mercoledì 31 ottobre 2012

Giuseppe Mazzini: il profeta della «Nuova Italia»


L’articolo sarà pubblicato in «Occidentale», novembre 2012.

Grazie agli sterminati contributi (certo per quantità ma non sempre per valore) prodotti in occasione del 150° anniversario dell’Unità, si era iniziato un più vasto processo di rilettura del Risorgimento e dei suoi protagonisti, presto cessato, però, a causa dell’evidente fastidio di parlare di un’Italia «una e indipendente» nel mentre si assisteva all’insediamento (illegittimo) di uno dei governi più antinazionali e servili che la storia del nostro disgraziato popolo ricordi. Tra oleografie istituzionali, rivendicazioni neoborboniche, rivalse padane e reazioni neoguelfe, tuttavia abbiamo anche assistito a una quanto mai opportuna riconciliazione di alcuni ambienti eredi del fascismo con il nostro moto risorgimentale, grazie principalmente a due opere di cui abbiamo già parlato qui sulle pagine di «Occidentale»: la raccolta di saggi Una Patria, una Nazione, un Popolo (Herald Editore), curata da Pietro Cappellari, e l’e-book Dell’elmo di Scipio di Sandro Consolato (Flower-ed). 

Ad ogni modo, tra le opere pubblicate nel 2011 o poco prima, una in particolare è stata pressoché trascurata e lasciata sotto traccia, ossia l’ottimo Mazzini di Giovanni Belardelli (il Mulino, pp. 264, € 12). Docente di Storia del pensiero politico contemporaneo all’Università di Perugia, Belardelli si è anche distinto per il volume Il Ventennio degli intellettuali (Laterza, 2005) incentrato su aspetti notevoli della cultura fascista.  

Il suo Mazzini, più in particolare, risulta quanto mai utile per comprendere sino in fondo l’apporto decisivo che il patriota genovese fornì al nostro processo di unificazione nazionale. Un contributo più spirituale, morale e culturale che non squisitamente «politico-fattuale» (si pensi all’esempio glorioso ma purtroppo effimero della Repubblica romana), che si rivelò nondimeno fondamentale per mantenere ardente la fiamma delle nostre rivendicazioni d’indipendenza e di unità, svolgendo un ruolo tutt’altro che secondario nello spronare le varie correnti patriottiche del Risorgimento.

Non fosse solo per questo (e già basterebbe!), non si può inoltre trascurare l’influenza che il suo esempio esercitò sugli intrepidi giovani che daranno vita alla rivoluzione italiana del Novecento. Ci siamo del resto già altre volte soffermati sul debito contratto dal fascismo nei confronti dell’eredità politica e culturale mazziniana, in particolare per quanto riguarda il primato della nazione sulla classe, lo spiritualismo anti-materialistico, la rivoluzione sociale tramite l’associazionismo e la collaborazione interclassista, la visione della politica come missione e pedagogia collettiva, l’identificazione di pensiero e azione, l’etica del dovere e dell’eroismo, l’approccio volontaristico alla realtà, il ruolo centrale di élites volitive e d’avanguardia, il mito della «Terza Italia» e della nuova Roma. Senza contare le numerose venature romantiche che caratterizzavano la mentalità e l’azione di sindacalisti rivoluzionari, di interventisti e di molti esponenti dello squadrismo che provenivano dalla tradizione politica repubblicana. Tanto che Emilio Gentile ha inserito Mazzini nel vasto magma ideologico da cui prese forma il movimento mussoliniano, e addirittura si è potuto parlare di un «Mazzini in “camicia nera”» (P. Benedetti).     

L’Italia postbellica, viceversa, si è richiamata a Mazzini solo nella misura in cui egli rientrava nell’interpretazione ufficiale e oramai oleografica e vuotamente retorica del nostro Risorgimento, formulata dall’entourage sabaudo, il quale aveva già in larga parte depoliticizzato e depotenziato il verbo mazziniano, espungendovi i suoi caratteri rivoluzionari e anti-monarchici. Il suo abbandono nel secondo dopoguerra era perciò naturale e scontato, visto che le ardenti parole d’ordine di Mazzini, così come i suoi richiami al primato dell’Italia sulle nazioni, ben poco si attagliavano a governi e intellettuali che si erano prostituiti alla Casa Bianca o al Cremlino. Imperativi di fuoco che, oltretutto, spesso si coloravano di nero.

Un discorso a parte, inoltre, merita l’opportunità e la legittimità (non dico filologica, ma perlomeno ideale) di un «recupero» di Mazzini all’interno dell’immaginario rivoluzionario e avanguardistico, fortemente intriso di vitalismo, che è alla base del «fascismo del terzo millennio». Se per Garibaldi e il garibaldinismo non si sono presentati problemi di sorta, grazie agli elementi nazionali e sociali (ma non marxisti) che caratterizzavano l’«eroe dei due mondi», nonché agli ideali di giovinezza e spirito di sacrificio che permearono sempre il volontarismo delle camicie rosse, potrebbe invece apparire una stonatura il richiamo ideale a quel Mazzini che Carducci immortalò come «grande, austero, immoto» e dal «volto che giammai non rise». Quello stesso Mazzini che, già durante gli anni universitari, decise di vestirsi a lutto per l’oppressione della sua patria (abitudine che conservò per tutta la vita).

Eppure, accanto al Mazzini brumoso che volontariamente teneva a rappresentarsi come un profeta e un martire, quasi un «santone», è esistito e convissuto anche il Mazzini dall’intraprendenza romantica e ribelle, il quale – come ben illustra Belardelli – fu tra i primi del suo tempo a fare della giovinezza e del dato generazionale un «diretto valore politico». Uno spirito indomito, oltretutto, che si manifestò già nella sua prima esperienza politica, allorché partecipò, a neanche 17 anni, ai moti studenteschi di Genova nel marzo 1821. Armato di bastone, si recò assieme ai suoi compagni dal governatore del capoluogo ligure per reclamare, con fare minaccioso, la Costituzione. Ebbene sì, quando c’erano in gioco i destini della nazione, chi aveva 17 anni poteva anche brandire i bastoni con l’intenzione, peraltro, di usarli. Si capisce ora il perché chi non tollera fumogeni e passeggiate futuriste per i corridoi di scuola difficilmente potrebbe apprezzare uno dei più grandi padri della patria… 

Ma, per tornare a noi, il culto tipicamente romantico della giovinezza e dei sani ardori giovanili contrapposti alla pusillanime prudenza dei vecchi (temi recepiti dalla lettura di Foscolo, Goethe e Byron) influenzò dunque fortemente il giovane Giuseppe e la prima associazione politica mazziniana (così come la sua pluridecennale esperienza cospirativa). La Giovine Italia infatti (e già il nome è significativo) fu indirizzata per espressa volontà di Mazzini a chi non superasse i 40 anni d’età. Si tratta dello stesso Mazzini che lasciò scritto, tra le altre cose, che «la gioventù è bollente per istinto, irrequieta per abbondanza di vita, costante ne’ propositi per vigore di sensazioni, sprezzatrice della morte per difetto di calcolo». Una giovinezza debordante di vita e di eroismo che – anche secondo Fichte – assumeva caratteri dirompenti e rivoluzionari: i giovani infatti, per il filosofo tedesco, «recano in petto un mondo tutto nuovo e diverso». Sembra di sentire Marinetti…

Insomma, il libro di Belardelli è importante per almeno due motivi: da una parte restituisce al pensiero mazziniano i suoi reali contorni (strappandolo quindi alle riletture democratiche e liberali di comodo), dall’altra, invece, ci mostra un Mazzini nella duplice veste di rivoluzionario e ribelle oltreché di profeta e martire di un’idea di potenza e libertà. Non sarebbe male, pertanto, riappropriarci di uno dei più puri protagonisti del Risorgimento, il quale già con la Repubblica romana ci ha dimostrato come sia possibile conciliare quei due elementi che veramente nobilitano la politica, ossia popolo e rivoluzione. Un uomo che fece della sua missione e del suo «apostolato» un dato carnale, vissuto, offrendosi all’esilio e alle più grandi sofferenze. Un uomo che, di contro ai moderati e ai vili d’ogni risma, per l’Italia era stato capace di concepire un destino. Un destino che oggi, nell’epoca dei governi tecnici antinazionali, dovremmo avere il coraggio di riprenderci. 

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martedì 5 giugno 2012

Il Risorgimento nel mito di Roma

L’articolo sarà pubblicato in «Occidentale», giugno 2012.

In occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia – oltre ai festeggiamenti e ai «solenni» discorsi delle alte cariche dello Stato – è stata prodotta una mole imponente di saggi, monografie, miscellanee, conferenze e convegni che hanno trattato del nostro Risorgimento. Molto spesso a sproposito, lasciando oltretutto ampio spazio ai vari rigurgiti antinazionali (padani, neoborbonici, neoguelfi, internazionalisti, mondialisti, ecc. ecc.). E anche la «nebulosa» neofascista ha in molti casi snobbato la memoria del nostro processo unitario, secondo schemi e modalità assai complessi e stratificati di cui abbiamo ampiamente trattato qui sulle colonne di «Occidentale».

Eppure, proprio in seno all’ambiente nazional-rivoluzionario, abbiamo potuto apprezzare una coraggiosa, doverosa e puntuale messa in discussione della tradizione antirisorgimentale neofascista. E questo, in particolare, grazie al volume miscellaneo curato da Pietro Cappellari Una Patria, una Nazione, un Popolo (Herald Editore), il quale segna un punto di rottura all’interno del proprio ambiente di riferimento, e che si propone anche come punto di non ritorno: come fine degli equivoci, come riappropriazione di una gloriosa tradizione che, invece di essere dimenticata o distorta o umiliata, deve essere al contrario proiettata, decantata e potenziata, nell’avvenire prossimo e remoto.  

È proprio in tal contesto che si inserisce l’ultima fatica di Sandro Consolato, ossia Dell’elmo di Scipio. Risorgimento, storia d’Italia e memoria di Roma (Flower-ed, pp. 331, € 14). Consolato, cultore di «studi tradizionali» e direttore de «La Cittadella», per quest’operazione editoriale ha scelto un’opzione innovativa e coraggiosa, cioè la formula dell’e-book: gli amanti del cartaceo potrebbero scoraggiarsi nell’impresa, eppure – premetto subito – la lettura del documento telematico non risulta affatto scomoda o limitante. Tra l’altro l’opera merita un’attenta e meditata lettura poiché – sulla scorta di una vasta e valida bibliografia, oltreché grazie a una interessante chiave di interpretazione – l’autore confuta una per una tutte le distorsioni neofasciste del Risorgimento, mettendo altresì in luce la plurisecolare continuità, talvolta palese talaltra sotterranea, dell’ideale unitario italiano all’insegna di Roma e della romanità.

La specificità tutta italiana di quest’idea di ri-sorgenza (pensiamo, oltre a «Risorgimento», a termini quali «Rinascimento» e «Riscossa»), ossia l’idea del ripiego – per usare una formula locchiana – su un’origine mitica e carica di gloria, era stata del resto già notata e posta in rilievo da un insospettabile come Antonio Gramsci (insospettabile solo per chi ragiona ancora con paraocchi ideologici), che Consolato opportunamente cita: «Nel linguaggio storico-politico italiano è da notare tutta una serie di espressioni legate strettamente al modo tradizionale di concepire la storia della nazione e della cultura italiana, che è difficile e talvolta impossibile di tradurre nelle lingue straniere. […] Nasce nell’Ottocento il termine “Risorgimento” in senso più strettamente nazionale e politico, accompagnato dalle altre espressioni di “Riscossa nazionale” e “riscatto nazionale”: tutti esprimono il concetto del ritorno a uno stato di cose già esistito nel passato o di “ripresa” offensiva (“riscossa”) delle energie nazionali disperse intorno a un nucleo militante e concentrato, o di emancipazione da uno stato di servitù per ritornare alla primitiva autonomia (“riscatto”). Sono difficili da tradurre appunto perché strettamente legate alla tradizione letteraria-nazionale di una continuità essenziale della storia svoltasi nella penisola italiana, da Roma all’unità dello Stato moderno, per cui si concepisce la nazione italiana “nata” o “sorta” con Roma, si pensa che la cultura greco-romana sia “rinata”, la nazione sia “risorta”, ecc. La parola “riscossa” è del linguaggio militare francese, ma poi si è legata alla nozione di un organismo vivo che cade in letargia e si riscuote, sebbene non si possa negare che le è rimasto un po’ del primitivo senso militare».

L’acume di Gramsci, in effetti, lascia sbalorditi: in questa lucidissima notazione dell’intellettuale comunista, infatti, è contenuta l’idea fondamentale del ritorno all’origine mitica visto non come restaurazione anacronistica o reazionaria di un passato morto e sepolto, bensì come risveglio delle «energie nazionali», come progetto d’avvenire, come «ripresa offensiva», ossia come avanzata. È una concezione squisitamente rivoluzionaria, anche nel senso «tradizionale» indicato da Consolato, il quale intende la «ri-voluzione come ri-torno, quasi astronomicamente scandito, a una condizione originaria perduta in virtù di un perturbamento intervenuto nell’ordo rerum». Non fu d’altronde già D’Annunzio, non a caso cultore del mondo greco-romano nonché «Vate» della nuova Italia, a definire la nostra nazione, con un magnifico epiteto dall’eco omerica, la «Semprerinascente»?

E Consolato, di fatti, tenta di rintracciare il filo rosso del nostro ideale nazionale dall’Antichità sino alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, passando per i sovrani longobardi, Federico II di Svevia, Dante, Petrarca, Cola Di Rienzo, Alfonso d’Aragona, Machiavelli, Campanella, Vico, Filangieri, Romagnosi, Vittorio Emanuele II, Mazzini, Garibaldi e tanti altri, più o meno conosciuti dal grande pubblico, i quali desiderarono ardentemente e prepararono lungo i secoli la rinascita dell’Italia nel nome augusto di Roma.

Proprio in questo contesto, del resto, si inserisce la critica spietata, ma acuta e documentata, delle fallaci interpretazioni neofasciste del Risorgimento. A cominciare da quella – interna dunque al «movimento tradizionale» – di Julius Evola, la quale aveva d’altra parte già ricevuto le obiezioni puntuali di Adriano Romualdi, uno tra i migliori allievi del Barone. Evola, infatti, fece sua in buona parte la lettura demonizzante della corrente neoguelfa («a destra» rappresentata soprattutto da Attilio Mordini), la quale vedeva nel Risorgimento un complotto massonico ai danni della Chiesa e del «mondo tradizionale», rintracciando viceversa i paladini della Tradizione nella Santa Alleanza, nell’Austria asburgica, nelle potenze della Restaurazione e in quel Metternich (l’«ultimo grande europeo» secondo Evola) che reputava l’Italia una mera «espressione geografica». Tutto un mondo, cioè, che tra l’altro – argomenta l’autore – si presenta tutt’altro che cristallino e in regola anche da un punto di vista strettamente tradizionale, non mancando tra le sue fila persone equivoche, ambigue e poco nobili, le quali talvolta intrattenevano inquietanti rapporti con varie sette e massonerie ben poco rispettabili.

E questo proprio mentre l’autore illustra, con dovizia di particolari e con valida documentazione, come presso molti gruppi insorgenti e unitaristi la Massoneria svolgesse la «funzione di “copertura” di realtà iniziatiche italiane ben più antiche della Libera Muratoria nata in Inghilterra nel 1717», con gli esempi di spicco della Carboneria, della Società dei Raggi e della Guelfia (ma il nome non tragga in inganno), le quali molto spesso si caratterizzavano in quanto depositarie dell’antica sapienza pitagorica. Così si può dire del resto di Garibaldi, spesso disprezzato dalla vulgata neoguelfa in quanto appartenente alla Massoneria, laddove Consolato mette ben in luce la poco nota ma radicatissima ispirazione romana dell’«eroe dei due mondi».

Insomma, ce n’è abbastanza per mandare in soffitta settant’anni di neofascismo reazionario e antirisorgimentale, riattivando invece – sia secondo tradizione che secondo rivoluzione (che è la quintessenziale sintesi fascista) – il nostro mito più puro e originario. Un mito che è carico di storia e di gloria, ma anche – se noi ancora lo vorremo – del più splendido destino.

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mercoledì 28 marzo 2012

Le origini dell’ideologia fascista

L’articolo sarà pubblicato in «Occidentale», aprile 2012.

Oramai esaurita e introvabile in libreria, è stata recentemente ristampata la seconda edizione (1996) di Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), opera tra le più importanti dell’insigne storico Emilio Gentile (Il Mulino, pp. 512, € 16). Si tratta di uno dei capisaldi della moderna storiografia sulla dottrina fascista, «catturata» nel momento della sua nascita e del suo evolversi sino alla svolta del 1925, allorché il governo di Mussolini si fece regime e il pensiero fascista entrò nella sua fase matura, ancorché tutt’altro che concluso e  cristallizzato, come si addice, del resto, a ogni moto spirituale e culturale schiettamente rivoluzionario, il quale non è mai stasi, ma è movimento, avanzata. Che non è mai contemplazione del passato e appagamento nelle mete raggiunte, bensì sguardo audace e proiezione entusiastica verso l’avvenire. Un avvenire che, com’è noto, è sempre incerto e, quindi, sommamente e meravigliosamente intrigante. Un pensiero, insomma, che fu creato dall’ardente fuoco di innovatori e di avanguardisti, e non certo dalla mente fredda e calcolatrice del borghese in vestaglia e pantofole, sempre timoroso del domani e, pertanto, nemico di ogni vera e autentica rivoluzione.

Il libro – arricchito rispetto alla prima edizione (1975) di un saggio introduttivo intitolato «La modernità totalitaria» – è fondamentale almeno per due motivi. Innanzitutto perché illustra con rigore ed efficacia non comuni il fiume impetuoso degli ideali fascisti in tutti i suoi rivoli e i suoi affluenti. In secondo luogo perché, al tempo della sua prima pubblicazione, fu una delle prime opere che, sulla scia della «rivoluzione storiografica» defeliciana, contribuirono a far giustizia di tutte le viete e artificiose teorie sul fascismo sorte nel dopoguerra, semplicistiche e ultra-ideologizzate: in particolare quella marxista, che vedeva nel fascismo una rozza e brutale reazione al soldo dell’alta borghesia industriale; e quella liberale, che interpretava il «fenomeno fascista» come «male del secolo», scaturito dall’esperienza disumanizzante della Grande Guerra, e di conseguenza come un imprevisto e ingombrante ostacolo alle «magnifiche sorti e progressive» dell’umanità borghese e neo/post-illuminista.

Gentile al contrario, destrutturando queste vecchie a fallaci interpretazioni, ricostruisce il percorso aurorale dell’ideologia fascista grazie al ricorso sapiente e antipregiudiziale alle fonti primarie dell’epoca, analizzando le parole e gli scritti degli uomini e degli intellettuali che, direttamente o indirettamente, contribuirono all’edificazione della cultura fascista. A cominciare, ovviamente, da Benito Mussolini, ossia da quel Mussolini socialista che, venuto a contatto con l’opera di filosofi e pensatori quali Nietzsche, Stirner, Sorel e Pareto, operò una revisione «idealistica» e perciò volontaristica del socialismo, che rappresentò senz’altro il primo passo verso la sua futura «presa di coscienza» fascista.

Tra le innumerevoli componenti culturali del fascismo, ritroviamo poi quelle correnti ardentemente e causticamente rivoluzionarie che, oggi, costituiscono la piattaforma esistenziale e mitica del fascismo del terzo millennio. Mi riferisco, in particolare, alle origini futur-ardite, fiumane, sindacaliste e squadriste del movimento mussoliniano, latrici di uno stile di vita sostanziato di «avventura, eroismo e spirito di sacrificio»: tutto ciò ben rappresenta, del resto, l’essenza di quel «romanticismo fascista» descritto già all’inizio degli anni Sessanta da Paul Sérant. Radici nobili e rivoluzionarie, quindi, che le tartarughe frecciate di CasaPound – attraverso una riappropriazione volontaristica dell’origine fascista, depurata dalle scorie passatiste e conservatrici – hanno posto a pietra angolare della loro azione politica avanguardistica.

Ma non potremmo neanche tacere le correnti attualiste, relativiste e scettiche del fascismo, incarnate dai loro capiscuola Giovanni Gentile, Adriano Tilgher e Giuseppe Rensi. Maggiormente conosciuto il primo, è stato certamente un gran merito dell’Autore aver riscoperto gli ultimi due. Tilgher, ad esempio, immettendo il fascismo – con l’entusiastica adesione del Duce – nell’alveo delle grandi correnti filosofiche relativistiche, sanciva la distruzione, o quanto meno la messa al bando di ogni «metafisica» tirannica e limitante, riconducendo pertanto il movimento delle camicie nere al suo specifico volontarismo d’origine nietzscheana. Stesso discorso vale per Rensi, esponente di punta dello scetticismo moderno (ben diverso da quello «classico»), anche se talora il suo pensiero si carica di tonalità eccessivamente naturalistiche e pessimistiche, le quali però – a onor del vero – ben si sposavano con alcuni aspetti di derivazione machiavelliana propri della mentalità di Mussolini.

Ciò che emerge, in sostanza, dalla ricognizione di Emilio Gentile nel sostrato ideologico del fascismo, è la sua natura eminentemente rivoluzionaria e moderna. Ideologia anti-ideologica, alla quale riconosceva un ruolo puramente strumentale, «il fascismo riassumeva nel mito dello Stato e nell’attivismo come ideale di vita i caratteri essenziali della sua ideologia, che lo distinsero dalle altre ideologie politiche del nostro tempo». Primato della politica e dell’azione, mito della nazione e dello Stato, culto della giovinezza e dell’eroismo, proiezione tragica e carica di destino nell’avvenire più remoto: questi i fondamenti del fascismo che, tra l’altro, sanciscono la sua originalità e autonomia rispetto a qualsiasi altra ideologia. A partire innanzitutto dal nazionalismo borghese e ottocentesco, in barba a tutte le superate speculazioni sulla «cattura ideologica» del fascismo da parte del nazionalismo. Come evidenzia Emilio Gentile, infatti, «il fascismo affermò l’idea della nazione come mito, mentre per i nazionalisti la nazione era una realtà naturale, per i reazionari un principio tradizionalista indipendente dalla volontà degli individui, un passato che condiziona il presente e determina il futuro secondo percorsi immutabili». Ovvero, per dirla con Henri Lemaître, la cultura fascista «concepisce la nazione non essenzialmente come eredità di valori, ma piuttosto come un divenire di potenza».

Divenire di potenza, prospettiva millenaria, primavera di bellezza. Niente di più prossimo al trittico casapoundiano etica-epica-estetica, recentemente tradotto da Scianca in volontà di potenza, volontà di forma, volontà di destino. Come si può vedere, ripercorrere le origini dell’ideologia fascista significa anche fare chiarezza su sé stessi. Ma – e ciò è fondamentale – tale percorso non è assolutamente quello del gambero. L’origine, cioè, non è mai alle nostre spalle, è sempre a venire. La rivoluzione, in altri termini, riguarda sia il passato che il futuro. La rivoluzione è ovunque e in ogni momento, è sempre in atto.

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lunedì 5 marzo 2012

La nuova politica e la nazionalizzazione delle masse

L’articolo sarà pubblicato in «Occidentale», marzo 2012.  

«Pochi libri – forse nessuno tra quelli pubblicati in questi ultimi anni – hanno tanta potenza suggestiva e sono così ricchi di vera cultura e di stimoli intellettuali e di suggerimenti metodologici e tematici come questo di George L. Mosse. Fare in questo campo riferimenti, confronti, è sempre difficile. Eppure, se un riferimento, un confronto è possibile, i nomi, i titoli che vengono in mente sono due: quello di Johan Huizinga con il suo Autunno del Medioevo e quello di Marc Bloch con il suo I re taumaturghi». Così si esprimeva, con toni elogiativi, Renzo De Felice presentando al pubblico italiano nel 1975 l’opera di Mosse La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), recentemente ristampata dalla casa editrice Il Mulino (pp. 312; € 12).

Il lavoro di Mosse, in effetti, è di una importanza fondamentale nella storia degli studi sulle rivoluzioni nazionali del primo Novecento. Intanto perché mostra, in tutta la sua chiarezza, l’intrinseca modernità del cosiddetto «fenomeno fascista» (a cui noi preferiamo dare, in accordo con Giorgio Locchi, la definizione di «tendenza sovrumanista»), il quale dunque si distingueva nettamente da ogni altro movimento conservatore o reazionario sin lì presente sulla scena politica. In secondo luogo perché esso illustra a dovere il vasto e trasversale consenso che il nuovo stile politico riuscì a catalizzare e poi a incanalare nel suo progetto d’ampio respiro, denunciando così la patente debolezza di ogni speculazione semplicistica e interessata su termini quali «terrore», «propaganda» e «demagogia» applicati alla prassi politica dei governi nazional-rivoluzionari tra le due guerre. Da tutto ciò, tra l’altro, consegue la rivalutazione dell’immaginario mitico e simbolico che permeò la nuova politica «fascista», il quale non è più visto, pertanto, come mero gusto per la teatralità o – peggio – come mezzo di assoggettamento delle masse, ma piuttosto come «linguaggio» privilegiato per rendere effettiva e tangibile l’unità morale e spirituale della nazione.

Procediamo però con una premessa terminologica. Quando Mosse parla di «nuova politica», egli intende, sostanzialmente, quell’innovativo «stile politico» sorto con la Rivoluzione francese, il quale si sviluppò grazie alla prepotente irruzione delle masse nella storia, della quale esse si presentavano ora come protagoniste. Si tratta, più in particolare, della dirompente ascesa di quella che Jean-Jacques Rousseau definì la «volontà generale», che – in un mondo in cui «Dio è morto» – condusse a poco a poco alla creazione di una religione laica e secolare, e alla nascita di un «culto del popolo per se stesso». Mosse, dunque, analizza l’evoluzione della nuova politica nella Germania ottocentesca per giungere sino al nazionalsocialismo, tracciando determinatamente lo sviluppo di quella ch’egli definisce la «nazionalizzazione delle masse», ossia il progressivo sorgere della mistica nazionale e comunitaria attraverso cui il popolo tedesco creò quella liturgia politica che doveva cementare e inverare la sua unità spirituale.

Di qui l’importanza decisiva del ruolo svolto dai comitati patriottici, dalle confraternite studentesche, dalle associazioni ginniche e corali, dagli architetti neoclassici che – a partire dalle guerre anti-napoleoniche che risvegliarono l’orgoglio germanico – parteciparono attivamente al sostegno di questa euforia nazionalistica e che decisamente concorsero – attraverso i monumenti nazionali, le feste, le cerimonie, ecc. – alla creazione di una tradizione in cui poi si inserì il nazionalsocialismo nel periodo postbellico, allorché la fierezza dei tedeschi era stata messa a dura prova dalla sconfitta nella Grande Guerra e poi sostanzialmente calpestata dalla classe dirigente di Weimar.

Con la pubblicazione del libro, un problema che subito venne posto riguardava la possibilità di applicare i concetti di «nuova politica» e di «nazionalizzazione delle masse» anche all’Italia fascista. De Felice, sia nell’introduzione all’opera mossiana che nella sua celebre Intervista sul fascismo, si affrettò a fornire una risposta negativa, rimarcando anzi eccessivamente la distanza tra fascismo e nazionalsocialismo (arrivando addirittura a parlare di «antitesi») e proponendo la non convincente distinzione tra «totalitarismo di destra» (nazionalsocialismo tedesco) e «totalitarismo di sinistra» (fascismo italiano). Nonostante ciò, fu un allievo dello stesso De Felice a dimostrare l’aderenza del movimento mussoliniano alle pratiche della nuova politica. Mi riferisco, ovviamente, a Emilio Gentile che, nel 1993 e dopo alcuni lavori preparatòri, licenziò la pubblicazione de Il culto del littorio, in cui venivano analizzati i simboli, i miti, la liturgia e i riti della religione laica fondata dal fascismo.

Al di là dell’usuale condanna della nuova politica da parte dei gendarmi del pensiero egualitario, rimane tuttavia un assillante quesito a turbare il sonno degli epigoni di Locke e Montesquieu. Assistendo cioè al fallimento sostanziale (lasciamo perdere i circhi mediatici confezionati ad arte) delle democrazie occidentali nella mobilitazione delle masse e nella loro attiva partecipazione alla vita civile, e nel momento in cui torna in voga l’antipolitica, è possibile riconquistare le masse alla politica? Le rivoluzioni nazionali del Novecento hanno dimostrato che ciò è fattibile, in particolare grazie all’eliminazione di tutti i vari diaframmi che si frappongono tra il popolo e la classe dirigente (partiti, lobbies, parlamenti, ecc.) e stabilendo, pertanto, un più diretto contatto tra governanti e governati. E in ciò riuscirono, soprattutto, ricorrendo all’energia feconda e verace del mito, sfruttando tutta la potenza del linguaggio figurale e simbolico che faceva vibrare all’unisono le anime di tutto un popolo, e rifuggendo quindi dall’algida verbosità discorsiva e razionalistica dei politicanti e degli intellettuali «impegnati».

È dunque possibile, in definitiva, realizzare l’unica vera e autentica «democrazia» nell’èra postmoderna? È oggi possibile realizzare, in altri termini, quella democrazia che Moeller van den Bruck definiva giustamente «la partecipazione di un popolo al proprio destino»? Come si può vedere, nonostante settant’anni di ubriacatura egualitaria e demo-liberale, il problema della partecipazione delle masse alla politica e dell’autocoscienza civile dei popoli è ancora aperto. È ancora, malgrado tutto, la grande sfida del nostro tempo.

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giovedì 2 febbraio 2012

Processo alla borghesia: causa ancora pendente...

L’articolo sarà pubblicato in «Occidentale», febbraio 2012.  

«Il credo del borghese è l’egoismo, il credo del fascista è l’eroismo». Parola di Mussolini. Parole che squarciano l’ipocrisia, che affondano nel burro della budinosa prudenza borghesuccia che la Rivoluzione fascista intendeva debellare dalla nuova Italia imperiale, risorta dal lavacro di sangue della Grande Guerra. L’Impero, d’altra parte, non è cosa per pantofolai e cacasotto. Il sangue contro l’oro: così cantava la gagliarda gioventù che entusiasticamente partiva volontaria per il fronte nel 1940. Si parte, si vince contro il nemico esterno, e poi si regolano i conti con gli «inglesi di casa nostra», cioè i borghesi, gli imboscati, i profittatori e i ruffiani della Rivoluzione. Così pensavano fiduciosi i nostri Ricci, Giani, Pallotta. Com’è arcinoto, le cose andarono diversamente. Ma il messaggio degli «eroi di Mussolini» non fu vano. Ce lo dimostra bene Processo alla borghesia, raccolta dei contributi della migliore élite intellettuale educata dal Regime. Un volume curato da Edgardo Sulis che, allorché fu pubblicato nel 1939, andò letteralmente a ruba, divorato dai giovani fascisti impegnati nella «bonifica integrale» voluta da Mussolini. Bonifica di ogni vigliaccheria, diserzione e profitto personale a danno della comunità.

È per questo che va tributata massima lode alla casa editrice Settimo Sigillo che ha recentemente ripubblicato il bestseller degli anni Trenta (pp. 117, € 15). Oltre alla preziosa introduzione di Luca Leonello Rimbotti, vengono riproposti inalterati i brevi saggi dei collaboratori dell’opera. Allora conosciamolo il fior fiore della giovane cultura fascista: Edgardo Sulis, Berto Ricci, Icilio Petrone, Roberto Pavese, Diano Brocchi, Alberto Luchini, Gianni Calza, Omero Valle, Gino Barbero e Federico Forni. Si tratta di un «processo» in piena regola, con tanto di «identificazione dell’imputato» (la borghesia, naturalmente), di presentazione delle prove e di «verdetto» finale (condanna, manco a dirlo).

Profilo dell’imputata: «figlia di Lutero e della Rivoluzione francese che accolse e soddisfece i suoi 95 desideri di comodità ideale e di peccato legittimo; nata in casa dell’economia lo stesso giorno in cui fu proclamata l’indipendenza economica; battezzata nel 1789 col sangue di un privilegio scaduto dal quale nacque un privilegio ben più tenace, non responsabile, comodissimo; senza patria; sposata in tenerissima età al denaro, senza figli; abitante in casa della proprietà privatissima o in casa del desiderio di proprietà come fine; connotati indefinibili; segni particolari nessuno; professioni: 1) antiaristocrazia; 2) costituzionalismo; 3) economismo; 4) antipopolo; 5) classismo; 6) intellettualismo». Si divertivano i giovani fascisti, altro che! Si divertivano a provocare gli imboscati, gli egoisti, gli irresponsabili, i padreterni della diserzione eretta a indegno stile di vita.

Ma Processo alla borghesia non è certo un progetto estemporaneo o una mera distrazione goliardica, come potrebbe insinuare il solito scureggione antifascista dalla lingua lunga e biforcuta. Nient’affatto. Il libro è invece una serissima disamina del «mal borghese» vivisezionato e analizzato in tutti i suoi inquietanti aspetti. È un progetto di fondamentale importanza che aveva, tra l’altro, l’appoggio di uno sponsor di grido. Leggiamo infatti in una piccola nota al contributo di Sulis che apre l’opera: «In omaggio a un lettore del manoscritto sono state stampate in corsivo le frasi da lui sottolineate». Il «lettore» è, ovviamente, Benito Mussolini. Il volume acquista così, com’è evidente, una notevole valenza dottrinaria e ufficiale.      

Le argomentazioni di Sulis e camerati, del resto, risultano ancora oggi di una sconcertante attualità. Proprio nel momento in cui la borghesia celebra il suo trionfo, non sarà quindi male ritornare alle cause che la fecero nascere. Cause da rintracciare, innanzitutto, nella sconfitta (meritata!) delle oligarchie feudali dell’Ancien Régime, oramai inadatte a ricoprire quel ruolo di comando che detenevano da tempi immemori. Ma – come nota Sulis avallato dal Duce – l’«intento della rivoluzione borghese dell’89 è naturalmente di sostituirsi alla debole aristocrazia la quale per essere scesa nella trincea della classe si oppone oramai al popolo. Il desiderio è di spartirsi gli enormi patrimoni aristocratici veramente degni di conquista se da mezzi quali erano, si rivelavano i fini della classe dirigente. Ma infine lo scopo, il vero scopo era di rovesciare l’incomodo e pericoloso principio della responsabilità del comando. Affermo che la grande invenzione della borghesia è il comando senza responsabilità, quella responsabilità ch’è l’anima della aristocrazia e gli costò la testa. Tale invenzione si chiama costituzione» (p. 10). Al contrario, la Rivoluzione fascista (rivoluzione eroica) intendeva formare una nuova «aristocrazia del comando» nuovamente responsabile «di fronte al popolo, il quale non è mai classe», quel popolo che – come scrive Berto Ricci – non è «né imitazione borghese né retrograda plebe, ma milizia e lavoro» (pp. 23-24). Borghesia, quindi, detentrice dei privilegi, ma anonima e assente nei suoi doveri, e nemica del popolo di cui illegittimamente si professa rappresentante. 

Ma la battaglia antiborghese dei giovani mussoliniani va ben oltre la polemica puramente verbale, e si trasforma invece in analisi economica e sociale. E, infatti, vengono attaccati frontalmente i baluardi della borghesia, ossia la proprietà privata (non «in sé» ma «per sé») e l’istituzione stessa del salario: «Il concetto medesimo del salario – scrive sempre Ricci – è borghese, perché riduce al minimo qualsiasi reale partecipare del lavoratore a una produzione che si traduce per l’economia di lui in un tanto fisso. Il salario è il lavoro-merce» (p. 25). Viceversa, il lavoro per i fascisti non doveva più essere merce, ossia oggetto dell’economia, ma – come ci ricorda Gino Barbero – «dovere sociale» e «soggetto dell’economia» (p. 97).

Attenzione, però! La borghesia vuol sì essere classe e casta, eppure non bisogna assolutamente scambiar lucciole per lanterne. C’è differenza tra la borghesia e il «ceto medio», come ben ci rammenta l’«universalista» Roberto Pavese: se il borghese, infatti, è «un evirato dello spirito, un bruto intelligente, anzi più furbo che intelligente», al contrario «il coraggio, il volontarismo, dall’epopea garibaldina alla grande guerra, sono del ceto medio, non della borghesia, che è la classe degli imboscati della guerra e della pace» (p. 42). Il borghese, in sostanza, non è in tanto borghese in quanto possiede una specifica posiziona sociale o un determinato conto in banca, ma in quanto vive di uno spirito che è egoistico, vile e reattivo. Può esser borghese, cioè, anche un operaio che non ha altro obiettivo nella vita che quello di diventar borghese, così come non è borghese il farmacista che, in camicia nera nella sua squadra d’azione, cade nell’agguato di una banda di socialisti. È una questione di spirito, dunque: come giustamente evidenzia Icilio Petrone, si tratta di quello «spirito carrieristico, agnostico, materialistico che caratterizza l’indifferenza, il comodo, l’elefantiasi della borghesia» (p. 35). Borghesia, quindi, come malattia mentale, come paralisi dell’anima.

E, purtroppo, questa mentalità borghese finisce per infettare tutta la comunità nazionale. Una mentalità, innanzitutto, che si basa sul valore assoluto della ricchezza, la quale non è più l’effetto del potere (potere comunque «responsabile») bensì la garanzia del potere (stavolta, però, potere irresponsabile e anonimo). Si tratta, secondo le caustiche parole di Ricci, di quell’«idolo antieroico e antifascista della ricchezza vertice dei valori» (p. 26). Per Gianni Calza, più in particolare, «bisogna invece arrivare alla demolizione del concetto stesso di ricchezza-potenza e fondare sulla gerarchia del lavoro il nuovo ordine sociale» (p. 79). Non che i fascisti – beninteso! – lanciassero improbabili anatemi sul denaro in sé, vagheggiando bucolici e pauperistici paradisi terrestri. Ma la differenza tra il fascista e il borghese sta nel valore, appunto, che si dà alla ricchezza: per il fascista è un mezzo per ottenere qualcos’altro (per esempio la potenza della nazione), per il borghese invece è il fine supremo dell’esistenza. Per dirla con Omero Valle, «il borghese serve il denaro, il non borghese se ne serve» (p. 94).

Come si può vedere, i temi sollevati dai fascisti rivoluzionari e antiborghesi sono ancora di scottante attualità. Il «processo» va indubbiamente ripreso, per evitare che i reati della rapace borghesia, la quale ha affamato popoli e nazioni per secoli, non cadano in prescrizione. Ma la battaglia deve cominciare alla radice stessa del problema: da noi. Scrive Berto: «L’antiborghesia fascista deve, soprattutto, non essere solo polemica. Dev’essere costruzione, educazione. Il borghese non esiste soltanto allo stato puro. Il borghese è in noi, in ciascuno di noi, con le sue rinunzie e le sue ambizioni, il suo sottilizzare e dubitare, il suo particolarismo d’individuo, di famiglia, di ceto, la sua brama di ricchezza, la sua – specialmente – paura della povertà; la sua paura del coraggio; il suo basto d’abitudini; la sua doccia tiepida d’accomodamenti; la sua estraneità dalla vita fisica e da quel tanto di natura che ci vuole all’uomo civile perché la civiltà non si deformi nella più gretta barbarie. La lotta antiborghese è dunque, nel suo significato più alto, tirocinio crudo di tutti noi, uno per uno, perché solo un’umanità fascista nella quale nessuno cerchi scuse e nessuno ne trovi, tutti accettino compiti e tutti ne ricevano, potrà riconoscere la supremazia dello spirito, detronizzare la ricchezza dalla vita» (pp. 28-29). Il primo nemico sei tu, siamo noi. È sempre e solo l’eterna battaglia tra l’egoismo più bieco e l’eroismo che crea e feconda la civiltà. Civiltà del lavoro, s’intende…    

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martedì 24 gennaio 2012

Riprendersi Giovanni Gentile

Segnaliamo questo minisaggio pubblicato per l’«Ideodromo» dove, in alto sulla destra, è possibile rintracciare l’immagine per scaricare il relativo pdf.


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