giovedì 14 ottobre 2010

Giovani e ribelli: non «tre metri sopra il fascio»



di ANTONIO RAPISARDA (in «Secolo d’Italia», 13/10/2010, pp. 8-9)


Mancava. Ne hanno scritto sui giornali, l’hanno fotografata e radiografata nei documentari. I più, all’inizio per pregiudizio o superficialità, ne hanno demonizzato nome e obiettivi. Qualcun altro, seppur in buona fede, non è andato oltre il resoconto. Mancava. Perché probabilmente solo un romanzo poteva riuscire a inquadrare davvero il “fenomeno CasaPound”. Solo il racconto, con i suoi spazi e la capacità di legare l’immaginario a una vicenda, poteva dare conto di un “corpo” che è politica, ma è soprattutto una storia corale che andava espressa pubblicamente. Era difficile rappresentare, condensare un’esperienza che ha squarciato più di un pregiudizio e ravvivato un panorama giovanile asfittico e rinchiuso in un minimalismo sempre più antisociale. Era un azzardo aprire lo sguardo dentro una realtà che si esprime con le icone di Capitan Harlock e del futurismo ma che sente di avere, semplicemente, solo il proprio destino tra le mani e nulla e nulla da farsi perdonare. È toccato a Domenico Di Tullio, che di professione fa l’avvocato e che da tale difende CasaPound, il compito. E col romanzo Nessun dolore (edito da Rizzoli, pp. 238, € 16,50) ci è riuscito. Il tentativo era complesso, perché impresa ardua doveva essere quella di raccontare l’eresia per eccellenza – un “centro sociale occupato di destra” (ma loro forse direbbero di “estremocentroalto”) – senza il conforto dei sacerdoti della Santa Inquisizione.

Il rischio maggiore però, speculare alla demonizzazione, era l’agiografia. E invece questa sorta di narrazione dei seguaci di Ezra Pound scorre nelle pagine del romanzo veloce come gli scooter che scorazzano i giovani “blocchetti” in giro per Roma. Sì, al centro di tutto ci sono loro: i figli di questa creatura che ha un po’ rivoluzionato l’estetica e lo stile di un’antropologia che ha scelto l’impegno politico a destra ma non solo. E che un po’ come tanti piccoli Enea hanno rimodellato la propria fisionomia a partire dalle macerie di un ambiente metapolitico in crisi di linguaggi e di suggestioni che non fossero la stanca ripetizione di cliché o di memorialistica degli anni Settanta (forse quelli degli zii, ormai…).

Spavaldi e sfrontati sono i protagonisti del romanzo. Maledettamente vivi. Alle prese qui con una brutta storia di strada che diventerà l’espediente narrativo attraverso il quale l’autore ci porta dentro la corazza della “tartaruga” (il simbolo di CasaPound) di carne e marmo che dal 2003 è oggetto di studio per sociologi e politologi che ancora oggi non riescono a spiegarsi come un fenomeno del genere abbia coinvolto migliaia di ragazzi nel nome della “lotta all’usura” e del rock’n roll. Be’, basta uno dei dialoghi del libro per capirlo: «Oggi non avremmo fatto la rivoluzione, ma quanto ci siamo divertiti...». Con questa frase – più che qualunque socio-analisi – si schiude un mondo animato da «fasci eretici e anarchici insofferenti», da «poeti dell’alcol e dello scavalco, campioni di arti marziali letali quanto sconosciute, esperti dell’entro a spinta, filosofi dello scusa lo dici a tua sorella». Una sorta di codice metropolitano con venature di Sun Tsu, situazionismo e citazionismo da detournement alla Rino Gaetano. O forse, più semplicemente, una vitalistica ed eterna voglia di avventura.

E tutto questo avviene nello scenario di una Roma restituita alla sua complessità. Già, nelle pagine di Di Tullio non ci stanno i quartierini bohemien per fuori sede benestanti pugliesi, calabresi o siciliani e fighette gaudenti. Ma i protagonisti solcano strade vere, quelle che raccontano di quartieri vittime della speculazione del mercato immobiliare e del degrado, così come quelli di una città orgogliosa che ha conosciuto tra le sue strade la passione vera e i cui muri sono testimonianza, lavagne incise anche dal sangue di questa temperie. Ed è qui – vuoi che sia l’Esquilino e la seduzione notturna di piazza Vittorio o le periferie dell’Eur e di Casal Bruciato – che si muovono tutti i personaggi. La vicenda è un incontro tra tre generazioni che hanno vissuto in modo diverso una certa idea dell’impegno. Ci sono i protagonisti e leader del Blocco Studentesco Flavio e Giorgio, uno figlio della borghesia «che non ride mai» di Roma nord, l’altro romano della Garbatella sfrattato dal quartiere popolare assieme alla famiglia «dai nuovi ricchi borghesi e sinistrorsi, gente che parla con la bocca a culo di gallina, si fa i bagni con l’idromassaggio e si traveste da proletario quando esce». E dall’incontro tra i due, che sono l’alfa e omega di una comunità che intende aristocrazia dello spirito e goliardia popolare come assi cartesiani, che si entra all’interno delle storie nella storia. Perché accanto all’amicizia e alle scorribande dei due c’è la cultura di strada e le cicatrici di Massimo che con i suoi trent’anni rappresenta l’emblema di quella generazione che, a cavallo degli anni Novanta, rimase vittima della transizione politica di una destra che nella fretta di diventare di governo si dimenticò delle responsabilità verso un’intera generazione. E accanto, assieme e oltre questi c’è lui, l’avvocato. Un fascista-beat, un dandy che porta con sé il disincanto del limbo e affoga la rabbia perdendosi nelle vertebre ammorbidite di una rocker. Una sorta di guardiano della soglia, un “vecchio” (appena quarantenne) che di fronte alla vicenda e all’entusiasmo di questi giovani pirati rimarrà alla fine coinvolto e da tutto questo risvegliato. Ma in fondo in questa avventura sono tutti coinvolti. Richiamati da un marcia scandita dalle note degli Zetazeroalfa – la band capitanata dal leader e mentore di CasaPound Gianluca Iannone che nel romanzo assume una fisionomia ieratica – dal sudore che si spreca urlando la propria gloria allo stadio o tra gli abbracci stremati nel ring dopo un incontro. Tutti luoghi dell’anima per questa strana fauna che ha trovato «il proprio posto nel mondo» all’interno di una comunità integrata e variegata. Dove gli “anziani” (il più grande ha trentacinque anni) tramandano ai giovani, ma anche i giovani danno molto ai grandi: ed è da ciò che si irradia quella “bellezza” che nelle pagine del romanzo irrompe ogniqualvolta salpa la ciurma.

E questa avventura si incrocia fatalmente con il girone del dolore. Che è composto dal mondo delle carceri e dei tribunali (luoghi nei quali l’autore apre una fessura non banale né autocompiaciuta). Così come dalle strade e dalle mille storie che ispirano non più canzoni disperate, ma un disperato amore per le canzoni. Ed è nel dolore, infine, che si conosce anche l’altro. Che è carne, sudore, fame, ma anche le linee candide delle donne del romanzo: che sono demoni e genitrici. Perché c’è Giulia «bella come una carica della polizia», Daniela e il coraggio di dirle addio, Martina e il suo sorriso che riempie. Ma, attenzione, qui non c’è per spazio per i “tre metri sopra al fascio”. Lo stesso amore è lacerante, quello che fa crescere nell’incontro quanto nell’abbandono e nell’impossibilità. E anche quando i ragazzi si ritrovano a ponte Milvio, vena “fascia” di Roma descritta efficacemente, lo si fa per brindare all’anima bella di Brasillach e ai vincoli che non si spezzano. Altro che lucchetti.

Un romanzo choc? Forse sì. Ma proprio per il motivo che non ti aspetti: perché chiunque alla fine della storia può riconoscere un pezzo di sé e può immedesimarsi anche in una storia di giovani “fasci”. Un romanzo generazionale – ma anche generativo – frutto di una scelta coraggiosa e riuscita anche da parte della Rizzoli, che ha investito con rara libertà su un fenomeno che fa discutere perché crea dibattito e non, come vorrebbe ancora qualcuno, solo allarme. E proprio l’episodio (vero) di chiusura diventa occasione per raccontare lo spirito con il quale questi giovani si sentono «beati nei lividi di domani». Perché questi negli scontri di piazza Navona – quelli che li hanno messi alla ribalta quando sono stati caricati da chi voleva scacciarli dalla protesta studentesca – scegliendo non l’attacco ma la difesa di un principio hanno consacrato il proprio diritto di esserci. Dinanzi all’intolleranza, hanno sofferto per affermare libertà. Per questo alla fine di tutto non resta proprio “nessun dolore”. Ma solo gioia. E vita.

Condividi

Nessun commento:

Posta un commento