La nazione serba allo scoppio della guerra civile in Jugoslavia
Prima di parlare degli avvenimenti in Kosovo dell’ultimo ventennio, è necessario contestualizzare nel quadro della ex Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia (RSFJ) la questione nazionale serba.
La RSFJ era suddivisa in sei repubbliche (ovvero Slovenia, Croazia, Serbia, Macedonia, Bosnia e Montenegro) e due province autonome (il Kosovo-Metohija e la Vojvodina), entrambe formalmente parte della Serbia.
Significative minoranze serbe esistevano in tutte le repubbliche, in particolare in Croazia (dove il 15% della popolazione era di etnia serba e viveva nella Kraijna, una regione dove costituivano il 90% degli abitanti), in Bosnia (35% della popolazione) ed in Montenegro (40%).
Per cui, seppure diviso tra le diverse repubbliche, il popolo serbo trovava nella Jugoslavia il quadro nel quale poteva vivere mantenendo la propria unità.
D’altra parte, le repubbliche costitutive erano entità che solo in parte rispondevano a bisogni storici ed etnici: basta guardare al primo Regno di Serbia, alle banovine (province) del Regno di Jugoslavia nonché agli Stati indipendenti creati durante l’occupazione delle truppe dell’Asse per vedere confini totalmente differenti da quelli disegnati poi nel 1945 con la fondazione della Jugoslavia socialista. La costituzione del 1974 dava alle repubbliche la facoltà di secedere (seppure non-unilateralmente) dalla federazione; stabilendo per ognuna quali ne fossero i narod (popoli) costituenti: i serbi lo erano per Croazia, Serbia, Bosnia e Montenegro, risultando la popolazione più numerosa all’interno della federazione. Gli albanesi, invece, godevano dello status di minoranza in Serbia e Macedonia, che garantiva loro autonomie amministrative, linguistiche e religiose. Questa costituzione garantiva un fragile equilibrio tra le varie etnie, in particolare cercando di limitare il predominio demografico dei serbi (“spezzettati” tra province autonome e quattro repubbliche) per evitare un’eventuale sottomissione ad essi delle altre nazionalità.
Lo scoppio della guerra in Jugoslavia
Nel 1991 vengono indette le prime libere elezioni (dal 1945) in tutta la Jugoslavia. Mentre Milošević viene confermato alla guida della Serbia, con il 65% dei voti raccolti dal suo Partito Socialista di Serbia (SPS), nelle altre repubbliche prevalgono formazioni politiche di orientamento nazionalista e separatista.
Nel giugno 1991 Slovenia e Croazia dichiarano unilateralmente l’indipendenza dalla RFSJ: è lo scoppio della guerra civile in Jugoslavia.
A questo punto è necessario fare alcune osservazioni sul ruolo della comunità internazionale, in gran parte responsabile dei tragici eventi successivi. Infatti l’UE, affrettandosi su spinta tedesca a riconoscere l’indipendenza delle due repubbliche (prevenendo in questo modo qualsiasi forma di negoziato e di compromesso tra di esse ed il resto della federazione) e considerando intangibili i confini amministrativi delle due repubbliche separatiste (non concedendo diritto all’autodeterminazione ai serbi di Croazia, che erano invece popolo costituente secondo la costituzione) interferì gravemente in questioni interne di sovranità Jugoslava.
Questo senza menzionare il supporto militare dato ai separatisti croati (ai quali i tedeschi freschi di Wiedervereinigung vendettero buona parte dell’arsenale militare della ex-DDR) e agli incentivi economici garantiti dagli Stati dell’Unione alle due repubbliche (che ringrazieranno svendendo buona parte del proprio patrimonio pubblico ai partner europei).
In seguito all’indipendenza unilaterale, gli oltre 400 mila serbi di Croazia diedero vita alla “Republika Srpska Kraijna” (RSK, 1991-1995), la cui indipendenza formale venne riconosciuta solo dalla Federazione Jugoslava (ovvero l’unione delle due repubbliche di Serbia e Montenegro), su di un territorio nel quale i serbi costituivano oltre il 90% della popolazione.
Pochi mesi dopo, in seguito al referendum sull’indipendenza della Bosnia (passato con i soli voti dei croati e dei musulmani) i serbi della regione fondano la “Republika Srpska”, un’altra entità autonoma dove essi costituiscono la stragrande maggioranza degli abitanti. Ancora una volta, la comunità internazionale interviene irresponsabilmente, impedendo la spartizione del territorio e dichiarando intangibili i confini della Bosnia.
Particolarmente negativo fu il ruolo dell’allora ambasciatore USA a Belgrado, Warren Zimmermann10, che assicurò supporto incondizionato al leader musulmano (e presidente di Bosnia) Alija Izetbegović, inducendolo ad abbandonare le trattative sulla cantonizzazione della regione (il cosiddetto piano Cutileiro) dando di fatto il via alla guerra civile bosniaca nella primavera del 1992.
In sostanza, ben lungi dal voler sottomettere e dominare gli altri popoli balcanici, i serbi hanno combattuto per mantenere la loro unità e il loro diritto all’autodeterminazione, sancito (sulla carta) sia dalle convenzioni internazionali che dalla costituzione jugoslava. Dipinti come criminali e principali fautori della pulizia etnica, in realtà, nel corso dei tre anni di guerra nella ex-Jugoslavia i serbi verranno cacciati dalla Kraijna croata (300 mila profughi e migliaia di morti) ed espulsi dalle maggiori città bosniache come Sarajevo (100 mila esuli) e Mostar (25 mila) con l’esplicito supporto di USA e UE11.
Inoltre la Serbia, “colpevole” durante la guerra di prestare aiuto ai serbi di Bosnia e Croazia, venne sottoposta ad un durissimo embargo protrattosi di fatto fino al 200012, con conseguenze disastrose per l’economia (PIL più che dimezzato nel giro di pochi anni, disoccupazione alle stelle) e la società (criminalità dilagante, centinaia di migliaia di profughi da sistemare ed isolamento internazionale)13. Ma il peggio doveva ancora arrivare.
Verso la guerra in Kosovo
Sullo sfondo delle guerre balcaniche, Milošević riesce comunque a consolidare il suo potere, vincendo nel 1997 le elezioni presidenziali della federazione Jugoslava (composta all’epoca da Serbia e Montenegro), dopo aver ricoperto per due mandati (‘80-‘92 e ‘92-‘97) il ruolo di presidente della Repubblica di Serbia14.
Nel 1996 intanto in Albania si verifica il crollo improvviso del sistema finanziario “piramidale”, cosa che per diversi mesi getta il paese nel caos: approfittando della situazione fuori controllo, gli arsenali delle caserme vengono svuotati per essere poi riversati dalle organizzazioni criminali in Kosovo e nei traffici di internazionali (si conta che più di 700 mila armi leggere “scomparirono” nel corso dell’anno).
È proprio in questo periodo che cominciò ad affermarsi l’Uçk (Ushtria çlirimatare e Kosoves – Esercito di Liberazione del Kosovo): una formazione paramilitare, di ideologia marxista-enverista, auto-finanziata col traffico di armi e di droga, formatasi con l’obiettivo di rendere il Kosovo indipendente ed etnicamente puro.
Se comunque nel 1996 e nel 1997 si registra un numero relativamente limitato (31 e 54) di attentati aventi come obiettivi serbi, albanesi “collaborazionisti” ed altre minoranze etniche, nel 1998 la guerriglia si fa sempre più intensa. In totale, alla fine dell’anno l’Uçk avrà effettuato ben 1885 attacchi terroristici, 1129 dei quali diretti contro la polizia e 756 contro i civili, causando 115 morti tra i primi e 173 morti tra i secondi. Inoltre, solo nel 1998 verranno rapite 293 persone: 174 di loro verranno uccisi e torturati, mentre gli altri saranno liberati o riusciranno a fuggire.
È alla luce di queste cifre enormi (rapportate ad una provincia con un milione e mezzo di abitanti) che va visto il successivo ed inevitabile intervento dell’esercito serbo: le intenzioni “genocide” millantate dalla stampa mondiale appartenevano ancora una volta alla fantasia.
Oltretutto, fino all’estate del 1998 (quando la politica occidentale, come al solito guidata dagli interessi USA, subì un’inversione di rotta) nessuno mise in discussione il diritto della Serbia a difendere i propri cittadini sul proprio territorio: lo stesso dipartimento di Stato americano classificava l’Uçk come una “formazione terrorista”, ed anche l’allora premier albanese Fatos Nano dichiarò di non volersi immischiare nella questione (da lui ritenuta materia di sovranità serba) e non sostenere i propri connazionali dell’Uçk15.
In breve tempo però, in un’escalation di allarmismo e cifre fantastiche (sui giornali statunitensi nell’inverno del 1998 si parlava di centinaia di migliaia di morti albanesi) cominciano a piovere gli ultimatum della comunità internazionale.
Milošević permise quindi all’OSCE ed agli USA di inviare senza restrizioni osservatori per verificare la legittimità delle proprie azioni in Kosovo, credendo (ingenuamente) che fossero interessati alla protezione dei civili della provincia.
In realtà, il gruppo di contatto americano guidato da Richard Holbrooke si occupò soprattutto di armare e sostenere la guerriglia armata dei narcotrafficanti dell’Uçk mentre, nella missione dell’OSCE, si trovavano numerosi militari (tra cui il generale William Walker) il cui ruolo era per lo più di stabilire obiettivi militari e civili dell’aggressione occidentale prossima ventura. Mancava solamente il casus belli per dare il via ai bombardamenti.
Continua...
Note
(10) Guarda caso, oggi ambasciatore in un altro paese “ribelle” in odore di disintegrazione, la Bolivia di Evo Morales.
(11) Per esempio l’operazione Oluja (tempesta) – che nell’agosto 1995 “liberò” la Kraijna dalla popolazione serba che vi risiedeva da oltre settecento anni – fu eseguita con l’assenso dell’allora presidente USA Clinton, che autorizzò diverse aziende americane specializzate nella consulenza militare ad aiutare i croati nella pianificazione ed esecuzione dell’attacco.
(12) Ovviamente per la Croazia, che nello stesso periodo inviava truppe ed armamenti ai croati di Bosnia, così come per l’Arabia Saudita (che armava i musulmani bosniaci) l’embargo non venne neanche lontanamente ipotizzato.
(13) Ricordiamo qui che la Jugoslavia nel 1990, pur essendo un paese socialista monopartitico, vantava un reddito medio pro capite pari a quello della Spagna dello stesso periodo, la piena occupazione, un ottimo livello di istruzione e sanità (entambe universali e completamente gratuite), nonché, a differenza dei paesi del blocco sovietico, una totale apertura delle proprie frontiere in ingresso ed uscita.
(14) L’ “Hitler dei Balcani” godeva nonostante tutto di un largo consenso dovuto alla strenua difesa dello stato sociale (sebbene la crisi economica portasse ad un crollo generalizzato dei salari; mense operaie, sanità ed istruzione continuavano ad essere garantite a tutti) e dell’unità nazionale serba.
(15) Le ragioni di tale inversione USA (controllo dei narcotraffici – come accade in Colombia, Nicaragua ed Afghanistan, controllo energetico, sottomissione di un’area altrimenti indipendente) non verranno qui discusse in dettaglio.
Figure
1. La composizione etnica della Jugoslavia (1991).
2. La RSK (in rosso).
3. La Republika Srpska di Bosnia.
4. Holbrooke assieme alle milizie UCK nel 1998.
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