giovedì 24 febbraio 2011

In picchiata su Linate: gli ultimi minuti di vita di Enrico Mattei

Romanzo breve di Filippo Burla




«Una ventina di anni fa ero un buon cacciatore e andavo molto spesso a caccia. Avevo due cani, un bracco tedesco e un setter e, cominciando all'alba e finendo a sera, su e giù per i canaloni, i cani erano stanchissimi. Ritornando a casa dai contadini, la prima cosa che facevamo era da dare da mangiare ai cani e gli veniva dato un catino di zuppa, che forse bastava per cinque. Una volta vidi entrare un piccolo gattino, così magro, affamato, debole. Aveva una gran paura, e si avvicinò piano piano. Guardò ancora i cani, fece un miagolio e appoggiò una zampina al bordo del catino. Il bracco tedesco gli dette un colpo lanciando il gattino a tre o quattro metri, con la spina dorsale rotta. Questo episodio mi fece molta impressione. Ecco, noi siamo stati il gattino, per i primi anni…»

Enrico Mattei, 23 marzo 1961


a Valeria


«Starò via solo oggi, entro sera sarò a casa». Margherita lo fissò. Qualcosa in quelle parole non la convinceva. Non era la prima volta da quando, sposato l’uomo della sua vita, era preoccupata e allo stesso tempo impotente, come il suo sguardo. Questa volta era diverso, un presentimento cupo come mai aveva sentito. Senza i figli che mai avrebbe potuto avere, la perdita del marito avrebbe significato la fine della sua vita. Una vita sempre sulla corda, da quando giovane era una ballerina ad oggi, moglie del più importante dirigente pubblico Italiano, su e giù lungo la penisola, il Mediterraneo e i paesi Arabi a seguito di Enrico e della loro creatura. Costruita con l’amore di una famiglia, adottata a loro discendenza, era l’intera loro vita. Sarebbe stata la loro morte.

Successe una notte, verso fine ottobre.

Il tempo non è dei migliori: burrasca lungo il sentiero di avvicinamento alla pista 36 sinistra dello scalo di Linate, pioggia a dirotto, tuoni e fulmini accompagnano il piccolo ma solido Morane Saulnier MS.760 Paris. Partito dal Fontanarossa di Catania, alle pendici dell’Etna in una mattina soleggiata, sta per fare ritorno ai suoi passeggeri dalle parti di San Donato Milanese. Tra la città e dove poggia la tangenziale sud sorge oggi un palazzo di verdi vetrate e giardini pensili: il nostro informale e malizioso Ministero degli Esteri sottotraccia che già all’epoca si candidava a soppiantare la Farnesina. I tre dell’equipaggio del bireattore sono uno spaccato di vita politica Italiana della metà degli anni ’40: il pilota, pluridecorato al valore durante la guerra e volontario della Repubblica Sociale; il presidente, colonna logistica ed organizzativa di brigate partigiane bianche; il giornalista, Americano.

«India Alfa Papa, Linate. India Alfa Papa, Linate». 27 Ottobre, 1962. Notte. Le parole della torre di controllo si perdono tra le campagne di Bascapè. Il buio della tempesta è squarciato. Per qualche secondo il cielo si illumina, un filare di giovani pioppi si accartoccia e il buio torna in fretta lasciando sotto di sé un relitto e qualche fiamma del comburente rimasto. L’attimo della decompressione dopo l’esplosione e prima dell’impatto si dilata per ore. L’aeromobile, in quell’istante, è ancora integro. Enrico si volta dal finestrino e guarda a sud. Da quell’altezza si vede il Po, come per un attimo la tempesta lascia spazio al sereno della morte. Enrico riconosce una piccola città della campagna piacentina. Capisce che è il momento del commiato. Si lascia scappare una lacrima, prontamente asciugata. Fissa Irnerio e poi William, il giornalista:
«La vedete quella città?».
«Sì…».
Un sospiro misto di serenità e sobria malinconia: «È Cortemaggiore».
Sono ancora in quell’istante che dura per l’eternità. Enrico, Irnerio e William. Il giornalista ascolta, domanda e prende appunti, finanche nella fine fedele al suo lavoro.

«Gli ufficiali dell’anagrafe dicono che sono nato 56 anni fa. Mentono. Pessimi burocrati, la peggio razza. In realtà sono nato 13 anni fa, proprio in quella città che vedete illuminata in questa notte d’autunno».
È un uomo spiccio anche durante quel lungo istante in cui racconta ai compagni dell’ultimo viaggio quella vita che gli sta passando davanti. Burocraticamente sì, era nato 56 anni prima, nel 1906 ad Acqualagna. Marchigiano, come un illustre conterraneo d’inizio secolo: Filippo Corridoni, nato diciannove anni prima a Pausula, poco più di un’ora di macchina dalla città natale di Mattei. Corridoni e Mattei, nati in povertà nella stessa regione e tutti e due vincenti in quel di Milano. Per entrambi una vita densa di tutte le traversie che toccano agli uomini liberi. Diverse le vie, simile la fine per mano straniera. Pressoché identico il fine dei loro percorsi umani. Una parola e il dovere d’ogni uomo, pur declinata dai due in maniera differente: libertà. Azione Sindacale per il primo, Sovranità ed Indipendenza per il secondo. Inattuali, entrambi poco adatti a confrontarsi con il tempo, in assoluto e con quel poco che si sono voluti prendere perché vanno oltre, nella schiera dei grandi che il tempo non potrà insabbiare.

«Non ero uno studente modello. Pochi anni dopo la licenzia media entrai in fabbrica, operaio apprendista. Tempo di compiere vent’anni ed ero già dirigente. “Lasciatemi qualche anno” dicevo a tutti, “e diventerò un industriale”.
Correva l’anno 1936 quando aprii una mia attività. Il settore, vuoi il caso – sorride ironico – la chimica. Poi la guerra, l’Italia devastata dalle bombe alleate. Entrai nella resistenza, da supporto logistico e da diplomatico».
Irnerio Bertuzzi ha uno scatto d’insofferenza quasi impercettibile, traspare dallo sguardo che si ricompone mentre il presidente prosegue nel racconto.
«Non ho mai avuto precise simpatie politiche. Durante il Fascismo ero iscritto al partito e la mia azienda riforniva pure l’esercito. Ho sempre cercato di valutare le situazioni e volgere le decisioni di modo che mi potessero favorire in prospettiva. A questo si deve il mio appoggio alla resistenza e l’iscrizione al Partito Popolare prima e alla Democrazia Cristiana poi».
McHale fa una faccia stranita.
«Non mi guardi così. Non sono un puro, né un idealista come mi vogliono far passare i giornalai che mi prendono per un pericoloso eretico confondendo le parole. Sono eretico e per questo aldilà delle strette contingenze. In questo mondo, anzi in qualsiasi mondo, riservo la purezza solo agli eremiti e a chi vive fuori dalla realtà. Sono stato sempre un avventuriero a cui dopo la guerra venne affidato qualcosa che intuivo potesse realmente raggiungere gli obiettivi che si era dato chi aveva deciso per la sua fondazione durante il Fascismo, nel 1926».

«L’Azienda Generale Italiana Petroli».
«Esattamente. Mi chiesero di prenderne il comando per smantellarla. Ero dubbioso, tanto che, parlando sia con De Gasperi che con mia moglie, le dissi che non s’era mai visto che io potessi chiudere un’azienda. Io le aziende le apro o, meglio, le sviluppo. Mi parlavano dell’Agip come di un carrozzone strapieno solo di debiti e allo stesso tempo offrivano milioni a centinaia per rilevarla. Era un carrozzone in perenne astio con la più banale contabilità ma c’era qualcosa sotto: sotto l’Agip, sotto le concessioni, sotto la Val Padana. Riassunsi i tecnici dell’Agip Fascista, garantii i debiti con la mia fabbrica e le mie proprietà, elaborai un progetto e lo presentai al presidente De Gasperi, al quale riuscii a strappare qualche tempo prima della vendita per cercare di cavarne fuori qualcosa».
«A chi doveva essere venduta l’Agip?».
«Svenduta, prego. A chi secondo lei? A voi Americani. L’Italia era un paese dilaniato. Le bombe che l’avevano ridotta a un cumulo di macerie erano vostre e pretendevate anche di toglierci quel che ero convinto potesse essere uno dei mezzi per la ricostruzione post-bellica. Non mi pareva un’operazione giusta, al contrario: era qualcosa di indecente. Già allora era ovvio che lo sviluppo di una Nazione non avrebbe potuto prescindere dal petrolio e dalle fonti energetiche (*).  Togliendole dalle mani dello Stato, l’Italia si sarebbe da sé condannata ad una situazione di dipendenza dall’estero. Inaccettabile».
«Dice che non ha mai avuto convinzioni politiche, eppure queste vi rassomigliano molto».
«Le mie sono concezioni che vanno aldilà della politica. Sovranità, Indipendenza, possibilità di determinare da soli il proprio futuro sono doveri e diritti di qualsiasi nazione. Sono obiettivi che ogni governo, in qualsiasi sistema, dovrebbe avere come punto focale nella propria attività. Lo riconosco al Fascismo, meno ai governi del dopoguerra anche se lodevoli eccezioni sono davanti agli occhi di tutti».
«Oso troppo se le chiedo di fare un nome?».
«Fanfani: ha sempre difeso il mio operato. Lo capii quando incrociai il suo sguardo, a metanopoli, l’anno scorso qualche istante dopo aver pronunciato il discorso in cui si schierava a difesa dell’Eni, “all’interno e all’estero”».

Dalla cabina sospesa nel vuoto i tre scorgono ancora Cortemaggiore.
«Prima vi ho indicato quella città perché è nato tutto lì. Era il 1949. Il petrolio, in Italia? Non ci credeva nessuno. E facevano bene a non crederci, avevamo trovato niente più che una pozzanghera, ma non ditelo a nessuno! (ride, Enrico). All’Italia, più che idrocarburi serviva la fiducia per ripartire. La scoperta è stata una droga che sono riuscito a gestire con una di quelle operazioni che i santoni chiamano marketing. Si era nel periodo della ricostruzione, si perforavano le montagne per costruire importanti arterie di comunicazione e si diffondevano le prime automobili su larga scala. Sapevamo costruirle, non aveva senso non saper raffinare la benzina. Ecco allora la SuperCortemaggiore, “la potente benzina Italiana”, ecco le aree di servizio con hotel e servizi, una novità assoluta nel panorama dell’epoca. Insieme al petrolio, poi, il gas. Ricostruire era la parola d’ordine, le industrie avevano bisogno di energia».

«Poteva bastare l’energia a smuovere la fiducia?».
«No, serviva anche lavoro. Nel corso degli anni abbiamo dato occupazione a milioni di persone tra Eni, l’indotto e tutte le aziende che ripartirono o aprirono ex novo grazie all’energia di cui potevano disporre, senza razionamenti e senza rubinetti chiusi a discrezione di qualche grassoccio amministratore delegato con la poltrona ben salda di là dell’Atlantico. Prenda ad esempio la Sicilia, dove siamo appena stati. Chi mai sarebbe andato sull’isola a trivellare? L’abbiamo fatto, abbiamo trovato petrolio e gas e ora programmiamo non meno di diecimila assunzioni. Diecimila, si rende conto? Pozzi, una raffineria che progettiamo la più grande d’Europa e progetti di sviluppo ben aldilà dell’esaurimento delle vene del sottosuolo».
«In molti criticarono il suo approccio all’oro blu».
«Mi dicevano che era una risorsa inutile. Io mi limitavo al primo termine: risorsa, quindi strumento. Non ho ascoltato divagazioni accademiche, giostrai politici, veleni di chi non ha mai messo piede in un sito di estrazione, e l’ho usato e indirizzato agli scopi che mi prefiggevo. Avevamo quello, nessuna altra scelta. L’abbiamo fatto diventare il nostro petrolio. Necessità virtù, e ora ci ritroviamo con una invidiabile rete di gasdotti, che siamo in grado di riempire di materia prima e che sostiene il nostro sviluppo, garantendo energia a prezzi accessibili. In questo modo le industrie, che sarebbero dovute andare alla ricerca di fonti alternative o comunque non nostre ad alto prezzo, possono invece veicolate le proprie risorse in altri investimenti».

«Mi pare un po’ forzata come interpretazione. Fa a pugni con la teoria economica».
«La teoria economica può stare sui libri. Io studio sul campo, lungo le strade, nelle case di chi deve ancora andare nei boschi a far legna per scaldarsi e nei capannoni dove stanno i lavoratori Italiani che nel primissimo dopoguerra potevano lavorare solo qualche ora al giorno, causa il razionamento deciso dal comando alleato. Mi chiedono energia, che posso dirgli? Che non abbiamo petrolio e dobbiamo andarlo a comprare da chi fissa il prezzo sulla base di quel che gli passa per la testa in quel momento? Questo non sta scritto sui manuali universitari, eppure blocca opportunità di sviluppo».

«Dicono che i suoi metodi di posa della rete non sempre furono metodi ortodossi».
«Dicono bene. Per una posa avrei dovuto attendere anni tra consigli comunali retrogradi incapaci di capire il minimo esistenziale, valutazioni d’impatto fatte sul nulla spinto, autorizzazioni che sarebbero arrivate con il contagocce, prefetti impegnati in cercarsi uno spazio personale tra le pieghe della nuova Italia e così via. Hai parlato con Boldrini?»
«Il suo vice? No, perché?».
«Quando sente la parola “gasdotti” gli si illuminano gli occhi come un bambino davanti alla marmellata di prugne, e pensa sempre alle nostre bravate. Ti avrebbe raccontato di quando una notte, a Cremona, perforammo la città per stendere le nostre tubature. Nostre, poi… Siamo un’azienda di Stato e lavoriamo per la Nazione. Il giorno dopo si presentò trafelato il sindaco chiedendo spiegazioni. Io, faccia di bronzo, gli dissi che pensavo fossimo in regola con le autorizzazioni e che potessimo lavorare senza problemi. Si mise a urlare, che non era assolutamente vero e che stavo bluffando. Aveva ragione, ma fui bravo a nasconderlo. Gli dissi che avrei dato ordine di sospendere i lavori. Sospendere, s’intende, lasciando la città sventrata. Una bestemmia e via, mi intimò di finire in fretta quel che stavamo facendo e andarcene il prima possibile. Obiettivo raggiunto! L’azione è rimasta nella storia. Ho perso il conto di queste scene, ho perso il conto di quante denunce sono arrivate a me e all’Eni per lavori in clandestinità, ho perso il conto delle ordinanze violate. Ottomila? Forse anche di più. È stato divertente. Era giusto farlo».

Bertuzzi interrompe il dialogo: «Fossi stato in lei, avrei fatto lo stesso».

«Siamo uomini liberi, Irnerio. Ragioniamo senza fardelli. Centinaia e centinaia di chilometri di tubature lungo tutta la penisola, lasciando burocrati di quartiere davanti al fatto compiuto. L’azione ha sempre ragione, più di contratti, consigli di amministrazione, giunte comunali e uffici tecnici». Il sorriso smagliante e affabulatore la dice lunga sulle sue doti nel trattare e nel convincere con la meglio dialettica, uomo attraente e affascinante, misterioso allo stesso tempo per quanto in nove su dieci non erano in grado di capire quale fosse il suo obiettivo, incomprensibile ai più ma degno della più alta considerazione.

Continua per concludersi...

__________

(*) Aveva ragione. Precursore dei tempi di almeno 50 anni. Solo nel 2009 è infatti uscito uno studio, pubblicato dal fisico Tim Garrett, che indica una costante tra crescita e disponibilità di energia a 9.7: occorrono 9,7 milliwatts per produrre un valore economico pari a un dollaro del 1990 depurato dall’inflazione. Crescita, la base di qualsiasi processo di sviluppo, ed energia, due variabili inscindibili.

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mercoledì 9 febbraio 2011

Schiavi delle banche

di Matteo Rovatti


La moneta, sangue di ogni economia qualitativamente superiore al baratto, dona a chi ne governa le logiche un potere quasi sacerdotale, sovente all’insaputa dei popoli che tale moneta utilizzano. Per capirlo, è necessario capire come nasce la moneta e soprattutto quali effetti essa abbia sulla nostra esistenza quotidiana.

Nella UE tecnocratica, il processo di creazione della moneta può essere approssimato grossomodo in 5 diverse fasi:

1) La BCE (Banca Centrale Europea) stampa una certa somma (mettiamo un milione di euro), sostenendo delle effettive spese tipografiche (possiamo ipotizzare che, per la cifra qui ipotizzata, si aggirino nell’ordine di alcune migliaia di euro);
2) Una banca commerciale, necessitando di liquidità, si fa scontare (anticipare il capitale) dalla BCE tramite quella moneta, un pari importo in titoli di Stato. Ovvero, la banca cede alla BCE un milione in titoli di Stato in cambio di un milione cash;
3) Il milione entra così nel circuito finanziario, in cui grazie alla copertura frazionaria dei depositi, genera strumenti fiduciari di pagamento per valori multipli rispetto all’emissione cartacea. Con una riserva al 2%, un milione di euro genera depositi bancari per 50 milioni circa;
4) Allo scadere dei titoli, la banca (generalmente) li riacquista per intascare gli interessi, pagando alla BCE, oltre al milione, anche il Tasso di Sconto Ufficiale, ufficialmente unico profitto della BCE medesima;
5) La BCE pone al passivo di bilancio il milione in cartamoneta creato dal nulla inizialmente, azzerando contabilmente il milione che ritorna indietro, e realizzando una colossale opera di elusione fiscale.

Per quanto il quinto punto presupponga certamente un illecito, in quanto il sistema bancario che controlla la BCE realizza tramite esso una quotidiana opera di occultamento di capitali (di cui chi scrive ignora del tutto l’obiettivo), in realtà ciò su cui preme soffermarsi è il terzo punto, riguardante la copertura frazionaria dei depositi, il quale rende l’attuale sistema bancario intrinsecamente pernicioso dal punto di vista macroeconomico per almeno 8 differenti motivi:


Moltiplicatore monetario

La stragrande maggioranza degli strumenti di pagamento utilizzati dal sistema economico sono fiduciari, ovvero scritturali, creati dalle banche all’atto di concedere un prestito. Una banca con un deposito liquido (in cartamoneta o titoli facilmente liquidabili) di 1 milione presso la Banca Centrale, ipotizzando un tasso di riserva del 2%, può concedere prestiti fino a 980.000 euro (quindi detratto il 2%). Ipotizzando che l’intera somma finisca sul conto della medesima persona presso una banca (la medesima o un’altra, è indifferente), questa potrà prestare 960.400 euro, e così via, fino a che dal milione iniziale non si saranno creati depositi presso il sistema bancario per 50 milioni circa, generati da decisioni private e dalla congiuntura del mercato.


Potenziale instabilità degli investimenti

Quando un risparmiatore apre un deposito a vista presso la sua banca, esso considera il medesimo come immediatamente disponibile, mentre la banca lo usa per concedere prestiti. Quindi, come notava il nobel Maurice Allais (1911-2010), si assiste all’assurdo logico e potenzialmente destabilizzante per cui attività ad una data scadenza vengono finanziate con fondi ottenuti dal finanziatore (le banche) ad una scadenza inferiore, o addirittura nulla (il deposito a vista può teoricamente essere estinto istantaneamente dal correntista). Se io deposito 1000 euro in banca, posso utilizzarli per le mie spese, più o meno arbitrariamente, ma la banca userà i medesimi come base per concedere un prestito. Il rischio, come si noterà, è più che concreto.


Instabilità fondiaria ed immobiliare

La dipendenza della massa monetaria complessiva da situazioni congiunturali è la responsabile principale della continua oscillazione dei valori del mercato immobiliare, che favoriscono la speculazione e l’accaparramento improduttivo.


Inflazione permanente

La continua, irresponsabile ed incontrollata espansione della massa monetaria, e la conseguente creazione di strumenti fiduciari di pagamento denominati in valuta ufficiale da parte delle banche tende a svalutare progressivamente l’unità di conto, causando incontrollati rialzi dei prezzi al consumo di beni e servizi. L’inflazione si verifica infatti quando in circolazione esiste troppa moneta rispetto ai beni e servizi acquistabili sul mercato, che quindi si apprezzano per compensare la differenza. È pur vero che gli aumenti non sono omogenei – checché ne possano pensare i monetaristi –, ma sono maggiori nei settori in cui la domanda è più alta (alimentare sopratutto), ed in cui comunque esistono altre spinte all’aumento dei prezzi. L’inflazione, perlomeno ai livelli reali, è profondamente ingiusta in quanto altera sia l’efficienza del mercato interno – favorendo chi fa debiti rispetto a chi risparmia, che si vede svalutato il gruzzolo faticosamente guadagnato – che la redistribuzione ottimale della ricchezza, in quanto colpisce essenzialmente i redditi fissi (salari e pensioni), ed avvantaggiando i patrimoni già costituiti rispetto a quelli da costituirsi.


Altissima pressione fiscale

Quello che si fatica a capire, a livello anche mediatico, è che l’inflazione ha il medesimo effetto di una imposta indiretta (tipo IVA), e che quindi, se fosse causata dall’emissione sovrana di moneta da parte dello Stato, essa potrebbe – auspicabilmente – portare all’abbassamento della pressione fiscale complessiva. Infatti, se lo Stato emettesse direttamente 1 miliardo di euro per le proprie spese, avrebbe bisogno di tassare i cittadini-produttori per una cifra inferiore di un miliardo rispetto alla situazione (attuale) in cui la Sovranità Monetaria fosse in mani private. L’esautorazione dello Stato dal processo di creazione della moneta, per contro, costringe i governi ad indebitarsi e a spremere i propri cittadini-produttori per ottenere le risorse necessarie al sostentamento della spesa pubblica, con effetti economici e sociali devastanti ed il progressivo distacco delle istituzioni – viste come enti cleptocratici – ed il popolo.


Debito matematicamente inestinguibile

Se tutta la moneta viene emessa a debito, ne consegue che il debito totale è matematicamente inestinguibile, in quanto composto dalla somma algebrica di credito erogato ed interessi riscossi. Le conseguenze economiche sono devastanti: un sistema fondato sul debito può reggere solo se il debito medesimo può essere finanziato (pagare gli interessi) possibilmente all’infinito. È ferma opinione di chi scrive che il consumismo derivi appunto dall’inderogabile necessità delle imprese di smaltire sempre più velocemente la produzione, allo scopo di poter andare avanti. Non più investimenti produttivi, ma tagli, delocalizzazioni, marketing, obsolescenza programmata, bisogni mediaticamente indotti, hanno trasformato il capitalismo imprenditoriale, puritano, quasi avventuriero nel turbocapitalismo improduttivo odierno.


Finanziamento della speculazione da parte del credito

L’economia (produzione di beni e servizi all’interno di un ciclo di domanda-offerta) non può essere inflazionata impunemente molto a lungo. Per questo, la finanza si fa carico di assorbire quote sempre maggiori di liquidità. Si formano così quelle periodiche bolle finanziarie – la cui esplosione, ogni volta, rovina milioni di risparmiatori, se non intere nazioni, come nel caso delle «Tigri asiatiche» – in cui tutti comprano perché aumentano le quotazioni, e le quotazioni aumentano perché tutti comprano. Come si nota, è una sorta di maligna inflazione che non fa rincarare il pane o le case, ma i titoli quotati in borsa, creando l’illusione di un arricchimento generalizzato che, alla prova dei fatti, si rivela semplicemente una pericolosa chimera gonfiata dalle banche.


Mancato controllo pubblico sul credito

In virtù della sua eccezionale complessità, il sistema creditizio sfugge alla percezione della pubblica opinione, e quindi della politica (che della prima è l’espressione diretta). La prova la si è avuta con l’entrata dell’Italia nell’euro, con la caccia alle streghe scatenata dai media contro i commercianti, colpevoli dei folli rincari che hanno dimezzato il nostro potere d’acquisto effettivo. A livello collettivo, però, è facile dimostrare che detti rincari possono essere addebitati ad altri fattori: la «Cura Prodi» per entrare nell’euro (i famosi sacrifici, che hanno pagato come sempre i redditi fissi), l’abbattimento inflattivo dei coefficienti di riserva obbligatori (che hanno consentito alle banche di espandere il credito a dismisura) ed il crollo delle esportazioni, dovuto ad un euro innaturalmente forte per una economia manifatturiera come la nostra, che ha bisogno che all’estero comprino i nostri beni, e per cui la lira, moneta debole, andava benissimo.

Da quello che si è visto, il sistema bancario necessita di riforme profonde dei suoi ordinamenti. Chi scrive, è convinto che le idee di Irving Fisher (1867-1947) e del già citato nobel Maurice Allais possano essere la base per una detta riforma, fondata sulla separazione di depositi e prestiti e sul concetto di riserva al 100%. Diciamo che ogni operatore economico sia dotato di due conti: un conto di deposito, in cui mette i danari necessari alle spese mensili, da cui la banca non può trarre moneta da prestare, ma che gli fattura tutte le spese (custodia fisica della liquidità, pagamenti, incassi…). Il secondo conto sarà quello di prestito, in cui il risparmiatore potrà mettere le proprie eventuali eccedenze, stimolato dal costo del primo conto. È l’equivalente di un prestito: il risparmiatore presta il proprio denaro alla banca ad un dato termine, e la banca lo presta, a propria volta, ad un termine minore (o al limite uguale), lucrando sulla forbice fra interessi passivi (che corrisponde al risparmiatore) ed attivi (che incamera). Da notare che il risparmiatore, fino allo scadere del prestito, non avrà alcuna disponibilità sul proprio danaro: esso è fisicamente impegnato a finanziare una qualche attività. Tutta la moneta necessaria al funzionamento del sistema, deve essere creata dallo Stato, o quantomeno spesa dallo Stato, senza debito. La «moneta-lavoro» teorizzata da Ezra Pound, per quanto trascenda gli intenti di questo articolo, è senza dubbio l’obiettivo di lungo termine per una autentica rivoluzione fondata sulla Sovranità Monetaria, ovvero su una moneta considerata come monopolio naturale del popolo.

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sabato 5 febbraio 2011

All’armi siam fumetti: gli ultimi eroi… d’inchiostro

di Andrea Virga


Autore: Roberto Alfatti Appetiti (1967), giornalista de «Il Secolo d’Italia», esperto in comunicazione istituzionale e politica, appassionato di cultura popolare (narrativa, fumetti, ecc.), gestisce il weblog culturale L’eminente dignità del provvisorio, che raccoglie i suoi numerosi articoli su queste tematiche.

Edizione: autoprodotto (ilmiolibro.it), I libri de «Il  Fondo», Roma 2011.

Recensione: Questo agile ma corposo volumetto – pubblicato per I libri de «Il Fondo», la rivista web dello scrittore anticonformista Miro Renzaglia – è costituito da una raccolta di articoli scritti da Alfatti Appetiti per «Il Secolo» e «Area» tra il 7 giugno 2006 e il 2 dicembre 2010, introdotta dal fumettista Roberto Recchioni e prefata dallo scrittore di fantasy Errico Passaro, tutti affini a quella destra libertaria che non rinnega il fascismo, rivendicandone la forza rivoluzionaria e l’eredità culturale. Negli articoli, l’autore spazia dai fumetti italiani della Bonelli all’iraniano Persepolis, da Andy Capp a Kriminal, da Max Bunker a Hugo Pratt, per cui il risultato finale è un avventuroso viaggio tra autori, personaggi, storie, temi del fumetto, questa grande letteratura popolare.

Alfatti Appetiti dichiara di muoversi in controtendenza, in reazione alla diffusa vulgata, più in voga nei decenni passati ma ancora in auge, che vedrebbe i fumetti come inutili, ed anzi dannosi, per i giovani, e comunque letteratura minore, di consumo. Sono rievocate le occhiate severe e indignate dei censori, fossero essi austeri accademici, sdegnati al pensiero che si potesse preferire Tex a Manzoni, o bigotti esponenti democristiani, preoccupati della scarsa moralità dei fumetti, o ancora arcigni funzionari comunisti, insospettiti dalla natura politicamente disimpegnata (e quindi qualunquista, e quindi “fascista”) delle «strisce».

Delle tre accuse, l’autore accetta la seconda, ma cambiandola di segno: il fumetto come luogo di critica all’ipocrita morale borghese e democristiana dell’italietta postbellica. Quanto alla prima, è tutto un reticolo d’intrecci, che egli traccia nei suoi articoli, tra la letteratura alta, specie quei romanzi (Verne, Stevenson, London, Salgari, Conrad, Jünger, Tolkien) un tempo altrettanto snobbati ed ora riconosciuti e apprezzati dalla critica, e la letteratura popolare, di cui il fumetto rappresenta uno dei mezzi maggiori; non già un pericolo che allontani i ragazzi dalla lettura, ma al contrario un incentivo a leggere. Molto più ampio è poi il risalto dato al rapporto tra fumetti e politica, che costituisce sicuramente il leitmotiv di tutto il libro.

Alfatti Appetiti dimostra come non è vero che il fumetto sia, in quanto letteratura popolare, tradizionalmente di sinistra, come rivendicato recentemente, e ricorda invece i sospetti e le difficoltà che circondavano autori e personaggi, spesso troppo ambigui e mai abbastanza impegnati per i critici di Partito. E raccontando i grandi personaggi del fumetto, come non soffermarsi su molte figure così facilmente seducenti per l’immaginario “di destra”, e non solo per quell’anarcofascismo romantico che sembra ispirare le gesta di tanti eroi di carta e inchiostro – dal marinaio Corto Maltese all’avventuriero amazzonico Mister No –, ma anche per l’anticonformismo guascone di certi antieroi «sfigati» e «antisociali», dal simpatico beone Andy Capp, allo sgangherato Gruppo TNT?

L’approccio cultural-politologico non si limita però a cogliere queste suggestioni – le quali, comunque, più che costituire una puerile «raccolta di figurine» di opposto colore, ricostruiscono comunque la diversa fortuna di personaggi e storie –, ma si spinge oltre, fino ad affermare che il fumetto, può essere sì puro (e legittimo!) disimpegno ed evasione, senza pretese pedagogiche o demagogiche, ma anche costituire un mezzo per approfondire tematiche importanti. Alcuni articoli sono particolarmente indicativi a questo proposito: come quello su Persepolis, fumetto di Marjane Satrapi che critica lo Stato e la società dell’Iran; oppure quello dedicato a Mater Morbi, l’albo di Dylan Dog (l’investigatore dell’incubo creato da Tiziano Sclavi) che affronta la difficile e problematica questione dell’eutanasia, criticato addirittura apertamente dal sottosegretario alla Salute Eugenio Roccella (il che dimostra come ormai anche il fumetto non passi inosservato).

In sintesi, pur non trattandosi di un’opera sistematica (ma perché dovrebbe per forza esserlo?), All’armi siam fumetti racconta, divaga, descrive, esalta il variegato mondo del fumetto, sia difendendo la sua natura libertaria e spensierata, sia rievocando le sue origini nobili, nella letteratura popolare moderna, e rivendicando inoltre una sua vocazione anche culturale, critica e – perché no? – militante. È proprio in base a queste premesse, che matura e acquista peso l’appello finale che l’autore rivolge ai lettori, in una recente intervista.

«Un appello, però, mi piacerebbe rivolgerlo ai miei coetanei: fate leggere i fumetti ai vostri figli. Io ne ho tre, maschi, e rappresentano un alibi inattaccabile per riempire gli scaffali di giornalini vecchi e nuovi. Introduceteli nel magico mondo delle nuvole parlanti. Che siano bonellidi o manga poco importa. Comprate gli albi in edicola o almeno tirateli fuori dagli scatoloni che le vostre signore hanno destinato alla cantina e inevitabilmente alla muffa. Tornate a Topolino, se è il caso, che funziona sempre. Non vergognatevi di questa vostra passione, siatene orgogliosi. Non arrendetevi di fronte all’incedere dei giochi elettronici. Resistere. Resistere. Resistere. Che non è solo un “verbo” della sinistra».


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