mercoledì 20 gennaio 2010

Intervista a Francesco Mancinelli

L’AVGVSTO inizia oggi un ciclo di interviste a personalità con storie e percorsi diversi ma con un minimo comune denominatore: la Politica. Il primo contributo è quello di Francesco Mancinelli – che ringraziamo per la disponibilità –, cantautore e pensatore eretico, autore – tra le altre della celebre canzone Generazione ’78.




(F. MANCINELLI, Generazione ’78)


Domanda a bruciapelo: quali sono i miti, gli autori e le esperienze che consideri parte integrante del tuo bagaglio politico-culturale?


Domanda quanto mai complessa. Diciamo che accanto al pantheon tradizionale dei vari Nietzsche, Evola, Jünger, Guénon, nella mia formazione convivono stranamente elementi di neo-cripto-catarismo (alcuni li chiamerebbero anarchici o comunisti spirituali, ma solo per coloro che non hanno occhio nel capire), approfonditi ad esempio attraverso la poesia musicale di De André e Guccini, ma presenti anche in tutta la canzone d’autore degli anni ’70; pesco anche nella visione profonda ed essenziale di P. P. Pasolini. Il tutto viene poi condito dal riferimento assoluto ai temi della «Paganitas», soprattutto quella romano-italica, nonché alle tematiche esoteriche, uno degli amori di gioventù.

Poi, per chi semplicemente riesce a ricavare dagli sguardi e dall’intuizione «la propria via», il proprio destino, direi che Codreanu e «Che» Guevara rappresentano, nei loro sguardi essenziali, la sintesi perfetta del mio background politico e culturale. Comunque, andando a scavare c’è dentro veramente di tutto, ed è quasi impossibile anche per me farne una organica sintesi. Anzi direi che sono in-organico per definizione.


Risorgimento italiano. Ultimamente ferve il dibattito su questa pagina controversa della nostra storia. Tu hai parlato spesso di «Risorgimento tradito», potresti approfondire il concetto?


Di Risorgimento tradito ne parla ampiamente uno dei massimi cronisti della Storia Risorgimentale (protagonista oltreché cronista): Giuseppe Cesare Abba. Uno che capì molto prima di molti altri (prima dello stesso Gramsci e anche di Carlo Alianello) il binario morto su cui si era avviato il nostro moto di liberazione. Si stava codificando dal 1849, dopo la fine della Repubblica Romana, il teorema velenoso del trasformismo delle nuove classi dirigenti, per mancanza e volontà di strappi tragici ed irreversibili all’interno del tessuto sociale e culturale della nazione nascente.

Serviva un sacrificio iniziale di purificazione, alla Romolo e Remo per capirci, la famosa guerra civile di liberazione anziché le false guerre Internazionali teleguidate da potenze straniere (tre guerre d’Indipendenza che non hanno costruito niente in termini di coscienza civile e nazionale). Ma purtroppo tra noi italioti, estranei perfino alla rivoluzione protestante, i Giacobini non sono mai stati veri Giacobini, ed i legittimisti del vecchio ordine (a parte le frange eroiche dell’ultimo Brigantaggio borbonico post-unitario) erano già imborghesiti e pronti per un salto di ricollocamento nella nuova gestione post-unitaria, ed in chiave moderata-liberale. Potremmo dire che i due laboratori controrivoluzionari per eccellenza (Vaticano e Savoia piemontesi) hanno ucciso lo spirito «Pagano-Insurrezionalista» di Pisacane e di Mazzini, dei fratelli Bandiera, ed infine ridimensionato ed esiliato il mancato console-dittatore Giuseppe Garibaldi; hanno festeggiato insomma la solita normalizzazione oligarchica: da un lato sul corpo dei nostri martiri e dei patrioti caduti, considerati come feccia eversiva, e dall’altro sul genocidio ed il massacro premeditato del Sud Italia.

Se si vuole capire come si arriva a Caporetto, a Badoglio, e poi Fini o Alemanno in Sinagoga, bisogna partire da Cavour, dal Piemonte e dalle sue lobby illuminate, e/o dal potere millenario e conformista del Vaticano. Neanche il Fascismo riuscì a sradicare la controrivoluzione dei gattopardi trasformisti, degli ordini autocratici antinazionali (gesuiti e massoni in testa), il cancro atavico delle nostre classi dirigenti riconvertite all’apparato e alla decadenza.


Può il Fascismo essere considerato il completamento del Risorgimento?


Un altro tentativo (mancato) del completamento risorgimentale? Sicuramente sì. Un tentativo evocato soprattutto con l’intuizione della prima guerra mondiale come Evento Rivoluzionario che doveva finalmente modificare antropologicamente il soldato politico italiano, trasformandolo in una macchina da guerra contro la borghesia; con il Sindacalismo Nazionale che voleva espropriare l’apparato statale e produttivo dai suoi aguzzini-parassiti, con San Sepolcro ed il suo programma di sfida ai vecchi ordini, con Fiume e la Sua gioventù pronta a tutto.

Ma già il 1922 segna a mio avviso un arretramento di posizione (anche sul piano iniziatico e culturale). Forse si doveva cavalcare la Via Immanente ed intransigente dell’Imperialismo Pagano.

Invece si è finiti nella tappa consociativa (catto-nazionale), considerata da molti necessaria, e connivente con i «vecchi ordini» dell’antinazione, tappa che il fascismo ha pagato a caro prezzo per tutto il corso del regime, e con due “cambiali” scadute: una il 25 luglio e l’altra l’8 di settembre.

Bisogna attendere la RSI per recuperare lo spirito della Repubblica Romana e di Carlo Pisacane.

Questo non ha impedito tuttavia al Fascismo di proporsi come Rivoluzione Immanente dentro lo Stato, grazie alla grande figura di Mussolini (altro console-dittatore mancato a mio avviso!), di Gentile, di Rocco. Tuttavia se vogliamo ri-percorrere a ritroso le radici della «Tentazione Sinistra» (come la chiamo io!) bisogna capire come il mancato Risorgimento e l’incompiutezza del Fascismo siano da sempre concetti interconnessi.


Caso Matteotti. In una recente conferenza a CasaPound avevi accennato al suo delitto come ad un tentativo di intralciare l’avvicinamento di Mussolini ai socialisti. Potresti approfondire il tuo pensiero in proposito?


Esistono ormai illustri studiosi ed opere che hanno teorizzato il delitto Matteotti come vera e propria congiura internazionale contro Mussolini, una strategia della tensione ante litteram per capirci. Tra coloro i quali hanno sempre sospettato sul “fattaccio” c’è stato Nicola Bombacci, che ebbe il compito durante la RSI di capire chi erano i mandanti, che erano per l’appunto da ricercare tra i luogotenenti dei potentati internazionali, insomma dentro la «destra» infiltrata nel Fascismo. D’altra parte sia l’internazionalismo comunista che le «destre» temevano da sempre la convergenza tra socialismo storico e fascismo, sia sul tema sociale che sulla prospettiva politica. Entrambi sarebbero rimasti spiazzati da un nuovo ordine «Et Et» per capirci. Ogni volta che si determinano strane ed eretiche convergenze in Italia, scatta sempre qualcosa che non permette all’eresia di attecchire.


Destra e sinistra nel Fascismo. Quale è stato il rapporto tra queste due «anime» durante il Ventennio? Quale il loro lascito?


Per quanto mi riguarda la «destra» ha infiltrato pesantemente il fascismo (e/o la sinistra nazionale) e gli ha tramato contro, lo ha depistato. E questo nonostante che lo stesso Regime avesse in Sé sani anticorpi (tra cui lo stesso Mussolini) per sradicare lentamente ed in maniera indolore la mala pianta. La guerra ha impedito che il lavoro fosse ultimato, soprattutto con l’avvento della «seconda generazione», quella già fascistizzata ed immune dai valori e pruriti controrivoluzionari.
Ma i vecchi ordini, le lobby e l’apparato autoreferenziale ed auto-conservativo l’ha fatta franca ancora una volta, non solo depistando il Fascismo, ma – peggio ancora – gettando le premesse anche per la «deviazione del neofascismo a destra alla fine della guerra»; un neofascismo preso in ostaggio per conto del nemico, un ostaggio che non siamo più riusciti a liberare.


Una certa vulgata recita che «Mussolini ha fatto bene all’Italia fino all’alleanza con Hitler». Quanto c’è di vero in questa affermazione?


Queste sono le solite vulgate della «destra liberale e moderata», che avrebbero voluto un fascismo alleato e complice delle potenze occidentali, vere responsabili della guerra. O peggio ancora il fascismo come variabile dell’ideologia liberale, un interregno necessario in funzione semplicemente anticomunista. Io rispondo in maniera provocatoria che forse Mussolini si doveva dedicare proprio alla «pulizia interna», piuttosto che alla guerra internazionale di liberazione; ma la guerra con le potenze del mare e con le «democrazie plutocratiche» era inevitabile. È sempre inevitabile da parte di tutti. Forse il vero errore l’ha compiuto Hitler: evocare-anticipare lo scontro con Stalin senza prima aver “regolato” definitivamente l’Inghilterra.


’68. Se non ci fosse stato l’intervento reazionario del MSI, sarebbe stata veramente possibile una contestazione giovanile trasversale?


Non so se sarebbe stata possibile. Sarebbe stata tuttavia auspicabile. Ma è ovvio che maggioranze silenziose e picchiatori al soldo del Viminale funzionano sempre bene (a destra e a sinistra), e per disinnescare (ancora una volta) una pericolosa ed eretica opportunità di convergenza. Sicuramente sarebbe stato tutto meno conflittuale all’interno degli anni ’70 e la strategia della tensione avrebbe dovuto intraprendere altre piste per stabilizzare la politica, o meglio per de-stabilizzare la società civile con una guerra civile strisciante e sporca.


Quanto c’è di simile tra il movimento del ’68 e la manifestazione anti-Gelmini prima degli scontri di Piazza Navona?


Direi che il ruolo e la furbizia delle «guardie» è stato lo stesso che nel marzo del 1968. Direi anche che, ancora una volta, scocciava a certa «destra iper-istituzionalizzata e codina» che i ragazzi del Blocco Studentesco marciassero alla testa della manifestazione anti-Gelmini a fianco dei coetanei della sinistra radicale. Insomma da destra e da sinistra hanno mosso le loro pedine di provocazione come sempre. Il clima antisessantotto delle frange pidielline, alimentato da pericolosi articoli sui giornali e dai convegni antisessantotto da un lato, e le provocazioni innescate dai Rash e dai nonni pensionati di Rifondazione Comunista dall’altro, nonni che non potevano permettere ai Fascisti del Terzo Millennio di gestire la piazza. Grazie al solito comportamento ambiguo e direi “stabilizzante” delle forze dell’ordine si è permesso lo «scontro» davanti alle telecamere. Le guardie si sono de-filate all’ultimo momento per favorire l’impatto.
Tutti contenti, a destra e a sinistra, che si fosse tornati alle vecchie contrapposizioni, alle bastonate e alla teoria degli opposti estremismi, prassi che ha dato da mangiare sempre a molti.


Anni di piombo. Quali i miti da sfatare, le logiche ed i protagonisti occulti di quel periodo?


Il primo mito da sfatare è che ci fosse in atto uno scontro tra Est ed Ovest. Lo scontro vero, dai primi degli anni ’60, è stato tra la componente trotskista-internazionalista, progressista e neo-capitalista del sistema occidentale (falsamente considerata come sovietico-comunista) e la Sua controparte atlantico-reazionaria, cioè un regolamento di conti tutto interno all’Occidente ed ai suoi potentati politici ed economici, i suoi Think Tank. L’altra variabile era lo scontro che si stava innescando tra Nord e Sud, con in più la variabile impazzita della bomba medio-orientale, innescata soprattutto in Europa dalle varie intelligence.

Il neofascismo, preso in ostaggio a destra dal ’46 proprio dalla componente reazionario-atlantica (anticomunista), è stato per 45 anni terreno di scontro tra coloro i quali volevano tenere bloccato lo strumento in funzione semplicemente anticomunista, per conto degli alleati atlantici e della DC, e coloro i quali hanno cercato invece di «liberare lo strumento», con un assalto disperato al cielo, per ridargli la sua valenza originaria antisistemica.

La stessa Destra Radicale ad es., che si era distaccata in modo critico dal neofascismo parlamentare sul piano dell’analisi, nel 1965 subì però un’infiltrazione pesantissima ad opera dei servizi degli apparati atlantici con il famoso convegno all’Istituto Pollio e le tentazioni golpiste di fine anni ’70. Il giocattolo si ruppe, proprio a metà degli anni ’70, dopo la crisi del Kippur e con il decollo della Trilateral. Là si scoprirono i giochi ed iniziarono gli anni di piombo con tutte le dinamiche correlate: quelle di accelerazione o di provocazione (strategia della tensione e lotta armata), quelle di compensazione (i Think Tank europei trotskisti e neocapitalisti che infiltrano i gruppi dell’estrema sinistra anche in funzione antisovietica oltreché antiatlantica) e quelle plebee di ricomposizione (la stagione del compromesso storico e della concertazione tra padronato e sindacalismo deviato). In tutto questo c’è una sana rottura di linguaggio, di immaginari e di progetto politico nel nostro ambiente, avvenuto intorno a metà degli anni ’70. Noi siamo i figli di nessuno, partoriti da questo «strappo» antropologico, politico e culturale.


Nella tua celebre canzone Generazione ’78 hai descritto, rivivendole, le passioni e le tragedie comuni a tanti ragazzi del tempo. Quali erano – per come le hai vissute – le ambizioni e i sogni di quei giovani, stanchi del conservatorismo del MSI e decisi a «fare la rivoluzione»?


Già in altri interventi ho messo in evidenza come allora la Nuova Destra, i Campi Hobbit, il movimentismo (TP-Costruiamo l’azione) e la stessa lotta armata dei Nar, non nascono «a destra» ma, come hanno messo ben in evidenza Andrea Colombo e Ugo Maria Tassinari, come rottura irreversibile e contro la stessa destra istituzionale e di apparato. C’è stata una rivolta generazionale complessiva, di chi si è voluto scontrare con la gerontocrazia e l’immobilismo della destra nazionale. E soprattutto contro coloro che già da allora plaudevano alla completa de-fascistizzazione di pensiero ed azione, per ghettizzare il nostro mondo nell’anticomunismo di servizio.


Quanto c’è di vivo e vivace oggi di quel messaggio, di quella visione del mondo che nacque nel Risorgimento, confluì nel Fascismo e che ora è dispersa in mille rivoli?


Bhè una indicazione l’avete data proprio Voi di Augusto Movimento che avete lanciato un immaginario notevole e affascinante, sostenendo che non solo non si è concluso il ’900, ma che in Italia siamo in una sorta di sottociclo pre-risorgimentale, in cui la Nazione è di nuovo presa in ostaggio da vecchi e nuovi ordini molto simili a quelli che scaturirono dal Congresso di Vienna. Ricollocare agli inizi del terzo millennio un «immaginario filo-risorgimentale», imporlo nella comunicazione, significa recuperare l’essenza più originale ed atemporale del concetto di LIBERAZIONE NAZIONALE, mai seriamente compiuta, a cui dovrebbero partecipare le élite più nobili del pensiero anticonformista, quelle più avanzate e mobilitate da sempre esistenzialmente su certi temi. Come allora, c’è bisogno più che mai di una RIVOLUZIONE DA DENTRO su tre vettori: la rifondazione del linguaggio, la proposizione-occupazione degli immaginari di riferimento, un cambio vertiginoso e definitivo della collocazione politica (oltre, fuori e contro la destra).


Che cosa rappresenta e, in prospettiva, può rappresentare una realtà come Casa Pound?


Casa Pound è un progetto avanzato e vincente di «Avanguardia», che si sta sviluppando su tutto il territorio nazionale, l’esperienza concreta che ha strappato finalmente “pezzi di sinistra” alla sinistra, soprattutto nella comunicazione, nel metodo, nel radicamento sociale; è la tentazione di spiazzare il conformismo dei blocchi, e di non farsi ghettizzare nel minimalismo nazional-populista tra le varie destre più o meno radicali; EstremoCentroAlto è un’immagine assolutamente vincente per lo scenario di confronto dentro la post-modernità, soprattutto per lo scenario di scontro sul fronte metropolitano.

D’altra parte ho visto nascere questa “creatura” dal basso, dai primi vagiti del Cutty Sark nel 1997, nelle provocazioni di panico mediatico del gruppo Fahrenheit 451 (a proposito di occupazione degli immaginari!) agli ZetaZeroAlfa, che sono diventati con la loro musica underground l’elemento trainante del progetto umano, alle occupazioni non conformi e alle battaglie sul Mutuo Sociale e sulla proprietà della casa, fino alla Giovinezza dirompente e futur-ardita del Blocco Studentesco. Il solito vero limite di sempre (quello del romano-centrismo) lo si sta superando con il radicamento nelle altre realtà territoriali e regionali. D’altra parte bisogna alimentare e far crescere a tutti i livelli il network della Resistenza, della nostra Resistenza, questa volta una Resistenza vera, al «nulla» che inesorabilmente avanza.


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giovedì 14 gennaio 2010

Ernst Jünger: L’Anarca

Nel pensiero di Ernst Jünger, a partire dagli anni ’60, la concezione del Ribelle si evolve man mano, confluendo in quella dell’Anarca, ovvero da una concezione etica di resistenza attiva e anti-sociale, si passa a una concezione etica più ampia di resistenza passiva e a-sociale. Infatti, l’epoca storica si avviava ad essere destinata non più alla mobilitazione totale, ma alla ripetizione di periodi cesaristici e diadochici ormai privi di storia, già prefigurati nel cesarismo spengleriano, e del tutto calzanti ai nostri tempi. In quest’ottica, si rovescia perciò anche il modello proposto: da un uomo che è bandito dalla società, a un uomo che ha bandito la società da se stesso.

Al di là dell’evoluzione di pensiero determinata dal cambiamento della situazione storica, con l’avanzata dilagante del nichilismo (crisi nucleari, conflitti di decolonizzazione, Contestazione) non bisogna neanche trascurare l’ampliamento delle conoscenze di Jünger, dovuta per esempio allo studio delle religioni e delle tradizioni orientali proprio al periodo di collaborazione con Mircea Eliade alla rivista «Antaios», da loro due fondata, il che suggerisce e spiega gli spunti di connessione dell’Anarca con certe dottrine orientali, come il Tao.

L’opera fondamentale sull’Anarca, in cui questa figura è rappresentata e teorizzata, è il romanzo criptostorico Eumeswil (1972), il libro conclusivo di una trilogia narrativo-simbolica che si snoda da Auf den Marmorklippen ad Heliopolis, descrivendo le tre diverse fasi dell’affermazione della modernità, ovvero dal rovesciamento dell’ordine tradizionale alle lotte interne per il potere, fino allo stabilirsi di un nuovo ordine totalitario tirannico-demagogico.

Nella città-stato postmoderna di Eumeswil, contesa tra l’alternarsi di oligarchie tribunizie e dittature personali, vive e si racconta Martin Venator, assistente e studioso di storia all’università e al contempo steward privato del Condor, il tiranno che domina la città. Questa vicinanza al potere è vissuta in modo esterno come un’occasione preziosa di apprenderne i meccanismi, in funzione della sua attività di storico, e tuttavia comporta tutta una serie di pericoli che il protagonista prende in considerazione. Dalla sua figura e dai suoi pensieri, emerge quindi il ritratto dell’Anarca jüngeriano. L’intreccio è in realtà limitato a un lungo monologo del protagonista che descrive estesamente la situazione e i suoi pensieri, fino a giungere all’improvviso finale.

Jünger constata come in ogni uomo vi sia al fondo un principio anarchico e libertario, in modo simile all’Unico di Stirner, da cui l’Anarca si distacca però in quanto cosciente della sua libertà. Egli è totalmente indipendente, sia sul piano politico, sia su quello intellettuale e spirituale. Il suo approccio è quello spensierato e ludico del fanciullo nietzscheano, per cui il dovere è affrontato come una vacanza, e il riposo come una veglia, rimanendo continuamente presente a se stesso. Così, egli potrà sempre mantenersi libero dagli impegni della società. Questo non significa però ch’egli non può parteciparvi, anche emotivamente, ma semplicemente che manterrà sempre la sua libertà di giudizio e d’azione e una riserva di fondo, che gli consenta di declinare il proprio impegno, qualora questo non gli sia più accettabile moralmente.

La morale dell’Anarca non è un codice rigido, né un legame esterno, ma è strettamente autonoma e non codificata. L’unica autorità ch’egli riconosce è se stesso, oltre al diritto di ciascun altro individuo a porsi come Anarca. Per mantenersi puro rispetto a influenze esteriori, è sempre opportuno dunque un certo distacco, e una visione della realtà obiettiva, come quella di uno storico. Lo studio della Storia diventa istruttiva perché permette di storicizzare ogni attualità e considerarla in maniera neutra, così come rivela le regole e i meccanismi della politica e delle leggi.

Infatti, come sottolinea in più passi Jünger, l’Anarca è ben differente dall’anarchico: quest’ultimo è impegnato politicamente e socialmente, e pur disprezzando le norme della società, egli riconosce l’autorità, dal momento che vi lotta contro; di fatto, l’anarchico è bloccato dai pregiudizi e dai valori cui aderisce. Ben diversamente, l’Anarca mantiene una serena adesione e una costante vigilanza, tali da poter partecipare liberamente alla società, ma senza legami o costrizioni di sorta.

Il suo rapporto con l’autorità non è conflittuale, dal momento che egli stesso esercita autorità su se stesso. La sua libertà interiore è la stessa di un Cesare sopra i propri domini. Sa di avere ogni diritto, compreso quello di uccidere se stesso. Grazie all’analisi storica ha imparato come governare se stesso e come sono governati gli uomini. Così, egli accetta la società, ben sapendo che la sua libertà non dipende dalle libertà materiali.

In conclusione, si può osservare che l’Anarca, rispetto al Ribelle, non costituisce un cedimento o una ritirata. È sbagliata infatti la contrapposizione tra uno Jünger giovane e ribelle e uno Jünger invecchiato e imborghesito proposta da Evola, il cui Cavalcare la Tigre molto ha in comune con lo Jünger postbellico. Al contrario, il passaggio al bosco è solo una delle possibilità dell’Anarca, il quale prende le mosse dal Ribelle, ma – con una maggior coscienza del totalitarismo odierno e un declinare dell’ottimismo da parte dell’autore – questo nuovo tipo umano sviluppa queste problematiche a un livello più profondo e più elevato, dal momento che ha raggiunto un’ancor più piena libertà interiore.

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giovedì 7 gennaio 2010

La sinistra fascista e il «nuovo fascismo»



Tra le varie «anime» del movimento fascista, la corrente «sinistra» fu certamente la più rivoluzionaria e la più interessante, che non nacque col Fascismo e con questo perì, ma che comunque vi confluì con entusiasmo, contraddizioni e originalità, apportandovi contributi di grande valore.

Essa ha risvegliato ultimamente notevole interesse nella storiografia moderna, fruttando studi di estremo rilievo come Il fascismo di sinistra. Da Piazza San Sepolcro al Congresso di Verona di Luca Leonello Rimbotti (Settimo Sigillo, Roma 1989), Fratelli in camicia nera. Comunisti e fascisti dal corporativismo alla Cgil (1928-1948) di Pietro Neglie (Il Mulino, Bologna 1996) e Fascisti rossi. Da Salò al Pci, la storia sconosciuta di una migrazione politica di Paolo Buchignani (Mondadori, Milano 1998).

Ma un contributo davvero imprescindibile rimane comunque La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato di Giuseppe Parlato (Il Mulino, Bologna 2000), sia per il suo ampio respiro e l’efficace sintesi che per l’analisi circostanziata dei miti, delle proposte originali e dell’afflato rivoluzionario che animò gli esponenti della sinistra fascista.

Il prof. Parlato, esponente di punta della scuola defeliciana al pari di Francesco Perfetti, Emilio Gentile e Guglielmo Salotti, nonché relatore di recente a CasaPound per una conferenza su Nicola Bombacci, traccia nella sua opera, con altissimo spessore scientifico, la storia di questo movimento sui generis: dalle origini prefasciste e gli sviluppi protofascisti al movimentismo ante-Marcia su Roma, dalla «grande crisi» a seguito della svolta autoritaria del Regime nel 1925 alla renaissance del periodo imperiale e poi bellico, dall’esperienza della Repubblica Sociale sino ai differenti esiti nel dopoguerra.

Veniamo così a contatto con personalità quali Edmondo Rossoni, Curzio Malaparte, Sergio e Vito Panunzio, Ugo Spirito, Angelo Oliviero Olivetti, Bruno Spampanato, Tullio Cianetti, Giuseppe Landi, Giuseppe Bottai, Berto Ricci, Edoardo Malusardi, Riccardo Del Giudice, Felice Chilanti, Luigi Fontanelli, Paolo Orano, Amilcare De Ambris (fratello di Alceste), Eno Mecheri, Ugo Manunta, per non dire di tanti altri.

È doveroso tuttavia premettere che la sinistra fascista non fu mai un blocco unitario, con un’ideologia e un progetto organici, bensì vi si colgono sfumature, differenze, talvolta scontri, non sempre pacifici. Eppure questa corrente è riconoscibile grazie a caratteristiche inconfondibili quali «un forte e consapevole spirito antiborghese», «una polemica contro il modello capitalistico di produzione», «un radicato senso della socialità, che si espresse nel culto della comunità tipico del periodo squadrista ovvero nell’attenzione nei confronti delle classi meno abbienti e delle problematiche sociali», «una interpretazione della politica come rivoluzione» e il «rifiuto della democrazia liberale e la contemporanea rivendicazione, in prospettiva, di una democrazia popolare totalitaria di matrice roussoviana» (pp. 17-18*).

La nascita di questo movimento politico-ideale va ricercata, innanzitutto, nel Risorgimento progressivo e popolare di Mazzini, Garibaldi, Ferrari e Pisacane – esponenti di un socialismo non marxista e nazionale –, contrapposto al Risorgimento liberale e compromissorio di un Cavour (1), il cui esito era stato il giolittismo, che il Fascismo avrebbe dovuto demolire. Il Risorgimento mazziniano e garibaldino fu, infatti, un riferimento fondamentale per la sinistra fascista, e il suo richiamo ebbe un risveglio dirompente in Rsi all’approssimarsi della fine.
Altro precedente e mito costante dei «fascisti rossi» fu il Sindacalismo Rivoluzionario, di cui Filippo Corridoni era il massimo rappresentante, e che non mancò di essere la stella polare del sindacalismo fascista. Il Fiumanesimo, inoltre, con la sua carica rivoluzionaria, sia a livello estetico ed esistenziale che politico, fu oggetto di studio e riferimento culturale della sinistra fascista, in particolare relativamente alla Carta del Carnaro di Alceste De Ambris, che da alcuni fu indicata (ma non senza polemiche) come uno dei precedenti del Corporativismo.

Dunque, «nel periodo che va da San Sepolcro al 1925, essa [la sinistra fascista] si manifestò nel sindacalismo rossoniano, nello squadrismo, nell’avanguardismo giovanile e nel ruolo di alcuni intellettuali atipici dei quali il più significativo rappresentante fu Malaparte» (pp. 18-19). E infatti Rossoni fu il punto di riferimento della sinistra fascista in questo primo momento – con la sua attività sindacale e la rivista «La Stirpe» –, fautore e alfiere di quel «sindacalismo integrale» che alla fine fu bocciato. Ed è proprio alla fine degli anni Venti con il cosiddetto «sbloccamento» (ossia la frantumazione delle organizzazioni sindacali fasciste) e con la svolta del ’25 che la sinistra fascista entrò in un periodo di crisi, non mancando tuttavia dibattiti e vivacità intellettuale.

Con la Guerra d’Etiopia, invece, le tematiche «di sinistra» tornarono d’attualità, anche grazie alla «presenza di un agguerrito mondo universitario», alla «progressiva acquisizione di un ruolo politico del sindacato» e al «concomitante affermarsi dello Stato sociale» (p. 21). Aggiungendo, ovviamente, la polemica antiborghese suscitata da Mussolini che, se nel Duce era essenzialmente critica di costume, dagli ambienti della sinistra fascista fu combattuta con un più concreto approccio socio-economico, come si può evincere dal «bestseller» Processo alla borghesia (1939), raccolta di saggi curata da Edgardo Sulis e a cui partecipò anche Berto Ricci.
Questa rinascenza fu definita dal De Felice il «nuovo fascismo» – in opposizione a quello che lo stesso Mussolini chiamò il «Fascismo che invecchia» –, ossia un periodo di grande rinnovamento culturale, in cui i «fascisti rossi» erano decisi a portare il Fascismo alle sue estreme conseguenze, rianimando quella Rivoluzione che aveva rallentato a causa delle resistenze dell’ala moderata della classe dirigente fascista.

Il sindacato e i Guf si fecero interpreti di questa nuova stagione con contributi culturali di altissimo livello, attraverso riviste come «Il Lavoro Fascista» di Luigi Fontanelli, «L’Ordine corporativo», «Il Maglio», «Cantiere», «L’Universale» di Berto Ricci, «Primato» di Giuseppe Bottai, «La Verità» di Nicola Bombacci, senza contare i numerosissimi fogli universitari.
La polemica antiborghese, in particolare, generò acute riflessioni sui meccanismi di produzione vigenti in Italia, constatando che si dovevano fare i conti con i residui del capitalismo liberale, realizzando finalmente lo Stato corporativo che – fino ad allora – aveva sì frenato l’ingordigia del «padronato» e migliorato vistosamente le condizioni dei lavoratori, ma non era ancora riuscito a trasformare strutturalmente il sistema economico italiano, condicio sine qua non per fare veramente la Rivoluzione: «Superamento del salario, programmazione economica e nuova concezione della proprietà privata rappresentarono pertanto i tre momenti attraverso i quali si tentò di trasformare il fascismo in una forza sociale e rivoluzionaria, in grado di incidere profondamente nella situazione sociale, economica e produttiva del paese» (p. 139).

In questo senso vi furono dibattiti e proposte per l’elaborazione di un originale concetto di proprietà privata in grado di superare sia la tirannia di quello liberale che quello collettivista di stampo sovietico, i cui esiti furono raccolti nella ponderosa opera La concezione fascista della proprietà privata (1939), «summa del pensiero fascista sulla questione sociale» (p. 142). Fu altresì sostenuta la necessità del superamento del salario, inquadrata nell’ottica dello Stato corporativo – problema ben delineato nel volume di Felice Chilanti ed Ettore Soave Dominare i prezzi e superare il salario (1938).

Il progetto della sinistra fascista fu, dunque, quello di rendere il lavoro non più oggetto, bensì soggetto dell’economia, attraverso l’autonomia delle masse lavoratrici, l’autogoverno delle categorie e l’autodisciplina nell’educazione alla responsabilità e alla coscienza politica, ossia i cavalli di battaglia del sindacato.

E fu proprio il lavoro il nuovo mito dei «fascisti rossi», inteso come mistica e come pedagogia rivoluzionaria.
Già Luigi Volpicelli, che aveva collaborato con Bottai (foto) alla Carta della Scuola, aveva denunciato e contestato la scissione avvenuta tra lavoro e cultura. Un vecchio preconcetto, infatti, proprio della società borghese, voleva che la vera cultura fosse essenzialmente umanistica, escludendo così il sapere tecnico dalle categorie di scienza e cultura; lo stesso Gentile, nella celebre Riforma della Scuola (1923), non si era totalmente discostato da questo fallace pregiudizio, sicché Bottai dovette rivedere questa impostazione con la già citata Carta.

Le polemiche furono roventi, e la sinistra fascista non mancò di armare le proprie bocche da fuoco, capitalizzando numerosi successi e propagandando quello che doveva essere il vero spirito rivoluzionario del Fascismo; ad esempio sempre Edgardo Sulis scrisse, nella sua Rivoluzione ideale (1939), che «la misura della civiltà è il lavoro umano». Se nel soldato, quindi, il Fascismo aveva visto il proprio mito negli anni Venti, negli anni Trenta dovevano essere i lavoratori la nuova aristocrazia italiana, senza distinzione alcuna tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, il nerbo rivoluzionario dello «Stato Nuovo», in cui «il lavoro cessa di essere una merce per assumere il ruolo di soggetto dell’economia, uno Stato collettivo e totalitario mirante a portare (non solo giuridicamente ma concretamente, cioè nella cultura, nella morale, nel costume, ecc.) le classi e categorie proletarie sullo stesso piano delle classi e categorie intellettuali o detentrici degli strumenti della produzione» (2).

Lo stesso Gentile rivide le proprie posizioni, formulando il concetto di «umanesimo del lavoro» in Genesi e struttura della società (pubblicato postumo nel 1946), «forse il suo libro più bello, comunque, il libro suo più innovatore e rivoluzionario» secondo il giudizio dell’allievo Ugo Spirito (3).
La mistica del lavoro doveva pertanto essere il mezzo attraverso il quale creare una nuova socialità, base dello Stato Nuovo, «socialità – come scrisse Mariano Pintus – che è senso di responsabilità, dominio della competenza, primato dello spirito ed esaltazione non retorica dell’onestà» (4), giacché «la Rivoluzione fascista è anzitutto una rivoluzione sociale che dalla forza viva e sana del popolo esprime nuovi valori, forma nuove gerarchie» (5). La nuova civiltà fascista è pertanto la «civiltà del lavoro», a cui fu dedicato non a caso il noto e omonimo Palazzo all’Eur in occasione del Ventennale.

Sia la tematica del lavoro che la polemica antiborghese, quasi fondendosi, animarono gli intrepidi spiriti dei giovani dei Guf, e proprio dall’università giunsero le più interessanti manifestazioni della nuova cultura fascista, prima teorizzata, poi applicata, con conseguenze rilevanti per lo stesso periodo postbellico: «Alla cultura classica si stava sostituendo la formazione tecnica e scientifica, all’otium borghese un sapere “attivo” sempre più finalizzato alle trasformazioni sociali, alla contemplazione estetica un’arte etica e pedagogica. Di qui la indispensabilità di una cultura e di un intellettuale militanti, nuovo modello di impegno destinato a superare il concetto di cultura tipico dell’epoca liberale, lontano dalla politica, neutrale, privo di passione civile» (p. 199). Era pertanto, come intuì benissimo Augusto Del Noce già nel ’45, «l’idea di una nuova cultura, cultura che trasforma contro cultura che consola», e tale cultura che trasforma è quella «che si identifica con la società, governa con la società, conduce gli eserciti per la società, contro quell’altra che ha predicato, che ha insegnato» (6).

A questa poderosa rivoluzione culturale diede man forte una rivista come «Il Bargello», organo ufficiale del fascio fiorentino, in cui personaggi come i giovani Elio Vittorini, Vasco Pratolini e Romano Bilenchi proponevano tematiche letterarie d’avanguardia, con l’intento di «creare una letteratura per il popolo, che evidenziasse le tendenze della società moderna; stabilire un rapporto tra cultura e mondo del lavoro, con particolare attenzione a temi quali la lotta all’analfabetismo, l’urbanesimo, le condizioni di vita delle masse operaie e contadine; elaborare una cultura che suscitasse la creazione di una coscienza sociale e rivoluzionaria; condurre una critica serrata della letteratura d’evasione e decadente, in nome di un verismo e di un realismo da applicarsi nei diversi rami della cultura» (p. 204).

E infatti il modello letterario dei giovani fascisti non fu più il retorico e aristocratico D’Annunzio, bensì Giovanni Verga, la cui poetica di «verità» focalizzava l’attenzione sull’elemento sociale, indicando agli universitari «un’arte rivoluzionaria ispirata ad una umanità che soffre e spera» (7).
Il verismo e l’impegno nel sociale, che privilegiavano la quotidianità e la sua autenticità, generarono conseguentemente un rifiuto e una critica severa al «decadentismo e all’intimismo, al lirismo nostalgico, alla letteratura dei sentimenti, bollati unanimemente dai giovani universitari come “borghesi”» (p. 208), tanto che la rivista «Libro e Moschetto» lanciò alla fine del 1939 una significativa Inchiesta sul romanzo, cui partecipò anche Ezra Pound. Da qui le fiere rivendicazioni di Sergio Lepri: «La nostra attuale narrativa (…) è quasi sempre un racconto non di vita aderente a una realtà attuale, ma di una vita mediata dalla memoria, dove il centro lirico è posto in una ricerca di smarrite stagioni (…). Vorremmo, ma questo forse lo permetterà unicamente una mutata realtà sociale e la conclusione di quel rinnovamento della società che è oggi in atto, che il racconto non fosse solo confessione e memoria (…) ma presenza attiva dell’uomo, centrato nel suo destino e nella sua volontà» (8).

Se quindi in ambito letterario gli alfieri della nuova poetica sociale furono Elio Vittorini, Vasco Pratolini, Luigi Bartolini e Cesare Pavese, per quanto riguarda le arti figurative i giovani fascisti si ispirarono a Manzù, Guttuso, De Chirico e, soprattutto, a quel Sironi stile anni Trenta che celebrava con le sue opere la nascente «civiltà del lavoro».
I Guf iniziarono inoltre una polemica verso il razionalismo piacentiniano, teorizzando una nuova architettura che si occupasse prevalentemente dell’edificazione di case popolari, per la quale si cercava di elaborare un’estetica in grado di esaltare la figura del lavoratore in cui il lavoratore stesso – benché incolto – si riconoscesse.
Ma è soprattutto all’arte cinematografica che gli universitari fascisti dedicarono la loro attenzione, rivestendo un ruolo indiscusso d’avanguardia, attraverso la funzione fondamentale del documentario dei CineGuf. Come si può osservare – e come è abbastanza noto, eccetto ritardi oramai ingiustificabili – il neorealismo nasce ben prima del dopoguerra, e specificamente con il Fascismo grazie alle proprie avanguardie giovanili.

Immediata conseguenza di questa nuova stagione culturale fu la rivalutazione del lavoro manuale e del sapere tecnico-scientifico, come ben sintetizzò Angelo Da Prato: «Noi vogliamo fare discendere (…) la scuola dalla cattedra, fuori spesso dal mondo e assorta in vuoti razionalismi celebrali, verso la vita (…). Questa nuova affermazione del concetto di lavoro (…) parte cioè dalla ribellione contro il concetto liberale-borghese del lavoro e dei suoi valori, secondo cui il lavoro era ancora il triste fardello cui l’uomo era costretto ad essere legato» (9).

Le leggi razziali, poi, lasciarono alquanto freddi gli esponenti della sinistra fascista, se si fa eccezione del sindacalista Tullio Cianetti, apertamente filotedesco.
Fu invece con la guerra civile spagnola, e il relativo impegno bellico italiano, che i «fascisti rossi» si distinsero con posizioni fuori dal coro, dietro un mal dissimulato unanimismo, tanto che il sindacato e intellettuali anticonformisti del calibro di Berto Ricci si profusero nella difesa de «Il Lavoro», rivista dei portuali genovesi, e «I problemi del lavoro» di Rinaldo Rigola, apertamente schierati al fianco dei repubblicani iberici e pertanto contro il conservatorismo e le forze cattoliche reazionarie di Franco.

Al contrario il conflitto mondiale fu sostenuto dalla sinistra fascista in quanto guerra «rivoluzionaria», «di indipendenza» o addirittura «di liberazione» combattuta dai «popoli giovani e proletari» contro le «demoplutocrazie» occidentali: «Questa è una guerra che deriva necessariamente da tutta la politica sociale svolta da anni dal Regime (…): è l’ultimo colpo di spalla, quello decisivo, contro un sistema plutocratico che si opponeva dall’esterno a che il popolo italiano avesse il giusto profitto del suo lavoro nel mondo» (10).

Si rianimò quindi la polemica antiborghese, che vide tra i protagonisti Camillo Pellizzi, presidente dell’Istituto Nazionale Fascista di Cultura oltre che direttore di «Civiltà Fascista», il quale scrisse violentemente che «il nostro “ordine” non può essere, evidentemente, l’ordine dei borghesi», rincarando poi la dose in merito alla guerra contro le demoplutocrazie e l’Unione Sovietica, affermando: «si parli pure di “difesa della civiltà”, ma è indispensabile non gravare tale concetto di un senso statico e conservatore: poiché civiltà è sempre sistema ed equilibrio di forze spirituali, liberamente creatrici. Una civiltà conservatrice è, idealmente, un non senso. Una civiltà che può essere solo difesa, è come morta. La civiltà si difende sviluppandola, trasformandola» (11).

Prima del 25 luglio è poi da segnalare l’interessantissimo progetto di Tullio Cianetti (foto), ministro delle Corporazioni dal febbraio del ’43, «senza dubbio il più intelligente e più famoso interprete di quella linea populista che del fascismo cercava di cogliere l’aspetto sociale» (p. 225).
Ebbene, Cianetti intendeva perseguire i presupposti del disegno economico fascista, potenziando e realizzando finalmente lo Stato corporativo. Assumendo l’eredità di Rossoni e Luigi Razza, il neoministro preparò le varie riforme atte allo scopo: effettiva funzione legislativa delle Corporazioni (che la Camera dei Fasci e delle Corporazioni possedeva solo parzialmente), l’agognato autogoverno delle categorie (antico mito del sindacalismo), pianificazione dell’economia (non più delegata allo Stato ma alle Corporazioni, che finalmente si dovevano costituire Stato esse stesse). Il tutto inserito in quel progetto di «democrazia totalitaria» che era la meta dichiarata della sinistra fascista, una volta esauritasi la dittatura.
Il piano elaborato da Cianetti, avallato da Mussolini, non fu – come ovvio – di possibile attuazione, a causa della caduta del Regime. Ma le intenzioni erano state espresse, la strada da percorrere indicata e delineata, come dimostra la scelta del Duce di aver affidato il ministero a Cianetti.

E così, con la fine del Fascismo e la sconfitta bellica, i sogni e gli ideali dei tanti giovani che avevano creduto nella Rivoluzione fascista, portatrice di una nuova civiltà, si spensero nel sangue, proprio mentre la Repubblica Sociale lasciava il proprio testamento alle generazioni future con la Socializzazione delle Imprese.

A fronte di questa breve e sintetica disamina, è indispensabile chiarire alcuni problemi e incomprensioni, spesso generati in maniera interessata e in malafede.

Innanzitutto il problema della «fronda», ossia quel pensiero debole che vuole gli esponenti della sinistra fascista sostenitori del Regime per mera necessità, i quali mostrarono solo in seguito il loro vero volto di antifascisti: «in realtà fu il problema della riforma interna al fascismo condotta da giovani, da universitari, da sindacalisti che contestavano l’unanimismo del regime e le sue forme barocche di consenso per giungere a un fascismo più mistico, più spiritualista, più sociale, meno compromesso con la classe dirigente liberale e borghese: in altri termini, non soltanto non era un antifascismo criptico, ma semmai si trattava di un “iperfascismo”, più totalitario e più democratico insieme» (pp. 146-7).

È altresì inaccettabile la tesi secondo cui il Regime, reazionario e liberticida, avrebbe soffocato l’anelito rivoluzionario e ingenuo delle giovani leve, destinate all’insuccesso e alla frustrazione. Il gradualismo pragmatico e politicamente intelligente di Mussolini, infatti, non escludeva affatto l’effettiva realizzazione della Rivoluzione fascista (i cui presupposti e traguardi erano stati esplicitamente delineati), anzi le ultime scelte del Duce confermano irrefutabilmente che il «nuovo fascismo» lo avrebbe costruito in buona parte quella «giovane sinistra» che – come mette ben in rilievo il prof. Parlato – «sarebbe stata la classe dirigente del fascismo se esso fosse durato oltre il dramma del conflitto» (p. 104).

Ed è proprio da questo appuntamento perso con la storia, la quale col Fascismo e quella generazione d’Italia fu particolarmente severa e ingenerosa, che nacque questo «progetto mancato», che è stato senza dubbio il più affascinante e più rivoluzionario che l’Italia postunitaria abbia mai conosciuto.


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* Le pagine indicate tra parentesi si riferiscono alla già citata opera G. PARLATO, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, Il Mulino, Bologna 2000.

(1) Vd. ad es. C. MALAPARTE, L’Europa vivente e altri saggi politici (1921-1931), Vallecchi, Firenze 1961, p. 19, in cui l’autore parla di un Risorgimento «imbastardito» dalle idee straniere, il cui simbolo è «il sorriso machiavellico e, disgraziatamente, italianissimo di Cavour».

(2) R. MAZZETTI, Proletariato e aristocrazia, Meridiani, Bologna 1936, p. 49.

(3) Giovanni Gentile, Sansoni, Firenze 1969, pp. 193-4.

(4) I giovani all’opposizione, in «Roma Fascista», 10 luglio 1941.

(5) B. BIAGI, La politica del lavoro nel diritto fascista, Le Monnier, Firenze 1939, p. 231.

(6) Di una nuova cultura, in «Il Popolo Nuovo», 6-7 ottobre 1945.

(7) M. ALICATA, Verità e poesia: Verga e il cinema italiano, in «Cinema», 10 ottobre 1941.

(8) Il problema della cultura, in «Rivoluzione», 10 giugno 1942.

(9) Lavoro nelle Università, in «Posizione», 10 gennaio 1943.

(10) G. ANSALDO, Guerra proletaria, in «Il Telegrafo», 18 ottobre 1940. La dizione «guerra di liberazione» appartiene invece ad Italicus, con cui titolò il suo volume La guerra contro l’Inghilterra guerra di liberazione (1940).

(11) La guerra è una, in «Civiltà Fascista», luglio 1941.

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