«Oggi il nome democrazia è rimasto alle usurocrazie, o alle “daneistocrazie”, se preferite una parola accademicamente corretta, ma forse meno comprensibile, che significa: dominio dei prestatori di denaro»
(Ezra Pound)
Un importante fattore che promuove il potere politico dello Stato liberale, tipico delle odierne democrazie, è stato l’avvento di un’economia di mercato connessa ad un modo di produzione capitalistico sotto un principio economico liberista. Quando si parla di liberismo e capitalismo, si definiscono due teorie economiche ben distinte, ma sicuramente concilianti nel mondo occidentale di oggi. Il liberismo, teorizzato dal celeberrimo Adam Smith (1723 – 1790, in foto) alla fine del Settecento, è il principio del libero scambio delle merci che afferma il valore dell’iniziativa privata opponendosi ad ogni intervento statale, mentre il capitalismo, in senso stretto, indica esclusivamente un sistema economico e sociale nel quale i mezzi di produzione appartengono a coloro che hanno investito i capitali. Capiamo quindi perché queste teorie economiche non solo possano convivere, ma siano per loro stessa natura, espressione di un’unica concezione del sistema economico.
L’economia di mercato si basa su un libero incontro tra domanda ed offerta di uno specifico bene; nel mercato gli interessi dell’offerente e dell’acquirente sono contrastanti (uno tende ad alzare il prezzo per il proprio guadagno, mentre l’altro desidera comprare ad un prezzo più basso possibile). Questo tipo di economia si basa sul massimo decentramento, visto che il calcolo economico dei singoli offerenti e venditori è il solo elemento che determina il prezzo di ciascuna transizione e, di conseguenza, l’equilibrio generale è la risultante di un enorme numero di contratti conclusi tra i singoli individui.
Lo Stato assoluto contrastava questo tipo di economia. Oggi, invece, va sottolineata l’assenza di unitarietà e coerenza delle leggi vigenti in ogni Stato o Comunità liberale. Sul campo più propriamente economico, l’idea capitalista rende disponibili per gli investimenti dei privati i fattori produttivi, ossia terre e capitali, evitando che lo Stato li assorba per il suo funzionamento sottraendoli al mercato. Pertanto, le nuove modalità di produzione della ricchezza e l’esigenza di garanzia di libertà contro tentazioni assolutistiche, condussero all’affermazione di una “società civile” distinta e separata dallo Stato. Lo Stato assoluto rendeva la società oggetto di gestione politica, invece lo Stato liberale riconosce e garantisce la capacità della società civile e del mercato di auto-gestirsi e sviluppare autonomamente i propri interessi.
Attualmente, l’indebolimento del controllo dello Stato sul proprio territorio è anche da collegare all’affermazione di quella che viene chiamata globalizzazione, ovvero un mercato internazionale in cui i fattori produttivi si spostano con estrema facilità da un Paese all’altro. Dalla globalizzazione dell’economia discendono varie conseguenze. Prima di tutto, le risorse più importanti, e cioè il capitale finanziario, le informazioni e le conoscenze, che per loro natura non sono legate al territorio, si spostano da uno Stato all’altro alla ricerca di luoghi più convenienti in cui posizionarsi, sfuggendo quasi totalmente al controllo dei poteri pubblici. In secondo luogo, gli Stati sono sempre più influenzati da decisioni che vengono prese fuori dai loro confini, ma che al loro interno hanno considerevoli ripercussioni. Si prenda ad esempio la decisione di grandi investitori di realizzare vendite massicce dei titoli del debito pubblico di un dato Stato, che, mettendone in crisi la liquidità, determinano un rialzo di tassi di interesse e il conseguente aumento del debito dello Stato. Pensiamo anche alle conseguenze sul livello dei prezzi e perciò sul tasso di inflazione, delle decisioni prese dai Paesi produttori di petrolio o da grandi gruppi multinazionali. Per ultimo, si realizza una competizione tra Stati per attrarre imprese e capitali e, in tal modo, per aumentare la ricchezza che esiste e si produce nel loro territorio.
Tutto ciò significa che gli Stati si trovano davanti ad un inevitabile bivio: chiudere le proprie frontiere agli scambi con l’esterno, rischiando impoverimento o tensioni politiche con altri Paesi, oppure garantire la piena libertà di movimento di capitali, di beni e servizi, accettando così di conformarsi alla logica del mercato globale ed alla competizione tra aree territoriali. L’adesione alla seconda alternativa porta una certa riduzione dell’area delle scelte politiche consentite allo Stato.
Lo Stato è formalmente libero di adottare gli indirizzi politici che ritiene più opportuni, essendo in “democrazia”, ma sostanzialmente è costretto a sottostare al giudizio del mercato e, quindi, a seguire indirizzi politici compatibili con le esigenze della competizione internazionale. Concludendo, ve la sentite ancora di parlare di “democrazia” quando lo Stato (“governato dal popolo”) non ha piena sovranità sul proprio territorio visti i condizionamenti del mercato estero?
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