono nell’astratto e nell’affermazione generale e programmatica quanto al positivo, poiché si tratta solo d’un gioco di concetti e di definizioni; quanto al negativo, esse ripetono in generale le critiche, ormai comuni, alla società contemporanea. Ma la violenza della negazione non implica sempre perentoriamente quella forza affermativa della quale vorrebbe essere indizio (33).

Il corporativismo, così come è stato recepito dalla politica fascista, si è rivelato essere dunque privo di una parte propositiva e ridotto dunque alla critica del comunismo, lasciando in ombra il capitalismo. Tuttavia, egli conserverà un ricordo essenzialmente non negativo di questo dibattito, anche in virtù del suo ruolo formativo, dal punto di vista culturale e intellettuale, all’interno del periodo fascista. Ancora nel 1955, egli sosteneva:

Per esempio, a proposito della questione della ‘corporazione proprietaria’, ricorderemmo quali erano le riviste che appoggiarono con una qualche simpatia la tendenza guidata da U. Spirito, ritrovandovi facilmente la presenza di vecchi sindacalisti; ricorderemmo la presa di posizione di distacco netto dalla posizione di Spirito, assunta dal Gentile con una brevissima nota sulla rivista degli industriali diretta dal Trevisani (il Gentile affermava che le posizioni di Spirito non si potevano identificare con l’attualismo); e ricorderemmo anche come in quelle discussioni (oltre che nei ‘littoriali’) cominciarono a formarsi molti giovani oggi attivi nella vita culturale e politica (34).

Qui egli collega le posizioni di Spirito al filone del sindacalismo nazionale (35) ovvero l’ala sansepolcrista e maggiormente rivoluzionaria del primo fascismo, contrapponendo loro invece la critica conservatrice di Gentile, che era stata espressa appunto sulla rivista di Renato Trevisani, «Politica Sociale», in un articolo dell’autunno 1932. Leggendo con attenzione questi passi, emerge, in conclusione, un giudizio critico equanime che non rinnega tanto la sua fase da fascista «di sinistra», quanto la contestualizza, senza tacere i suoi limiti ma sempre facendo riferimento al corporativismo come idea-forza e chiave del suo stesso personale rapporto di pensiero con il fascismo, nel corso di un progresso filosofico e ideale continuo.


Note

(1) D. CANTIMORI, Fascismo, rivoluzione e non reazione europea, in «Vita Nova», V (1929), pp. 405-406; ora in Politica e storia contemporanea, cit., pp. 61-64.

(2) ID., La Cultura come Problema Sociale, cit., pp. 71-76; ID., recensione a C. SCHMITT, Der Begriff des Politischen, Hamburg 1933 e a C. SCHMITT, Staat, Bewegung, Volk; Staatsgefüge und Zusammenbruch des zweiten Reiches, Hanseatische Verlagsanstalt, Hamburg 1933-34, in «Leonardo», V (1934), pp. 417-419.

(3) ID., Note sul nazionalsocialismo, in «Archivio di Studi Corporativi», V (1934), pp. 291-328; ora in Politica e storia contemporanea, cit., pp. 163-191.

(4) Cfr. l’articolo Stein auf Stein, in «Der Aktivist: Das Blatt des Berliner Studenten und Arbeiters», 15 dicembre 1934.

(5) Cfr. l’articolo Sozialismus des Herzens, ibid.

(6) ID., Note sul nazionalsocialismo, cit., p. 185.

(7) Gesetz zur Ordnung der Nationalen Arbeit, 20 gennaio 1934.

(8) C. SCHMITT, Der Begriff des Politischen, Hamburg 1933.

(9) ID., Staat, Bewegung, Volk: Die Dreigliederung der politischen Einheit e Staatsgefüge und Zusammenbruch des Zweiten Reiches. Der Sieg des Bürgers über den Soldaten, Hanseatische Verlagsanstalt, Hamburg 1933-34.

(10) D. CANTIMORI, [Recensione di C. SCHMITT, Der Begriff des Politischen, Hamburg 1933 e ID., Staat, Bewegung, Volk; Staatsgefüge und Zusammenbruch des zweiten Reiches, Hanseatische Verlagsanstalt, Hamburg 1933-34], in «Leonardo», V (1934), pp. 417-19; ora in Politica e storia contemporanea, cit., pp. 197-199.

(11) Ivi, p. 197.

(12) Ivi, p. 199.

(13) ID., La politica di Carl Schmitt, in «Studi Germanici», I (1935), pp. 471-489; ora in Politica e storia contemporanea, cit., pp. 237-252.

(14) ID., Ernst Jünger e la mistica milizia del lavoro, ibid., pp. 73-92; ora in Politica e storia contemporanea, cit., pp. 209-225.

(15) ID., Arthur Moeller van den Bruck, ibid., pp. 214-226; ora in Politica e storia contemporanea, cit., pp. 226-236.

(16) ID., [Recensione di H. DE MAN, Die sozialistiche Idee, Eugen Diederichs Verlag, Jena 1933], in «Leonardo», IV (1933), pp. 383-84; ora in Politica e storia contemporanea, cit., pp. 160-162.

(17) H. DE MAN, Die sozialistiche Idee, Eugen Diederichs, Jena 1933.

(18) Cfr. E. JÜNGER, Der Arbeiter: Herrschaft und Gestalt, Hanseatische Verlagsanstalt, Hamburg 1934.

(19) D. CANTIMORI, Ernst Jünger e la mistica milizia del lavoro, cit.

(20) U. SPIRITO, Il piano De Man e l’economia mista, Sansoni, Firenze 1935.

(21) Ivi, pp. 5-17.

(22) Ivi, pp. 21-31.

(23) Ivi, pp. 32-37.

(24) Ivi, pp. 38-40.

(25) Ivi, pp. 40-41.

(26) Ivi, p. 41.

(27) UNIONE CATTOLICA PER LE SCIENZE SOCIALI (cur.), Encicliche sociali di Leone XIII e Pio XI, Milano 1933.

(28) J. PARFAIT, Les jeunes catholiques belges et le plan De Man, in «Esprit», XXX (marzo 1935), p. 951 ss.

(29) U. SPIRITO, Il piano De Man e l’economia mista, cit., p. 40.

(30) Cfr. L. DUPEUX, Stratégie communiste et dynamique conservatrice. Essai sur les différents sens de l’expression «National-bolchévisme» en Allémagne, sous la République de Weimar (1919-1933), Librairie Honoré Champion, Paris 1976, pp. 244-363.

(31) D. CANTIMORI, [recensione di G. RITTER VON KREITNER, Altri 467 milioni di Bolscevichi?, Venezia 1933], in «Leonardo», V (1934), p. 137.

(32) Cfr. la lettera di Delio Cantimori a Federico Gentile (21 febbraio 1934), citata in L. MANGONI, Europa sotterranea, cit., p. xxxiv, n. 85.

(33) D. CANTIMORI, Politica, in «Leonardo», IX (1938), pp. 206-213; ora in Politica e storia contemporanea, cit., pp. 708-720.

(34) Cfr. la rivista diretta dal sindacalista socialista Rinaldo Rigola, «I problemi del lavoro», 1927-1940.

(35) D. CANTIMORI, [recensione di E. GARIN, Cronache di filosofia italiana, 1955], in Studi di Storia, Einaudi, Torino 1959, pp. 760-761.

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giovedì 4 novembre 2010

Delio Cantimori e il Corporativismo (1)

Introduzione

Questo scritto intende trattare in modo conciso ma sostanzialmente esauriente la questione relativa all’interesse e ai rapporti di Delio Cantimori (1904 – 1966) con il concetto di «corporativismo», a sua volta centrale nel dibattito ideologico e politico che all’interno del fascismo si sviluppò, durante l’intero arco della parabola movimentistica e di governo, dalla fondazione dei Fasci di Combattimento alla fine della Repubblica Sociale. All’apparenza una tematica ampia, si dimostra in realtà mai affrontata e trattata direttamente dallo storico romagnolo sul piano elaborativo (1), il che limita di molto il materiale storiografico disponibile per questo tipo di analisi. In più, va detto che il suo interesse fu concentrato nel primo quinquennio degli anni ’30, periodo in cui appunto fu più intenso il dibattito intorno al corporativismo. Eppure al tempo stesso il corporativismo risulta essere, come si vedrà, una questione fondamentale all’interno del percorso politico di questo autore, e che addirittura può aiutare a spiegare soddisfacentemente molte sue scelte, in particolare l’evoluzione dal socialismo di matrice mazziniana, attraverso il fascismo, fino al bolscevismo (2).

Cantimori fu molto vicino però all’ambiente pisano della Scuola di perfezionamento in scienze corporative e partecipò a quello che chiamerà il «gran momento del corporativismo» (3).  Senza dubbio, egli s’interessò della questione, studiandone le varie correnti e dimostrando di averne presenti le differenti interpretazioni scientifiche e sfumature ideologiche, «da quella del gruppo di ‘Secolo Fascista’ a quella del Pirelli» (4), «dal collettivismo accentuatissimo, per es. di ‘Critica Fascista’, all’accentuatissimo individualismo di A. Pirelli» (5).  Al tempo stesso, il corporativismo era null’affatto un mero oggetto di studio, da esaminare asetticamente, bensì una dottrina politica cui l’autore aderiva, e al cui studio si dedicava con grande passione, pur mantenendo sempre una grande onestà critica. In una lettera, scritta a Pavia il 9 marzo 1933 e indirizzata a Giovannino Gentile, egli affermava di credere al corporativismo

non come fatto ma come tendenza. Ma si può credere a un fatto? Ci credo perché non è un fatto ma un farsi. Ti dirò che ho letto con vera commozione gli articoli ultimi di Ugo Spirito, e l’avvertimento che gli è stato dato sull’Educazione Nazionale [fascista][...] Ma nonostante tutto, credo che Mussolini saprà trar fuori i giovani necessari a quest’opera, e saprà sopratutto dar la spinta motrice a tutto il ‘sistema corporativo’ e dar concretezza al generico ‘andare al popolo’ (6).

Al proposito di approfondire meglio è opportuno vedere come il corporativismo divenga in Cantimori misura di confronto politico con le altre realtà politiche ed ideologiche, anche e soprattutto nel caso di altri modelli politici e socioeconomici, oltre al fascismo, che si ponevano come alternativi rispetto al sistema capitalista e liberaldemocratico, come il bolscevismo e il nazionalsocialismo.


Il corporativismo fascista

L’interesse del giovane studioso fascista Delio Cantimori per la tematica del corporativismo è rivelato per la prima volta da uno scritto del 1930, comparso su «Vita Nova», laddove tratta del VI Congresso annuale della Federazione Internazionale delle Unioni Intellettuali, e in particolare dell’intervento di Carl Schmitt, Die europaeische Kultur in Zwischenstadien der Neutralisierung. Le corporazioni sono indicate come una sintesi di tecnica e cultura, e come la caratteristica fondamentale dello Stato fascista:

Così la organizzazione culturale delle corporazioni, dove accanto alla cultura professionale e tecnica è unita la educazione secondo la morale di ordine e disciplina che il Governo Fascista ama accentuare come propria, appare di nuovo risposta chiara e netta ai bisogni della civiltà europea, sforzo importantissimo per assimilare tutta la importanza della tecnica, alla quale le masse si volgono con desiderio ed ammirazione, ad un organismo superiore ed animato da una intensa vita morale, come è lo stato italiano (7).

Non si tratta di un intervento casuale: in quel periodo era appena stato dato nuovo slancio al corporativismo, con la nomina di Giuseppe Bottai a Ministro delle Corporazioni (12 settembre 1929) e la messa in opera da parte sua di una riforma del Consiglio Nazionale delle corporazioni (20 marzo 1930) e di un Archivio di Studi Corporativi. Cantimori non ha contatti diretti con il Ministro, ma partecipa lo stesso a questo clima, definendo il contributo di Bottai a quel congresso «l’unica relazione che abbia senso di realtà e sia confortata dalla pratica» (8), e ribadendo che il sistema corporativo costituisce il fondamento del fascismo come fenomeno d’importanza europea e di soluzione reale alla crisi dell’Europa sul piano sociale ed economico, rendendolo ben diverso dunque da movimenti e regimi di carattere nazionalista, razzista, conservatore o reazionario.

La rivoluzione corporativa fascista non ha nulla a che fare con queste malinconie […]. Il Fascismo deve rappresentare la sintesi dialettica dell’esigenze rappresentate dall’estremo rivoluzionarismo come dall’estremo reazionarismo: questa sintesi il Fascismo l’ha trovata, e di portata europea reale, e non solo propagandistica, nel sistema corporativo, per il problema sociale (9).

Questo discorso è affrontato nell’articolo di «Vita Nova», Fascismo, nazionalismi e reazioni (10), dove intende mostrare le differenze tra il fascismo italiano e i vari movimenti nazionalisti e reazionari europei, e la sua convergenza semmai proprio col bolscevismo sovietico, che dai primi è additato a nemico capitale. Questa differenza è propria già dello Stato corporativo, che è connotato come l’ordinamento dello Stato indissolubilmente legato all’ideologia fascista. Gli altri movimenti non essendo tesi alla creazione di uno Stato corporativo ma anzi essendo volti a preservare l’ordine sociale preesistente di fronte alle correnti rivoluzionarie bolsceviche, non possono essere accostati al fascismo o addirittura definiti tali.

Autorità, Ordine, Giustizia, non vogliono dire Reazione o Restaurazione; lo Stato corporativo non è uno Stato medievale né assolutistico né capitalistico, ed in esso è espressamente riconosciuta la iniziativa privata, libera. E la iniziativa individuale, per quanto, naturalmente, condizionata dallo Stato e dalla Nazione, non può essere iniziativa se non è libera, perché, ed è facilissima logica, altrimenti non sarebbe più tale. Lo Stato corporativo non è uno Stato di funzionari o d’impiegati, se non si vuol attribuire alla parola funzionario un senso tanto vasto da identificarla con la parola cittadino! (11)

La sua critica dunque riguarda innanzitutto il reazionarismo, coi suoi atteggiamenti di tipo sciovinista, razzista, populista, clericale, dai quali gli preme di prendere le dovute distanze:

Ora, tutto questo non ha, come è chiaro, nulla a che fare con il Fascismo, che non è il Comunismo e che quindi ha, nella sua fondamentale unità, grande varietà di atteggiamenti nei suoi uomini, fra i quali troviamo anche i reazionari […]. Su questo è inutile insistere: ogni fascista fedele al suo giuramento di fedeltà, e pronto a ubbidire agli ordini dei capi, può svolgere ed affermare le proprie idee e discutere quelle degli altri […]. Ora certi gruppi reazionari, specialmente quelli a carattere sciovinistico, hanno tutta l’aria di considerare il Fascismo, umanissimo, storicissimo movimento e partito, come qualcosa di provvidenzialmente loro inviato dalle loro sopraumane e soprannaturali potenze, per liberarli finalmente da quei fastidiosissimi uomini moderni che hanno ancora la perversa idea di essere uomini e non servi […]. Non c’è dunque nessun legame necessario fra i nazionalismi sciovinistici, di origine razzistica e di prassi demagogica fuori d’Italia, con le loro idee reazionarie, ed il Fascismo, con le sue finalità rivoluzionarie sul serio, con il suo Stato corporativo, con la sua opera per eliminare ogni avanzo del passato (12).

Tuttavia, allo stesso tempo, Cantimori critica fortemente anche tutta l’impostazione di pensiero antifascista che considerava fascismo e reazionarismo affini. Si può dire che questa distinzione viene da lui fatta valere, sia nei confronti di quanti vorrebbero accostare il primo al secondo per screditare il fascismo, sia nei confronti di quanti altri invece vorrebbero accostarli per nobilitare la reazione. Lo storico ravennate ribadisce invece il valore universale, moderno, rivoluzionario e progressista del fascismo.

Chiaro è invece che il Fascismo è azione e non reazione, e che la sua universalità non ha avuto nulla a che fare con Primo de Rivera, né avrà nulla a che fare con movimenti simili […]. Abbiamo già detto più volte come la vera universalità del Fascismo sta nello Stato corporativo e nella concezione generale della vita economica che sta a fondamento di esso. Ci piace terminare come abbiamo cominciato, confortando le nostre asserzioni con parole più autorevoli delle nostre.

«La nostra esperienza corporativa dà al mondo che si dibatte nella rete delle interferenze fra Stato, gruppi ed individui, norme chiare e precise sul mutuo comportamento di questi fattori. Lo Stato forte, l’organizzazione di tutti i cittadini nell’ordinamento corporativo, la ricostituita unità familiare e soprattutto una nuova morale eroica e virile, fatta di volontarismo e di spirito di solidarietà: ecco altrettanti punti che potranno sanare la crisi europea» («Critica Fascista») (13).

Ancora, in queste poche righe, il ruolo assegnato al corporativismo è centrale a tutta l’ideologia e la prassi fascista: il corporativismo non è solo un sistema economico di gestione dei mezzi di produzione ma un sistema sociale di organizzazione della società e un sistema ideologico che comprende tutta la realtà socioeconomica. Il fascismo di Delio Cantimori o è corporativo o non è; e allo stesso modo, il corporativismo non può che dare luogo al fascismo: i due concetti sono strettamente collegati. Particolarmente interessante è l’ultimo paragrafo, che individua la necessità del corporativismo proprio in risposta al caos politico del liberalismo, in cui versava l’Europa. Il fascismo corporativista si poneva in questo modo come un’alternativa non solo al bolscevismo, ma anche ai regimi liberaldemocratici e  alle dittature reazionarie.

D’altra parte, in questo senso, proprio questo tema risulta fondamentale anche per capire le motivazioni dietro alla scelta fascista di Cantimori: ovvero il lavoro di ricerca e di scommessa sul corporativismo come alternativa a una concezione reazionaria di fascismo. A questo riguardo, scrive Luisa Mangoni (14):

La constatazione del progressivo affermarsi di una concezione reazionaria del fascismo (15), trovava nell’idea di «Stato» o «società etica» una ancora possibile alternativa che gli consentiva di definirsi fascista, all’interno di una «visione politica (o etico-politica)»; erano anche queste le «ragioni storiche e filosofiche che proprio mi tengono legato, e che non vedo ancora risolvibili», di cui Cantimori scriveva a Capitini, e che lo spingevano a vivere «attivamente in politica», a studiare il dibattito sul corporativismo all’indomani del convegno di Ferrara, a proporsi di immergersi «sempre più in tali questioni» (16).

Per questo motivo, il corporativismo, pur non essendo affrontato direttamente da Cantimori, risulta un concetto fondamentale per comprendere il suo pensiero politico, che all’irrazionalismo e al romanticismo politico contrapponeva un razionalismo di matrice hegeliana neoidealista. In particolare occorre notare come, all’interno del fascismo, egli si sia confrontato con la teoria della «corporazione proprietaria» di Ugo Spirito, in generale condividendone sì la pars destruens, ovvero la «critica radicale della vecchia ‘scienza economica’» (17) per cui la sua opera risulta una polemica efficace «contro la vecchia scienza, la vecchia società, e le loro espressioni» (18), ma anche la sua pars construens,  cioè anche Cantimori credeva «nella sua impresa di darci una integrale condanna della vecchia scienza economica, [egli] l’ha accompagnata da uno sforzo veramente notevole di ricostruire teoricamente la scienza stessa» (19). Conviene ora esaminare i rapporti di Cantimori con altri modelli ideologici, sempre alla luce del modello corporativista.


Note

(1) Cfr. S. BARBERA, Dalla filosofia alla storiografia: gli inizi di Delio Cantimori: 1922-1937, in G. CAMPIONI – F. LO MORO – S. BARBERA, Sulla crisi dell’attualismo, 1981.

(2) Cfr. R. PERTICI, Mazzinianesimo, fascismo, comunismo: l’itinerario politico di Delio Cantimori (1919-1943), in «Cromohs», II (1997), pp. 1-128.

(3) D. CANTIMORI, «Cronache di politica religiosa»: I nuovi statuti dell’A.C.I., in «Civiltà Fascista», VIII (1940), pp. 705-714; ora in ID., Politica e storia contemporanea: Scritti (1927-1942), a cura di L. Mangoni, Einaudi, Torino, 1991, pp. 761-770, hic pp. 762-763.

(4) ID., [recensione di A. VOLPICELLI, Corporativismo e scienza del diritto, Sansoni, Firenze, 1934], in «Leonardo», VI (1935), pp. 9-10; ora in Politica e storia contemporanea, cit., pp. 573-576, hic p. 575.

(5) ID., Scritti sul fascismo, in «Leonardo», VI (1935), pp. 380-382; ora in Politica e storia contemporanea, cit., pp. 588-591, hic p. 588.

(6) G. BELARDELLI, Dal fascismo al comunismo: Gli scritti politici di Delio Cantimori, in «Storia contemporanea», XXIV (1993), pp. 379-403, hic pp. 383-384.

(7) D. CANTIMORI, La Cultura come Problema Sociale, in «Vita Nova», VI (1930), pp. 85-91; ora in ID., Politica e storia contemporanea, cit., pp. 71-80.

(8) Ivi, p. 71.

(9) ID., Fascismo, rivoluzione e non reazione europea, in «Vita Nova», VII (1931), pp. 759-763; ora in Politica e storia contemporanea, cit., pp. 111-118, hic p. 117.

(10) ID., Fascismo, nazionalismi e reazioni, in «Vita Nova», VII (1931), pp. 3-6; ora in Politica e storia contemporanea, cit., pp. 81-87.

(11) ID., Fascismo, nazionalismi e reazioni, cit., pp. 81-82.

(12) Ivi, pp. 83-85.

(13) Ivi, pp. 86-87.

(14) L. MANGONI, Europa sotterranea, in D. CANTIMORI, Politica e storia contemporanea, cit., pp. xiii-xlii, hic p. xxx.

(15) D. CANTIMORI, Fascismo, rivoluzione e non reazione europea, cit., e Ritorno al Medioevo e crisi di viltà, già in «Vita Nova», VIII (1932), pp. 95-97, ibid., pp. 119-123.

(16) Lettera di Delio Cantimori ad Aldo Capitini senza data (agosto o primi di settembre 1932), in G. GIANCANE, Note sulla formazione «religiosa» di Aldo Capitini: dall’amicizia con Baglietto agli «Elementi» (1932-1937), tesi, Università di Firenze, Facoltà di Lettere e Filosofia, relatore prof. Michele Ranchetti, pp. viii-x.

(17) D. CANTIMORI, [recensione di Le encicliche sociali di Leone XIII e Pio XI, in Vita e Pensiero, Milano, 1933], in «Leonardo», IV (1933), pp. 393-394, ora in Politica e storia contemporanea, cit., p. 705.

(18) ID., [recensione di A. VOLPICELLI, Corporativismo e scienza del diritto, Sansoni, Firenze, 1934], op. cit., p. 576.

(19) Ivi, p. 573.


Continua...

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