«Il mondo moderno viene partorito nel fiume di sangue del Terrore rivoluzionario»
di Francesco Polacchi
Da due secoli gli storici si interrogano sulle dinamiche e sulle conseguenze che i fatti determinanti lo scoppio e il prosieguo della Rivoluzione Francese hanno portato nella società contemporanea. Questo è un periodo in cui le persone, e per primi proprio gli storici, nutrono un profondo bisogno di categorizzare gli eventi, schematizzarli in modo arbitrario per renderli convenzionali al proprio fine. Alessandro Manzoni, in tempi non sospetti, scrisse di Napoleone Bonaparte: «Ei fu». Ebbene io dico: «La Rivoluzione Francese fu». È un fatto. Non ho voglia di tifare. Essa, al tempo, fu accolta come uno scandalo. Oggi bisogna riconoscere che è stato un vero evento-spartiacque. Cioè è stato un qualcosa che ha creato un prima e un dopo. Qualcosa che, a torto o a ragione, non può essere dimenticato. Essa è stata presa a modello, è stata considerata la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra.
È considerato l’evento che conclude la Storia Moderna e che apre la Storia Contemporanea. 1789 signore e signori. 14 luglio 1789. La cosa curiosa è che questa storia contemporanea non è ancora terminata, come se due secoli fa ci fossero state le stesse condizioni di vita, lo stesso modo di rapportarsi, di comunicare o le stesse barriere da infrangere. Come se l’uomo non fosse andato nello spazio (sulla Luna!?!!?!), come se non ci fosse stata la Grande guerra europea (detta anche I guerra mondiale) o la Guerra mondiale (detta anche II), come se Hiroshima e Nagasaki non rappresentino un altro punto di arrivo-inizio per un nuovo ciclo storico.
Tra i maggiori promotori di questa visione della storia c’è lo storico marxista Hobsbawm (in foto) che partorisce l’idea di un “Lungo ‘800”, nascente dalla Rivoluzione Francese che terminerebbe nel 1917 con la Rivoluzione Russa, dalla quale partirebbe il “secolo breve”, che si concluderebbe a sua volta con la caduta del muro di Berlino nel 1989. Egli parte, come Marx, dalle considerazioni sulla lotta di classe che sarebbe avvenuta tra la nascente borghesia e la sclerotica classe dominante composta dai due “stati” della nobiltà e del clero. Una borghesia alfiere della democrazia e delle idee di liberté, egualité, fraternité. Una borghesia avanguardia di una rivoluzione popolare.
I fatti storici, se letti attentamente, ci mostrano immediatamente una contraddizione in termini.
Attenzione:
1) la popolazione francese negli anni ’80 del ‘700 aveva raggiunto quota 28 milioni di abitanti;
2) il ‘700 era stato un secolo pieno di crisi agricole e il fabbisogno alimentare non sempre era soddisfatto;
3) l’85% della popolazione viveva nelle campagne occupandosi principalmente del settore agricolo e/o dell’allevamento;
4) circa il 2% della popolazione era di rango elevato, cioè clero o nobiltà.
Calcolando che la percentuale restante non per forza deve essere considerata appartenente alla borghesia, se non in senso lato, e che comunque non tutti i suoi componenti presero parte alla rivoluzione, ma anzi qualcuno addirittura l’avversò, le considerazioni sono tre: o non è stata una rivoluzione borghese, o quest’ultima deve essere circoscritta a uno scontro tra minoranze, oppure ci sono state più rivoluzioni all’interno della stessa.
Allora la prima domanda è: che cos’era la borghesia in Francia in quegli anni?
Letteralmente era la classe che anticamente viveva nel borgo, fuori dalle mura cittadine. Era legata principalmente al commercio e all’artigianato ma anche alle scienze e alla medicina. Alcuni membri di questa classe, cioè coloro che comprando grandi quantità di prodotti e rivendendoli al dettaglio guadagnavano un surplus che li portava ad arricchirsi, furono tra i primi accumulatori di capitale. Ciò ha reso questa classe molto mobile e attiva, il che ha portato molti di loro nel tempo a rientrare in città come famiglie ricche, mentre adesso, all’epoca della rivoluzione, tendevano a riuscire dai centri abitati per comprare tenute agricole. Tenute agricole che in gran parte appartenevano alla mano morta del clero e della nobiltà (circa il 60%) e che per il restante 40% era quasi tutto ad usufrutto delle comunità di villaggio. Non esistevano ancora le enclosures britanniche. Cioè non esistevano le recinzioni in quanto non esisteva ancora quella visione della vita legata esclusivamente al profitto.
All’interno delle città, dove altri borghesi si affacciavano, esisteva ancora il millenario sistema corporativo che da sempre aveva creato una solidarietà tra coloro che professavano lo stesso mestiere impedendo la competitività a favore di una regolarità del commercio. Cioè il commercio come interesse di tutti e non per il profitto del singolo.
Questa la borghesia.
Il popolo rurale in genere non è mai stato al centro delle ribalte ideali. Nel XVIII secolo, come detto, la popolazione era aumentata del 40%. Le razioni di cibo no. C’erano state carestie, epidemie e siccità che avevano reso insofferenti gli abitanti. Molti di essi non sapevano neanche cosa fosse Parigi, figuriamoci se avessero saputo leggere. L’analfabetismo era diffusissimo. E poi amavano il loro Re. Il Re era pur sempre il Re. Era il detentore del potere divino. Ma adesso avevano fame e al diavolo tutto quanto, dovevano sfamare la loro famiglia.
È da questo punto di osservazione che lo storico francese Michelet definì questa la “rivoluzione della miseria”.
La realtà è, però, più complessa. Per tutto il secolo c’era stata una propensione di una minoranza di uomini nell’indagare su alcuni aspetti della cultura, approfondendo la visione razionalista derivata dai filosofi del secolo precedente e resa più radicale dal senso d’ingiustizia che essi provavano nei confronti dei torti subiti dagli intellettuali del tempo, da parte degli organi di censura che rispondevano in modo particolare ai culti confessionali. Temi fondanti divennero quindi il rapporto tra Stato e religione, le condizioni sociali, la gestione del potere e i rapporti di mercato. In sintesi estrema questo era l’Illuminismo. L’Età dei Lumi. La Ragione innalzata al livello di un dio e la ricerca di una presa di coscienza degli individui che andasse oltre il mero bisogno di sopravvivenza, e che si liberasse dal dogmatismo religioso. Fondamentalmente laici essi credevano nella formazione di Stati che fossero guidati da re coadiuvati da filosofi.
In conclusione c’era il re. Lui e i suoi accoliti. Erede di un potere forte e consolidato come quello che gli avevano trasmesso i suoi avi fin da Luigi XIV, Luigi XVI era invece un inetto più propenso al gioco della pallacorda nella reggia di Versailles che non alla guida del paese. La nobiltà era invece divisa. La maggior parte era gelosa dei propri privilegi, mentre altri si fecero attenti alle questioni promosse dal “terzo stato”. Numerosi erano stati coloro che avevano sposato le tesi illuministe. Quando furono riconvocati per la prima volta gli “Stati generali” (dal 1614) nel maggio dell’89 essi si schierarono a difesa delle rimostranze di quest’ultimi. E quando il 9 luglio il terzo stato si rinchiuse nella Sala della Pallacorda molti nobili e qualche prelato si unirono a loro.
Fu questo l’inizio.
Luigi XVI fece circondare Parigi dalle guardie regie e il popolo scoppiò in una rivolta dagli esiti ben noti. Il 14 luglio una folla in preda al caos assaltò la Bastiglia, oggi luogo-simbolo della rivoluzione, che non era praticamente protetta da nessuno. Di qui nascono le varie rivoluzioni all’interno della stessa rivoluzione. Ci fu quella “istituzionale”, in quanto fu immediatamente proclamata la commune (governo municipale). Ci fu quella “cittadina”, ossia quella dei parigini che misero a ferro e fuoco la città e combatterono contro le guardie regie e ci fu, infine, quella “nazionale” (sopra detta “della miseria”) da parte di una gran parte dei Francesi che assaltarono castelli e conventi in tutta la Francia ritenuti simbolo dell’oppressione.
Punto di svolta.
Luigi XVI si vide costretto a riconoscere la “Comune” accettandone la coccarda tricolore, ritirando le truppe e permettendo la formazione della “guardia nazionale”. Poco dopo l’Assemblea Nazionale dichiarerà finiti i privilegi e gli oneri feudali, e vennero soppressi i titoli nobiliari e i corpi privilegiati. Si parla di feudalesimo in questo passaggio. Con gli occhi di oggi è facile recepire che fu un passo simbolico e non di natura pratica, in quanto – come afferma Cobban – non si può più parlare propriamente di “feudalità” poiché già all’epoca di Luigi XIV vi era stato un forte accentramento del potere che ne aveva reso ridicolo l’utilizzo del termine.
Ma è sicuramente il 26 agosto del 1789 il momento clou della rivoluzione. L’Assemblea proclama infatti la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Essa individuò nella separazione dei poteri la condicio sine qua non di uno Stato costituzionale. Sottolineò che tutti gli uomini godono di eguali diritti e dell’uguaglianza davanti alla legge. I primi articoli parlano invece della libertà personale, sacra e inalienabile, limitata soltanto dalla legge in quanto “espressione della volontà generale”. Si afferma la libertà d’opinione, di parola e di stampa e la già riconosciuta libertà religiosa. Ma soprattutto viene riconosciuta la proprietà privata “sacra e inviolabile”.
Con questo atto risulta netta la forbice che si sta aprendo tra le varie rivoluzioni. Essa continuerà ad allargarsi fin quando divenne palese con la Costituzione del 1791. Infatti alla società degli ordini ne subentrò una che faceva ricorso sistematicamente alle elezioni, ma che si fondò sulla differenza di classe socio-economica. Gli elettori furono divisi in attivi e passivi a seconda del censo. Solo gli attivi, che erano circa il 60% del totale, potevano votare 50.000 elettori al secondo grado di elezione. Questi ultimi poi dovevano votare un’Assemblea Legislativa alla quale comunque accedevano solo notabili e ricchi possidenti, in quanto per essere eletti bisognava pagare una tassa cospicua. Ecco qui. Il gioco era fatto. La parte della borghesia più riottosa aveva ottenuto ciò che voleva. Essa si arrogava determinati diritti per sé ma non per tutti, e il potere, che prima era in mano del re più “altri pochi”, adesso era gestito direttamente da una piccola parte di una classe divenuta ormai potente.
Dal punto di vista economico prevalse l’idea liberista (il laissez-faire) e furono abolite tutte le corporazioni al punto di impedire associazioni di imprenditori, lavoratori e gli scioperi: democrazia? Il mercato aveva vinto. È un passaggio molto più complesso di come viene considerato: si passa dal concetto di comunità a quello di società, ossia può nascere un’unione d’intenti tra più persone solo in virtù di un interesse.
Sulla scia delle idee illuministe il re non fu destituito del tutto. Si propendeva per un dispotismo illuminato alla Voltaire. Non c’era ancora l’idea di governare in modo autonomo. Perfino quando il re scappò alla volta del Belgio, egli fu perdonato e ricondotto a Parigi venendo dichiarato rapito.
Nel frattempo i neonati partiti o clubs si organizzavano su tutto il territorio nazionale, le città si federavano e la Guardia Nazionale cominciava ad avere sempre più seguito. Nell’aprile del 1792 arrivò la guerra. La Francia dichiarò guerra. E la dichiarò all’Austria che fu difesa da Prussia e Piemonte.
All’inizio si temette una capitolazione a causa delle gravi sconfitte e del probabile tradimento di alcune truppe regie, ma poi, quando fu chiamato l’allarme per la “Patria in pericolo”, arrivarono da tutta la nazione le forze popolari sotto l’insegna della Guardia Nazionale. Esse, incolte e senza eccessiva consapevolezza a riguardo dello svolgersi degli avvenimenti, seppero rispondere agli eserciti stranieri con grande coraggio e valore. Guidati da Danton (in foto), il 20 settembre del 1792 i Francesi bloccarono le truppe reazionarie a Valmy impedendo la fine della rivoluzione. In questa piccola cittadina si creò un sodalizio. La massa informe ora combatteva per una nazione. Cosa dobbiamo guardare in questi uomini dalla poca cultura se non lo spirito dal quale erano mossi? La massa si stava trasformando in popolo. Non questione di classe, non i “proletari sanculotti”, ma i figli di una stessa nazione.
Il giorno successivo nacque la Convenzione che proclamò la Repubblica una e indivisibile.
Il re è nudo.
Al parlamento la lotta è aspra tra la Gironda e la Montagna. I primi “decentratori”, conservatori e moderati, a tal punto da voler limitare le forze popolari, non riuscirono a mettere in stato di accusa i principali promotori della Montagna, i Giacobini, guidati ormai da Maximilien Robespierre (in foto), che volevano la ridistribuzione di terre tra i contadini e che spingevano per far giustiziare il re. Nel frattempo la guerra continuava, e dopo varie battaglie che non decretarono un vincitore, il generale Demourriez si arrese agli Austriaci.
Conseguenze drammatiche furono quelle in Vandea, dove gli abitanti si ribellarono alla leva obbligatoria stabilita dalla Convenzione e si costituirono in un esercito che fu duramente represso dalle forze democratiche. Non era una loro guerra. Il loro tradizionale modo di vivere era stato stravolto. Si opponevano a rendere servizio alla rivoluzione che aveva imposto la divisione della regione, la divisione dei campi e l’abolizione dei diritti di pascolo nelle terre comuni, aveva inasprito le tasse e – più in generale – aveva distrutto la loro autonomia di amministrazione. Furono uccise circa 300.000 persone: a questo epilogo, gli abitanti che si rifiutavano di essere chiamati “cittadini” si diedero alla guerriglia, che fu chiusa nel sangue l’anno successivo con l’invio di un forte contingente agli ordini di Tourrez.
Di qui ebbe vita il Terrore giacobino e il successivo Terrore bianco, con l’approdo prima al Direttorio e poi alla salita al potere del generale Napoleone Bonaparte.
Con ciò non voglio chiudere la storia della rivoluzione… sarebbe interessantissimo parlarne ancora. Ma questo ciclo di articoli verte su un concetto specifico: la democrazia.
Dunque se democrazia significa effettivamente governo del popolo, per quanto riguarda i fatti storici, così non fu. Ci fu invece una minoranza organizzata, che si riuniva in clubs o in logge massoniche, che riuscì a “cavalcare” una sollevazione popolare che nella storia non ha avuto pari. Le dinamiche di gestione, di fatto, non cambiarono. I rappresentanti dei cittadini si trovarono a essere molto distanti dalle vere esigenze del popolo. Alcuni, soprattutto quelli appartenenti alla Gironda, avrebbero voluto chiudere la rivoluzione nel 1792 consolidando le conquiste fatte fino a quel momento. Fu in questo arco di tempo che nacque l’incapacità dei rivoluzionari di mantenere salda la situazione. Il Terrore fu una reazione violenta di uomini mal avvezzi al comando e alla gestione del potere stesso, ma che, nel loro essere radicali, volevano che le conquiste – per l’appunto – divenissero per tutti. Fu il potere a logorare quegli uomini.
In conclusione la rivoluzione francese fu una bomba a orologeria. Fu una krisis che – come ha ricordato Adriano Scianca sullo scorso numero di “Occidentale” – significa “pericolo” e “opportunità” al tempo stesso. La crisi l’abbiamo analizzata. L’opportunità vive nell’idea che l’Uomo, l’Individuo europeo aveva varcato di fatto il nuovo Rubicone. Al vetusto potere, conservato nelle mani degli eredi per sangue e non per merito, di regni considerati alla stregua di patrimoni personali, era stato dato un colpo fatale. Mancava però la consapevolezza di tutti. I concetti base di libertà, uguaglianza e fratellanza rimasero superficiali e mai veramente assimilati; ciò è normale proprio perché si parla di grandi numeri e di un nemico da combattere e sconfiggere il prima possibile. È per questo che l’800 rappresenterà un grande magazzino di idee durante il quale nuove avanguardie culturali, semplici filosofi o esponenti politici ricominceranno a indagare sulla natura e sul senso della vita in un’introspezione più profonda e romantica. L’esistenza dell’uomo sarà posta al centro dei dibattiti culturali e il concetto di libertà non verrà lasciato al mero bisogno pratico e quotidiano.
Dalla rivoluzione francese partirà quella guerra tra differenti visioni del mondo e dell’esistenza tra gli uomini. Essa durò circa un secolo e mezzo e si concluse con la capitolazione del Giappone nel 1945. Quella successiva è un’altra storia. Nella rivoluzione francese c’erano infatti le influenze liberali e i germi del socialismo che si divise tra il comunismo e il proto-fascismo e che avrà maturazione nel XX secolo. Questo scontro a tre non fu totalizzante da principio, in quanto, fino alla Grande Guerra, l’umanità si continuò ad affrontare per motivi di ostentazione di potenza e per conquiste economiche su base estensiva. Alla fine della Grande Guerra, però, queste tre differenti visioni del mondo erano ormai mature per uno scontro – appunto – totalizzante.
Articolo magistrale per consapevolezza e lungimiranza. Una piacevole conferma.
RispondiEliminahttp://www.vivamafarka.com/forum/index.php?topic=56956.0
RispondiEliminaUscirà sul prossimo numero del Foglio di Miro Renzaglia un articolo di congratulazioni per il pezzo di F. Polacchi, e per l'interessante blog augustomoviomento, con accenni di ulteriore approfondimenti sul tema della Rivoluzione Francese e della continuità storica dentro la post-modernità del pensiero dell' 800'.
Visto che tornare sul passato serve, serve sempre, serve e come, soprattutto quando si vuole condizionare ed ipotecare le scelte per il futuro ...
Bisogna saper oggi coniugare e pensare " unitariamente " quello che fino a ieri veniva pensato contraddittoriamente ...
Un saluto
Eresia Maxima