venerdì 29 maggio 2009

L’incubo americano: Taxi Driver



«Ma dici a me? Ma dici a me? Ehi con chi stai parlando? Non ci sono che io qui!»


Il primo Martin Scorsese, quello più duro e autentico! Il regista newyorkese ci regala questa perla di grande cinema nel 1976. Taxi driver è la storia di un uomo triste e disperato, un reduce del Vietnam che, tornato alla vita nomale, fa una gran fatica a ritrovare la sua dimensione. Poco sonno, molta solitudine (a tratti veramente claustrofobica). Il malessere interiore di un uomo raffigurato sullo sfondo degli anni settanta. Dura critica alla società moderna, scritto da Paul Schrader (regista nel 1985 del film Mishima: una vita in quattro capitoli con colonna sonora del grande Philip Glass) e vagamente ispirato per lo stile della narrazione ai romanzi di Dostoevskij Memorie dal sottosuolo e Delitto e castigo.

Travis Bickle (un Robert De Niro in quella che probabilmente è la sua migliore interpretazione di sempre) trova lavoro come tassista per occupare le sue notti insonni; ha quindi modo di girare New York in lungo e in largo, esplorandone gli angoli più reconditi, e si accorge che anche in una città con più di 7 milioni di abitanti ci si può sentire soli…

Conosce una donna, Betsy, che lo respingerà contribuendo ancora di più alla sua discesa nel baratro. Travis è letteralmente disgustato dalla società che lo circonda, tanto che si trasformerà in un disadattato: un soggetto borderline che gira armato fino ai denti, che ce l’ha a morte con neri, hippie, omosessuali, da lui considerati il marcio della società.

Arriverà addirittura a pianificare l’omicidio di un candidato alla presidenza degli Stati Uniti, ma all’ultimo si tirerà indietro. Vagando senza meta, una sera come tante si imbatte nella giovane prostituta Iris (una giovanissima Jodie Foster), e si mette in testa di volerla salvare a tutti costi dalle grinfie del suo sfruttatore (Harvey Keitel). Ci riuscirà nella scena finale, il momento più ricco di azione di un film riflessivo e dai ritmi molto lenti. Anche Travis avrà quindi il suo momento di notorietà, finendo sulle prime pagine dei giornali.

Ma durerà poco: subito dopo infatti si ritufferà nel vortice della città che non si ferma mai, dove i rapporti sociali sono ormai azzerati, e dove le persone vagano in sarcofaghi di metallo lungo strisce d’asfalto.

Condividi

martedì 26 maggio 2009

Teatro e Futurismo


«Il Futurismo vuole trasformare il Teatro di Varietà in teatro dello stupore, del record e della fisicofollia»

(dal Manifesto del Teatro di Varietà)


L’abilità propagandistica e il desiderio di sollevare scalpore, spingono i futuristi ad intervenire anche in campo teatrale. In particolare Marinetti credeva che tutti fossero potenzialmente poeti o drammaturghi. Da questa idea cominciarono, in tutta Italia, a dilagare le celeberrime “serate futuriste”, inizialmente nelle piazze – coinvolgendo nelle rappresentazioni anche il pubblico – e successivamente nei teatri. Marinetti, Corra e Settimelli sono considerati gli iniziatori del teatro “sintetico” futurista: questo aggettivo deriva dal fatto che si trattava per lo più di piccoli “attimi sintetici”, le cui caratteristiche sono la concentrazione, la compenetrazione, la simultaneità e il dinamismo.

Non sempre il pubblico accettava la “forza d’urto” di quel teatro, e spesso rispondeva con ingiurie e con il lancio di ortaggi. Immancabilmente le serate futuriste si concludevano con provocazioni di ogni tipo e con risse furibonde, con tanto di sfide a duello. Spesso i nemici e avversari dei futuristi affittavano interi palchi, munendosi di ortaggi, e al momento opportuno facevano scattare la baraonda. A quel punto i futuristi avevano già vinto la loro battaglia pubblicitaria. L’eco del putiferio si estendeva, attraverso i giornali, in tutta l’Italia.

Osservando più tecnicamente il teatro futurista, si può osservare che – come i dadaisti e i surrealisti – neppure i futuristi italiani furono uomini di teatro nel senso professionale del termine, ma artisti, scrittori, poeti che consideravano il teatro non solo un ideale punto d’incontro, ma anche il migliore strumento di propaganda del loro ideale vitalistico, nazionalista e tecnocratico. Nonostante la mancanza di professionismo, furono coloro che al teatro concessero un’attenzione più continua e organica, soprattutto a livello teorico, in una serie di manifesti: il manifesto dei drammaturghi futuristi (1911), del teatro di varietà (1913), del teatro futurista sintetico (1915), della scenografia futurista (1915), del teatro della sorpresa (1921).

La contestazione del teatro «passatista e borghese» investe prima di tutto il teatro drammaturgico: a un dramma analitico, basato su una logica degli eventi di fatto impossibile e sulla credibilità astrattamente psicologica dei personaggi, i futuristi contrappongono il dramma sintetico, che coglie, in un’unica visione, momenti cronologicamente e spazialmente lontani, ma connessi fra loro da analogie e da contrapposizioni profonde. Non c’è bisogno di una premessa da sviluppare in una serie successiva di episodi pazientemente organizzati, ma basta l’intuizione del nucleo essenziale dei fenomeni. I personaggi non hanno contenuto psicologico, ma si risolvono totalmente nelle loro azioni, che possono anche esaurirsi in gesti molto semplici, di assoluto valore o non esserci affatto, lasciando l’azione affidata agli oggetti.
Le “sintesi futuriste”, opera soprattutto di Marinetti, furono anche rappresentate, non però dai futuristi stessi, ma da normali compagnie professioniste che non potevano avere né una specifica preparazione, né un particolare interesse ideologico. Il loro significato rimase perciò confinato nella dimensione letteraria.

Non esiste una sola concezione di teatro futurista: esso può essere infatti sia un teatro eccentrico o grottesco, sia dell’assurdo che sintetico. A differenza del teatro classico, il teatro di prosa per eccellenza, non sono fondamentali i dialoghi o comunque le scene parlate, bensì l’attenzione viene catturata dai suoni, dalle luci e dai movimenti corporei. Non è un caso che nel teatro futurista sia utilizzata molto spesso la danza, al fine di trasmettere al pubblico, attraverso i movimenti dei ballerini, un senso di moto, di velocità e dinamismo. Al posto dei dialoghi vi sono didascalie lunghissime e molto dettagliate. Il teatro futurista è spesso un teatro muto e talvolta – in aggiunta – i personaggi sono incomprensibili nelle loro azioni, tanto che lo spettatore rimane stupito e con un senso di confusione. In più capita che il personaggio non sia un attore, bensì un oggetto. In scena si riesce a far diventare reale, normale e logico un comportamento completamente surreale, mentre le frasi, i gesti e le reazioni appartenenti al senso comune risultano banali e assurdi.
Anche il grande Majakovskij si interessò molto al nuovo teatro futurista, ma intendendolo più in senso satirico, per prendere in giro la realtà e gli schemi del buon senso.

Sul piano scenografico Enrico Prampolini sviluppò tutte le premesse insite nel gusto dei futuristi per le macchine e la tecnologia, scegliendo una scena mobile e luminosa, nella quale l’attore umano sarebbe apparso banale e superato, ed era quindi auspicabile sostituirlo con marionette o addirittura con l’attore-gas «che estinguendosi, o procreandosi, propagherà un odore sgradevolissimo, emanerà un simbolo di identità alquanto equivoca», supremo sberleffo al mattatore del tipico teatro antico italiano.
Il manifesto più significativo è forse quello del teatro di varietà, definito il vero teatro confacente alla sensibilità e all’intelligenza dell’uomo moderno, poiché esalta il sesso di fronte al sentimento, l’azione e il rischio di fronte alla contemplazione, la trasformazione e il movimento muscolare di fronte alla staticità, ma soprattutto perché distrae lo spettatore dalla sua secolare condizione di voyeur passivo trascinandolo nella follia fisica dell’azione.


Per approfondire, leggi il Manifesto del Teatro di Varietà

Condividi

venerdì 22 maggio 2009

!!!Neoterocrazia!!!





Neoterocrazia è folgore dal cielo, è anelito di libertà, è giovane rabbia di irrequieti spiriti!
Neoterocrazia è il possente grido della gioventù che non si arrende!
Neoterocrazia è fior d’Italia, patria del Genio e della sregolatezza, del coraggio e del sorriso beffardo!
Neoterocrazia è il cuore esplosivo dei giovani spensierati e impavidi, temerari e un po’ sbruffoni!

Quando la società non ha più niente da dire, quando vive solo e unicamente per mantenersi ferocemente aggrappata e avvinghiata con le unghie adunche ai propri privilegi, quando non vuol saperne di morire, e quando anche muore vuole che tutto perisca con sé, è allora che il nostro grido di libertà ascende al cielo per poi fulminarti la coscienza!
Una nazione che non vive per i suoi giovani è una nazione senile, è una nazione morta, è una nazione smorta!
Allora basta giovanilismo!
Basta veline e velinate, canne e cannati, impasticcati e spiritati, tronisti e tronati!
Allora basta gerontocrazia!
Basta Soloni, padri costituenti, senatori, tromboni, mandolinisti, cruscanti, nonnisti e pannoloni!

!!!Neoterocrazia!!! Il “potere dei giovani”!

Noi siamo i neoterocrati!!!
Siamo il giovane entusiasmo che assalta l’avvenire!
Siamo esplosione di insana allegria contro paralitiche esistenze di plastica!
Siamo l’eros vibrante e febbrile dei nostri corpi di marmo!
Siamo il risveglio della vita di fronte a una poesia di Tirteo, l’armonica imponenza della Colonna Traiana, l’eroica bellezza d’un alto sentire, il gusto per la battuta allegra e salace, la goliardia dell’Angiolieri, l’ebbrezza delle serate alcoliche, gli sms d’amore per le belle ragazze e il volo d’Icaro verso il sole!

Vogliamo spodestare tutti i Titoni, gli Andreotti, i Di Pietro, i Costanzo, le De Filippi, i Costantino, i Santoro, i Travaglio e i travagliati!
Vogliamo prendere a calci moderati e lustranatiche, moralisti e moralizzatori, buonisti e temporeggiatori, decrepiti e soffocatori!
Vogliamo conquistare la vita!
La Giovinezza è conquista, è stile, è spirito, è innata pulsazione d’incandescenti passioni!
Vogliamo creare, innovare, sperimentare!

Siamo i neoterocrati!
Siamo la gioventù che non capisce, che non ci sta!
Siamo la tempesta purificatrice, il ciclone della rivoluzione, l’aurora sorridente d’una novella primavera!
Siamo coloro che vogliono, potentemente vogliono!
Siamo irrequietezza d’amore e soffio d’eternità!
Siamo l’irrazionale voglia di vivere!

Siamo i neoterocrati!
Siamo i migliori figli d’Italia!

Condividi

martedì 19 maggio 2009

Il Male Assoluto?


«Oggi è facile sottovalutare il fascino rivoluzionario del Fascismo; lobiettivo è stato quello di demistificarlo, e un nuovo positivismo si è impadronito dellimmaginazione storica»


George L. Mosse (1918 – 1999) era uno storico coraggioso e di chiara fama internazionale, oltre che di origine ebraica.
Forse proprio per questo ha potuto scrivere l’agile opera in questione (Il Fascismo. Verso una teoria generale), in cui tenta di storicizzare l’esperienza del Fascismo italiano facendo piazza pulita di molti luoghi comuni e preconcetti che hanno caratterizzato gli studi sulla questione (soprattutto in Italia).
Tutto ciò attraverso un’analisi breve quanto documentata e tagliente, che non pretende di essere esaustiva ma di offrire un decisivo contributo alla definizione dei caratteri fondamentali del fenomeno fascista. I giudizi e le espressioni che utilizza (e che noi mettiamo provocatoriamente in risalto) farebbero tutt’oggi trasalire i salottieri radical-chic e gli ottusi guardiani dell’antifascismo, cattivi maestri e primi colpevoli dell’ideologizzazione della storia.

Mosse afferma che «non si può condannare il totalitarismo senza tener conto della rovina delle strutture parlamentari e sociali» del tempo, piene di «problemi strutturali e ideologici». Il Fascismo infatti fece appello a «una tradizione antica e viva di democrazia popolare da sempre opposta ai parlamenti europei» molto sentita tra la popolazione, e su questa basò gran parte del suo successo.
Ad essa si rifacevano i culti nazionali del regime, con l’obiettivo di arrivare a una vera e propria “religione civile (sull’esempio di Rousseau). Primario fu il richiamo alla Romanità e alla forza della comunità naturale” e “genuina”, sintesi di tutte le istanze nazionali e superiore ai singoli interessi individuali.

Oltre a questi richiami al passato ci furono anche spinte rivoluzionarie «alimentate dalla gioventù e dall’esperienza bellica»: Futurismo, esaltazione della Giovinezza («anche i capi erano giovani») e culto della guerra: «il cameratismo veniva additato ad esempio per porre termine alla divisione di classe all’interno della nazione».
Quest’ultima frase ci collega ad un altro degli assi portanti del regime: il mito della Terza Via”, cioè la rivolta spirituale ed interclassista al materialismo del marxismo e del capitalismo. Proprio grazie a questa visione (nata nei Sindacati Rivoluzionari) si ebbe «la supremazia della politica fascista sull’aspetto economico: il mito spinse gli interessi economici in una posizione servile».

Non si può trascurare neanche l’importanza dei valori del mondo borghese («rispettabiltà, laboriosità, buone maniere») propri di gran parte della classe dirigente. Proprio contro di essi si scatenarono «i giovani italiani appartenenti alla classe ‘35» che «volevano tornare agli inizi del movimento, al suo attivismo e alla sua guerra contro l’alienazione» per portare fino in fondo «lutopia fascista».
Ed è appunto sulla scia di questi fermenti che Mussolini fa partire la campagna contro «i valori borghesi» per dare nuovo vigore al «fascismo che invecchia». Per la stessa ragione, egli si avvicina al razzismo, che non era componente «necessaria» della sua ideologia: fu un grave errore, dettato anche «dall’influenza tedesca».

Mosse riconosce però al Duce «una dimensione più umana rispetto al Führer».

Nonostante aspetti come questo ed altri parimenti criticabili, l’autore arriva a dire che «il mito fascista esercitò un richiamo interclassista e insieme ai successi tangibili rese possibile il consenso».
Vittorie «sociali ed economiche», oltre al fatto di aver «portato l’ordine e conferito un certo dinamismo a un governo che era stato fiacco e corrotto, riuscendo ad attutire gli effetti della depressione europea».

In definitiva «il nuovo stile politico si guadagnò il consenso popolare perché preferenze e desideri del popolo coincidevano in gran parte con quelli del regime».


La teoria generale sul Fascismo dell’autore risulta quindi quella di considerarlo come «un atteggiamento verso la vita» (vedi anche La tentazione fascista di Tarmo Kunnas) innervato da tutti gli aspetti culturali succitati, permeati di nazionalismo, che «era, ed è sempre, la principale forza coesiva tra i popoli».

Condividi

venerdì 15 maggio 2009

Spengler e l’Italia



Se si cercano nell’opera di Spengler (sopra in foto) indicazioni riguardanti la situazione politica e spirituale della nazione italiana, si troverà che non esiste un pensiero unitario al riguardo. Al di là dell’ammirazione espressa in Neubau des deutschen Reiches (1924) e in Jahre der Entscheidung (1933) verso Benito Mussolini – ammirazione che però non si estende al fascismo come movimento o ideologia ma rimane circoscritta alla figura cesarea del Duce, alla cui personalità Spengler riconduce tutto il fenomeno fascista in Italia – l’opinione di Spengler sull’anima italiana non è lusinghiera.

In Preußentum und Sozialismus (1919), gli Italiani, insieme ai Francesi, sono le nazioni anarchiche contrapposte alle nazioni socialiste (Spagnoli, Inglesi, Prussiani). «Nel XV secolo, l’anima di Firenze si rivoltava contro lo spirito gotico […]. Quello che noi chiamiamo Rinascimento è la volontà antigotica di un’arte composta e di una formazione intellettuale raffinata; è, assieme alla gran quantità di Stati predoni, alle repubbliche, ai condottieri, alla politica del “momento per momento” descritta nel classico libro di Machiavelli, al ristretto orizzonte di tutti i disegni di potenza – compresi quelli del Vaticano in quel periodo – una protesta contro la profondità e la vastità della coscienza cosmica faustiana. A Firenze è nato il tipo del popolo italiano». Nei frammenti storici, ascriverà l’anima di Firenze all’origine etrusca, ma non si dilungherà altrimenti sull’Italia.

Il secolo italiano si sarebbe dunque svolto e concluso già all’inizio del meriggio della Kultur faustiana, tra il ‘400 e il Sacco di Roma (1527), con cui inizia l’influenza spagnola. Allo spirito spagnolo Spengler attribuisce la creazione sia della corte asburgica di Vienna sia del Papato della Controriforma, tuttora dominato dallo spirito gotico-spagnolo e dall’idea universale dell’ultramontanismo, creazione dello spirito spagnolo così come il capitalismo è creazione dello spirito inglese e il socialismo lo è dello spirito prussiano. Questo spirito è anche ponte tra il socialismo prussiano e il periodo gotico: Bismarck per esempio è considerato l’ultimo uomo di Stato di stile spagnolo.

Questa analisi prosegue ora lasciandosi dietro gli scritti di Spengler, ma sempre alla luce del suo pensiero e traendone le giuste conseguenze. Esaurito il proprio secolo, la nazione italiana ha subìto varie influenze mischiate ed innestate sul proprio spirito: dalla politica francese del Piemonte madamista o della Serenissima al tramonto, al genio spagnolo di un Eugenio di Savoia, all’illuminismo all’inglese di un Francesco di Lorena, diventando campo di battaglia tra le idee e le nazioni faustiane. Anche il nostro Risorgimento reca i segni di uno scontro tra lo spirito spagnolo ormai al tramonto (l’Austria e il Papa), i limitati sussulti della Francia (Napoleone III), il liberalismo inglese (Mazzini, Garibaldi) e l’influenza prussiana (Cavour, Crispi). Di stampo italo-francese è stato poi l’intervento nel 1915, che mirava a Trento e Trieste, senza vedere la lotta titanica tra Inglesi e Prussiani. Dopo esser tornata protagonista col cesarismo mussoliniano, è sprofondata al ruolo di provincia, in seguito alla guerra mondiale.

Se ora si volesse, sempre con una visione storica di carattere spengleriano, inquadrare la giusta chiave per la riscossa nazionale dell’Italia – posto che, a nostro parere, il tentativo d’una nazione europea isolata rischia di risultare sterile – bisogna tenere conto e della situazione storica attuale e della storia del popolo italiano. Il cesarismo avanza, ma la lotta tra socialismo e capitalismo è ancora aperta, ed è inutile dire che il posto dell’Italia, come delle altre nazioni europee, non può che essere in una coalizione continentale d’animo prussiano anziché in una coalizione atlantica d’animo inglese, come oggi.




Il giudizio sull’anarchismo degli Italiani è impietoso ma vero, e spiega molti dei problemi del nostro Paese; ma l’Italia non è solo Firenze. Lasciando da parte lo spirito gotico-spagnolo asburgico-papale, in opposizione al quale essa si è formata, è a Roma che si deve guardare. Per Spengler, l’impero romano fu grande in un periodo di cesarismo, ed essendo l’animo di un popolo legato al paesaggio, è naturale che gli Italiani siano eredi di Roma e destinati a riscoprirne il destino di restare saldi di fronte al futuro. Così, se alla Germania Spengler mostrava il socialismo prussiano quale forma politica, è un “socialismo romano” che l’Italia deve riscoprire.

Condividi

martedì 12 maggio 2009

Tributo al Paroliberismo


Pubblichiamo con estremo piacere la poesia del giovane e promettente Alberto Brandolin, che ha voluto inviarcela. Il componimento è un tributo
, in occasione del centenario, al Futurismo: un omaggio all’ultima vera avanguardia artistica italiana ed europea, la quale ha cantato la Bellezza in un mondo che si avviava alle brutture della decadenza e dellapatia del pensiero unico/uniformante, vera causa del “silenzio” poetico dei nostri tempi.
Ci auguriamo che lAVGVSTO possa ospitare anche in futuro altre opere artistiche, al fine di dar voce alla nuova e raggiante gioventù che non si arrende e che sogna e lotta nonostante tutto per il riscatto dellItalia e dellEuropa. Che i giovani rispondano allappello, per «scagliare, una volta ancora, la nostra sfida alle stelle»!


FuturAzione


di Alberto Brandolin



Clicca sullimmagine per ingrandirla

Condividi

venerdì 8 maggio 2009

Ernst Jünger: attraverso il XX secolo





I: dal guerriero all’operaio

Ernst Jünger è probabilmente uno dei volti più noti della Rivoluzione Conservatrice. Nacque il 29 marzo 1895 a Heidelberg, primo di sette figli, tra cui l’affezionato fratello Friedrich Georg (1898 – 1975), anch’egli poi scrittore rivoluzionario-conservatore. Il padre, Ernst Georg, era farmacista e si spostò spesso, durante l’infanzia dei figli, da una città all’altra della Germania. Questo portò il giovane Ernst ad avere difficoltà a scuola, ma a coltivare interessi personali, come la lettura, l’entomologia e la poesia. Nel 1911 s’iscrisse al movimento giovanile dei Wandervögel, un’organizzazione di carattere romantico e scoutistico. Due anni dopo, appena diciottenne, fuggì da casa per arruolarsi nella Légion étrangère in Nord Africa (in foto), da cui evase due volte per cercare di raggiungere l’Africa equatoriale: un’esperienza narrata più tardi nel libro Ludi africani (1936). Dopo appena due settimane, il padre, agendo attraverso il Ministero degli Esteri tedesco, ne chiese il rimpatrio.

Nel 1914 Jünger affrontò anticipatamente l’esame di stato (Abitur), per arruolarsi come volontario al fronte nel 73° Reggimento Fucilieri “Gibraltar”. Ferito a Les Eparges (aprile 1915), seguì un corso da alfiere durante la convalescenza, divenendo ufficiale, e passando poi a comandare i reparti d’assalto (Stoßtruppen). Nei due anni successivi combatté nella Battaglia della Somme a Guillemont e Combles, nella Battaglia della Somme a Guillemont e Combles (agosto 1916), nella Battaglia di Arras (aprile 1917), nella Terza Battaglia di Ypres (luglio e ottobre 1917), nella Battaglia di Cambrai (novembre 1917) e nell’Offensiva di Primavera (marzo 1918), venendo ferito in tutto quattordici volte e decorato con la Croce di Ferro di Prima Classe (gennaio 1917), con il Kronenorden von Hohenzollern (novembre 1917) e infine la Pour le Mérite, la più alta decorazione prussiana (settembre 1918), ricevuta a soli 23 anni, nonostante il parere contrario di Hindenburg, e di cui fu l’ultimo sopravvissuto tra i portatori.

Nel dopoguerra, rimase nella Reichswehr (l’esercito di Weimar) fino alla sua demobilitazione (1923). Poi si dedicò a studi universitari (che non terminò) a Lipsia e a Napoli, seguendo corsi di zoologia, botanica e filosofia. Divenne comunque un entomologo di una certa importanza, tanto che fu attribuito il suo nome ad alcune specie d’insetti da lui scoperte. Nel 1925 si sposò con Gretha Jensen, da cui ebbe due figli, uno, Ernst (detto Ernstel), battezzato come luterano, e l’altro, Alexander, battezzato come cattolico, con il giurista Carl Schmitt quale padrino. Nel frattempo, a partire dalla pubblicazione del romanzo autobiografico Nelle tempeste d’acciaio (1920), e di altre opere (La lotta come esperienza interiore, Il tenente Sturm, Boschetto 125, Fuoco e sangue, Il cuore avventuroso), che narravano le sue esperienze al fronte, divenne una figura di spicco negli ambienti della Destra nazionalista e reducista. Fece parte dei Freikorps e scrisse su varie riviste dell’area, diventando amico intimo di grandi figure intellettuali quali il filosofo Martin Heidegger, il giurista Carl Schmitt, il nazionalbolscevico Ernst Niekisch, lo scrittore Ernst von Solomon, e il discepolo Armin Möhler, che fu a lungo suo segretario.

Verso la fine degli anni ’20 il suo pensiero ebbe un’evoluzione importante: un allargamento della propria teoria. Fino ad ora, egli aveva messo in rilievo il carattere totalizzante e distruttivo della guerra moderna e sottolineato il maggior risalto ch’essa dava alla figura del soldato come guerriero (Krieger), che in questa situazione mette alla prova le proprie capacità umane. Con i saggi La mobilitazione totale (1929), Il dolore (1934), ma soprattutto L’operaio. Dominio e forma (1933), questa prospettiva è estesa dall’ambito bellico all’intera società moderna. Si tratta di portare all’estremo la situazione di guerra, creando una società mobilizzata anche nell’ambito dello studio e del lavoro. L’operaio (Arbeiter), attraverso la disciplina, ottiene il dominio sulla tecnica. Quest’opera ebbe un grande successo, tanto che Heidegger gli dedicò due cicli di lezioni (1934 e 1939-40) e ne trasse ispirazione per il suo discorso sull’Università tedesca, mentre Evola vi scrisse un commento esaustivo e profondo.

II: ribelle a Hitler, ribelle alla democrazia

Con l’ascesa al potere di Hitler, che apprezzava molto la sua figura e i suoi scritti, a Jünger fu offerto un seggio al Reichstag e la presidenza dell’Accademia Tedesca dei Poeti, ma egli rifiutò entrambi. Già pochi anni prima aveva respinto le profferte politiche di Goebbels, che più tardi dovette affermare: «Abbiamo offerto a Jünger ponti d’oro, ma lui non li volle attraversare». Come ad altri rivoluzionari-conservatori, anche a lui ripugnava un certo stile volgare e demagogico del nazionalsocialismo, ed era scettico circa i loro progetti grandiosi. La sua casa fu perquisita dalla Gestapo e l’uscita dei suoi libri messa sotto silenzio dalla stampa. Nel 1939 Goebbels, a una conferenza pubblica, gli domandò: «E ora, Herr Jünger, cosa ne pensa?». La risposta dello scrittore non si fece attendere: fu il romanzo breve fantastico Sulle scogliere di marmo, un capolavoro nella forma che narra il passaggio violento di una terra idilliaca dall’ordine tradizionale a un regime barbarico e totalitario. A questo punto, Göring e Goebbels avrebbero voluto liquidare Jünger (come già era stato fatto con altri esponenti della Destra tedesca, quali Niekisch, imprigionato, e E. J. Jung, assassinato), tuttavia Hitler, ammiratore dello Jünger scrittore, si oppose fermamente.

Nell’agosto 1939, egli fu richiamato alle armi col grado di capitano, comandando dapprima una postazione della Linea Sigfrido, poi partecipando all’avanzata in Francia. Dal 1940 al 1944, fu di stanza alla guarnigione di Parigi, come membro dello stato maggiore del comandante la piazza, il generale Stülpnagel. Oltre al lavoro d’ufficio e alle escursioni entomologiche, frequentò i salotti artistici ed intellettuali di Parigi, conoscendo, tra gli altri, Braque, Céline, Cocteau, Colette, Gaston Gallimard, Florence Gould, Sacha Guitry, Jouhandeau, Léautaud, Montherlant, Paul Morand, il capo della resistenza clandestina Jean Paulhan e il famoso pittore Picasso. Inoltre continuò ad essere una figura importante in quegli ambienti legati all’opposizione militare al regime, tanto che il suo libello “La pace” (pubblicato poi nel 1946), delineante un futuro ordine europeo rivoluzionario-conservatore, fu inviato a Rommel a mo’ di scritto programmatico. Tuttavia, dopo il complotto del 20 luglio, non furono trovate prove a suo carico, e fu soltanto dimesso dall’esercito con disonore. Nel frattempo, ebbe la notizia della morte del suo primogenito, Ernst, cadetto della Kriegsmarine, presso Carrara, dove era in forze ad un battaglione di disciplina, stante la sua punizione per attività sovversiva.

Nel 1945, fu riarruolato come comandante della locale compagnia del Volksturm, ruolo in cui si adoperò per limitare le distruzioni e le vittime presso i civili. Dopo la guerra, rifiutò di compilare il formulario per la denazificazione, e inizialmente gli fu proibito di pubblicare dagli occupanti. Si spostò allora a Ravensburg, sul Lago di Costanza, nella zona d’occupazione francese, dove questo diritto gli fu concesso. In poco tempo però conobbe una discreta riabilitazione, anche per la sua opposizione in opere come Sulle scogliere di marmo, che fu definita da un critico, con gran scandalo di molti antifascisti, l’unica opera di resistenza scritta in Germania dopo il 1933. Continuando la sua attività di scrittore, pubblicò in tre riprese (Giardini e Strade, Irradiazioni, L’anno dell’occupazione) i diari degli anni legati alla sua seconda esperienza bellica, dal 1939 al 1948, nonché il romanzo fantastico Heliopolis, narrante la lotta per il potere all’interno di un regime dittatoriale tra due fazioni, una aristocratica ed una demagogica.

Ebbe poi un importante dibattito filosofico sul nichilismo con Martin Heidegger, a cui dedicò gli scritti Oltre la linea (1950) e Al muro del tempo (1970). Di fronte al pessimismo heideggeriano riguardo al dominio della tecnica sull’uomo e al conseguente dominio del totalitarismo (non importa se bianco, rosso o bruno), Jünger esprime un cauto ottimismo, sostenendo che la Linea, ovvero il meridiano zero del nichilismo, (il “meriggio” per dirla in termini nietzscheani), sia già stato sorpassato. Riprende quindi la tesi nietzscheana del nichilismo come fase intermedia patologica tra un passato retto da valori supremi e un futuro fecondo di nuove realizzazioni, per cui s’impone all’individuo di passare dal dubbio a un realistico pessimismo all’azione per superare questa fase e creare nuovi valori.

Nel libro successivo, Il trattato del ribelle (1952), viene prospettata quindi l’idea del “passare al bosco”, cioè sottrarsi al nichilismo, rifugiandosi in quelle oasi rimaste ricche di significato. È la teorizzazione della figura del Ribelle, che lotta contro il totalitarismo moderno, difendendo la propria sovranità d’individuo e rispondendo unicamente al tribunale interno della propria coscienza. Ciò perché il nichilismo di oggi è un problema che può essere affrontato da pochi individui, ma può allo stesso tempo portare a nuovi inizi.

III: l’Anarca e il riposo del guerriero

Dopo la guerra, Jünger si trasferì stabilmente nel villaggio di Wilflingen, in Alta Svevia (1950), dove prese dimora nella foresteria del maniero dei Conti von Stauffenberg (autori dell’attentato a Hitler del 20 luglio). Tuttavia continuò i suoi viaggi in tutto il mondo, iniziati già negli anni ’20, di cui lasciò traccia nei numerosi diari di viaggio (Myrdun, Terra sarda, Il contemplatore solitario fra gli altri). Nel 1955, recuperò le spoglie del figlio, con l’aiuto del suo traduttore Henry Furst, Giovanni Ansaldo e un giovanissimo Marcello Staglieno. Durante la sua vita, sperimentò diverse sostanze stupefacenti (etere, hashish, cocaina, mescalina), stringendo infine amicizia con il chimico svizzero Albert Hoffmann, inventore della dietilammide dell’acido lisergico (LSD), con cui sperimentarono questa droga. Le sue esperienze sono riecheggiate nel racconto Visita a Godenholm (1952), ermetico e insieme pregno di simbolismo tradizionale, e nella raccolta del 1970, Avvicinamenti: droghe ed ebbrezza. Nel 1960 rimase vedovo e si risposò dopo due anni con l’archivista e insegnante Liselotte Löhrer nata Bauerle, che gli sopravvivrà.

A partire dagli anni ’50 l’editore Klett Cotta di Stüttgart, per conto di cui egli dirigeva, insieme a Mircea Eliade, la rivista di studi esoterici Antaios, cominciò a pubblicare la sua opera omnia. Sarà l’unico scrittore tedesco, insieme a Goethe, Klopstock e Wieland a vedere pubblicate due edizioni delle proprie opere complete. Continua naturalmente l’attività filosofica sempre legata al rapporto tra etica del singolo e politica: nel 1953, pubblica Il nodo di Gordio, frutto delle sue discussioni insieme a Carl Schmitt su Oriente e Occidente. Fanno seguito, tra le opere più importanti, il romanzo fantascientifico Le api di vetro (1957) e i saggi Al muro del tempo (1959) che riprende varie tematiche di Oltre la linea, Lo stato mondiale (1960) e Tipo, nome, forma (1963). Questa riflessione e la mutata situazione storica lo portò a rivedere e ‘aggiornare’ la figura del Ribelle in un nuovo tipo: l’Anarca.

Fondamentale per la descrizione di questo tipo è il romanzo fantastico Eumeswil (1977), che chiude la trilogia iniziata con Sulle scogliere di marmo e proseguita con Heliopolis. Qui il protagonista, Martin Venator, servitore distaccato del Condor, tiranno di Eumeswil, simile per molti versi a uno dei cesari di Spengler, conduce la sua vita all’ombra del regime, mantenendosi sempre libero e sovrano. Tutto il libro è pervaso dalle sue riflessioni sull’Anarca, da distinguere dall’anarchico. Anzi, l’anarca sta all’anarchico, come il monarca sta al monarchico. Si può dire valga qui perfettamente quella massima di Evola: «Fa’ che ciò su cui non puoi nulla, nulla possa su di te». Di grande interesse è anche il romanzo breve Il problema di Aladino (1983), il cui protagonista è un ufficiale prussiano nella Polonia comunista, che fugge in cerca della sua libertà.
Nei suoi ultimi anni, Jünger, benché avesse affermato di non rinnegare nulla della sua vita, era ormai pienamente riabilitato agli occhi di buona parte della società tedesca, che riconosceva i suoi meriti, indipendentemente da pregiudizi ideologici. Il suo stile letterario, conciso ma originale e brillante, e la grande esperienza di vita e di pensiero che ne traspariva, gli valsero molti riconoscimenti. Nel 1981 ricevette il Premio Mondiale Cino del Duca, «per il suo messaggio di umanismo moderno». Nel 1984, in occasione del 70° anniversario della Prima Guerra Mondiale, parlò al memoriale di Verdun, insieme con il cancelliere tedesco Helmut Köhl e il presidente francese socialista François Mitterrand, entrambi suoi ammiratori.

Negli anni ’90 continuò a scrivere e a curare l’edizione delle sue opere, ma anche a dedicarsi al proprio orticello e alle sue passioni come le passeggiate, l’entomologia e la lettura. Nel 1993, il secondogenito Alexander, rimasto paralizzato dopo un incidente, si tolse la vita. Il suo centesimo compleanno fu festeggiato da tutta la Germania, fu invitato a Venezia dal sindaco Cacciari, e ricevette la visita nella sua dimora rurale di Wilflingen di uomini di lettere e capi di stato, tra cui Köhl e Mitterrand. Negli ultimi tempi si era riavvicinato alla religione, per cui comunque aveva sempre avuto una particolare sensibilità, convertendosi al cattolicesimo il 26 settembre 1996. Morì infine, poco prima di compiere i 103 anni, il 17 febbraio 1998. Era nato nell’anno in cui furono inventati i raggi X, morì l’anno in cui fu fondato Google.

Condividi

martedì 5 maggio 2009

Perché la Destra è più no-global della Sinistra

Pronunciare al giorno d’oggi la parola antiglobalizzazione fa subito venire in mente la sinistra radicale e il cosidetto fenomeno no-global. Niente di più sbagliato.

L’autore dell’illuminante opera A destra di Porto Alegre. Perché la destra è più no-global della sinistra sottolinea come questi movimenti accettino invece tutte le implicazioni omologatrici della globalizzazione, rifiutandone solamente il lato economico («la Sinistra ha come obiettivo la mondializzazione senza il mercato» scrive Jean-François Revel). Al contrario la Destra (termine usato operando un’evidente quanto utile semplificazione, che racchiude complesse esperienze “radicali”, non certo l’AN filo-atlantista di oggi) non solo effettua le sue critiche ben prima di chi sembra essersi svegliato l’altroieri, ma lo fa in modo più legittimo e profondo.
Essa, nella sua lunga storia, ha espresso valori come l’identità, la patria, la comunità, la specificità e il senso della gerarchia: tutti intrinsecamente antagonisti a qualsivoglia visione uniformante.

Partendo dagli inizi del XX secolo, Fraquelli ripercorre tutte le idee e i movimenti Destri fautori di istanze antiglobali. Le prime tesi di questo tipo (tra i sostenitori delle quali spicca il nobile russo-polacco Emmanuel Malynski) erano legate all’idea del cosiddettocomplotto ebraico: oscure trame del popolo di Sion per destabilizzare le nazioni che lo ospitano, al fine del dominio mondiale. Da queste prime e poco convincenti congetture (anche se “rilanciate” ultimamente dal filosofo di sinistra Gianni Vattimo), si passa a personaggi quali Adolf Hitler e Benito Mussolini, che incarnarono in maniera dirompente l’“armamentario classico” del pensiero anti-universalista.
In esso troviamo, in misura diversa, nazionalismo, gerarchia, tradizione, antisemitismo, lotta allAmerica, Terza Via e vicinanza al mondo musulmano. I due leaders cambiarono profondamente le nazioni in cui presero il potere, diffondendo in tutta Europa questi “sentimenti” fino al conflitto contro le “democrazie plutocratiche” che «detengono ferocemente il monopolio di tutte le ricchezze e l’oro delle terra», simboli di quell’economia di mercato che appiattisce ogni differenza in nome del Dio denaro.
Come andò a finire la guerra è cosa nota, ma dalle ceneri della sconfitta non pochi gruppi raccolsero il lascito dei “fascismi”, sviluppandolo e innovandolo nel corso degli anni.

In Italia, nei primi anni del dopoguerra assunse rilievo una figura rimasta in ombra durante gli anni del regime: Julius Evola (in foto), che contribuì alla lotta “antiglobalizzazione” attraverso i suoi scritti e la diffusione di quelli di autori quali Oswald Spengler, Friedrich Nietzsche e René Guénon.
Punto centrale del suo pensiero è il concetto di Tradizione. Essa è «il filone di verità atemporale che percorre tutto il tempo concesso alla razza degli uomini», nella definizione del succitato Guénon. Il mondo che ci circonda sarebbe figlio della vittoria delle forze antitradizionali (dalla Rivoluzione Francese alla Seconda Guerra Mondiale), secondo un’interpretazione della storia come processo regressivo e non progressivo. Il risultato è la totale perdita del concetto del “Sacro” e il trionfo del materialismo: l’indivuo non è più “parte del Cosmo, della Polis e della Natura”, ma entità dissociata, imbastardita dalledonismo e dal consumismo imperanti. Anche per Evola dietro questa azione sovvertitrice si nasconde la mano ebraica, le cui lobbies detengono il potere finanziario.
La figura del filosofo siciliano è tutt’oggi al centro di aspri dibattiti all’interno dell’“area” Destra, tra chi ne rigetta quasi totalmente l’“incapacitante” contributo e chi al contrario lo ritiene ancora valido ed utile. Sicuramente un pensatore degno di studio, la cui produzione non può essere sintetizzata in poche righe.

Carica di tratti originali è anche la rivista “Orion” (fondata da Maurizio Murelli nel 1984), che propone arditamente l’unione degli ideali del “fascismo-movimento” (secondo l’espressione coniata da Renzo De Felice) con quelli del bolscevismo pre-regime, accanto ad un occhio di riguardo per il mondo islamico (soprattutto l’Iran di Khomeini). Ma gli accostamenti “rivoluzionari” non finiscono qui: soventi sono i richiami a Léon Degrelle, Che Guevara e numerosi altri simboli meta-politici, nell’ottica di un’aspra lotta al mondialismo (ovvero la globalizzazione nel suo significato più profondo, non solo economico ma anche politico-culturale) e i suoi principali fautori: gli USA.

Proprio il capitalismo a stelle e strisce attraverso massoneria, multinazionali, banche ed istituti finanziari alimenta “il Sistema per uccidere i popoli”, che ne disintegra la storia e la cultura per ridurli a meri aggregati di consumatori.
Questa analisi viene espressa dal francese Guillaume Faye (in foto) che propone l’“Archeofuturismo” come soluzione: bisogna riscoprire le proprie radici per difendersi, sapendo interpretare la modernità senza dimenticare il passato (arrivando a “conciliare Evola e Marinetti”). Faye è stato uno dei fondatori della “Nouvelle droite” assieme ad Alain de Benoist , altra figura capitale nella lotta all’America e alla globalizzazione.
Oltre all’alta finanza egli accusa anche l’ideologia marxista delluguaglianza e quella liberale dei diritti delluomo, che hanno spianato la strada ai disegni mondialisti del Sistema favorendo l’omologazione. La stessa democrazia odierna, privilegiando la quantità rispetto alla qualità, alimenta i processi sovvertitori.

Altro movimento degno di nota è quello del cosidetto “glocalismo” (animato in Italia da Eduardo Zarelli e la sua Associazione EstOvest) fortemente radicato sui princìpi del valore della Vita e della Natura per la riscoperta della dimensione genuina, “Locale” dell’esistenza. Aspra è la condanna della “megamacchina” (teorizzata dall’economista francese Serge Latouche), ovvero il modello globalizzante occidentale caratterizzato da utilitarismo, istinto livellatore, determinismo e colpevole dello sfruttamento indiscriminato della Terra.

Tematiche simili, queste, a quelle dei Comunitaristi, nati in America e fondati nella loro “corrente” di destra su antiliberalismo, anti-individualismo e forte senso della comunità (rifacendosi nobilmente ai “sensibili comuni” aristotelici). Tra i tanti interpreti di questa visione i più noti sono sicuramente Marco Tarchi, ex enfant prodige del Fronte della Gioventù, e Marcello Veneziani, un tempo punto di riferimento dell’“area”, oggi moderato e “raffreddato” protagonista in ambiti culturali più istituzionali.
È importante sottolineare che il filo conduttore di queste correnti di pensiero, la consapevolezza e la fierezza dellidentità, non comporta discriminazione verso “l’altro da sé”. Anzi solo una comunità con forte senso di appartenenza può accogliere facilmente (ovviamente in misura umana) nel proprio alveo individui estranei, risultando addirittura rafforzata dal proliferare di altri aggregati con universi valoriali ben radicati. Le differenze sono il sale della vita umana, accettarle e non tentare di appiattirle è l’unico modo “sano” di porsi per una Civiltà degna di questo nome.

La “ricognizione” dell’autore ci porta poi ad incontrare figure come Gabriele Adinolfi (nume tutelare della destra radicale, presente in “Orion” come in moltissime altre iniziative di valore), Massimo Fini (l’autore antimoderno per eccellenza) e il noto medievista Franco Cardini fino ai populisti “alla Haider”, passando attraverso una galassia di esperienze poco note ma ricche di valore (citando come ultimi, ma non certo per importanza, i fecondi contributi di Carlo Terraciano e Giorgio Locchi).

Fraquelli, pur dichiarando di non riconoscersi nell’ambiente analizzato, ci offre quindi un fondamentale contributo su un “mondo politico” misconosciuto quanto all’avanguardia e ricco di iniziativa, in cui non c’è più traccia di razzismo (tra l’altro “invenzione” di marca illuminista...) ma solo di spirito critico e saldezza ideale.


Per approfondire leggi l’intervista a Fraquelli realizzata dal Centro Studi Polaris

Condividi

venerdì 1 maggio 2009

Risorgimento e Fascismo


Risorgimento italiano
. Una pagina fondamentale della nostra storia, che ancora oggi presenta molti lati oscuri non mancando di suscitare polemiche e dibattiti. C’è chi difende l’operato dei Savoia e chi, al contrario, ne contesta aspramente la legittimità, difendendo a spada tratta il Sud martoriato.
Se pur è vero che al meridione i piemontesi si macchiarono di crimini e atrocità (basti pensare alla legge Pica, che permetteva di giustiziare un “brigante” sulla base del semplice sospetto), comportandosi spesso come veri e propri colonialisti, la chiave di lettura più saggia deve rintracciare le spinte ideali che infiammarono quel periodo per trarne gli spunti ancor oggi attuali.

A fronte di una casa Savoia ingorda, miope e manovrata dalla Francia e dalla Massoneria inglese c’è un Risorgimento-movimento (traendo spunto da De Felice) costituito dalla spontanea rivolta popolare. E queste istanze realmente rivoluzionarie sono incarnate da Luciano Manara, Goffredo Mameli, Giuseppe Mazzini, la Giovine Italia, le Camicie Rosse e la Repubblica Romana, dall'eroismo delle rivolte di Brescia, Venezia e Milano.
Al di là delle diverse reazioni (e dei diversi progetti) che ogni regione italiana ebbe di fronte all’unificazione, sono questi esempi il cuore pulsante di un’avanguardia nella quale possiamo rintracciare tutte le caratteristiche di una Nazione degna di questo nome. Purtroppo fu sostanzialmente tradita dalle circostanze avverse, e dovrà aspettare il primo conflitto mondiale per trovare completa realizzazione.
Infatti la Prima Guerra Mondiale viene vissuta come Quarta Guerra dIndipendenza da tutti quei combattenti, intellettuali ed artisti che riprendono il “filo rosso” del processo rivoluzionario interrotto 60 anni prima. Vittorio Veneto è il simbolo del riscatto del popolo italiano. Il Risorgimento viene portato a termine dal figlio di questi eventi, il Fascismo, che ne raccoglie l’essenza più pura e si afferma prepotentemente “sanando” tutte le ferite ancora aperte della Nazione. Viene ridata dignità al Sud, nel nobile tentativo di “fare gli italiani”, senza distinzioni di classe ed ipocrisie. Viene riaffermata la leggittima vocazione mediterranea, che affonda le sue radici nel pensiero garibaldino e che fu ignominiosamente soffocata dall’Inghilterra. Proprio questo aspetto sarà uno dei fattori scatenanti il secondo conflitto mondiale.

Ma è soprattuto nei miti e nei simboli che si afferma la continuità: pochi giorni prima della Marcia su Roma, Benito Mussolini porta con sé l’ultimo garibaldino in vita, nel comizio di Piazza del Plebiscito a Napoli. Lo stesso Duce fonda qualche anno dopo il Museo del Risorgimento. Senza contare le affinità tra Carboneria e Squadrismo e soprattuto tra Repubblica Romana ed R.S.I.: Mazzini sarà l’asse portante della propaganda repubblicana impegnata nella strenua difesa dall’invasore alleato. Agli americani la strada viene spianata dal voltafaccia di quelle stesse entità che erano state all’origine del “Risorgimento tradito”: Trono e Altare. Il re e la Chiesa non perdono tempo nel passare al campo avverso, per la vittoria delle forze economiche che sin dalla Restaurazione avevano condizionato la vita dei popoli. In una parola: Il Capitalismo.
È questo il prezzo che il Regime paga per non aver saputo eliminare fino in fondo l’antinazione”, i potentati internazionalisti massonici e clericali. Come già Garibaldi e Mazzini, il Fascismo scende a compromessi allevandosi delle “serpi in seno” che gli saranno esiziali.

Dalla fine della guerra ad oggi è proprio al trionfo di suddette forze che abbiamo assistito, anche se si cominciano ad avvertire i primi scricchiolii (la crisi economica ne è l’aspetto più evidente).
Nasce proprio dall’esigenza di affrontare nuove sfide e nuove crisi (che come abbiamo più volte ricordato significa “pericolo” e “opportunità” al tempo stesso) il bisogno di capire la storia al di là delle letture a senso unico. La cui matrice è spesso la “teologia illuminista” che Francesco Mancinelli ha mirabilmente descritto: «continuatrice sottile ed incosciente di quel monoteismo biblico che avrebbe voluto azzerare».

Il Risorgimento non dev’essere più questione di tifoserie inferocite, ma terreno di feconda Sintesi, sull’esempio dell’esperienza mussoliniana. Risulta così più che mai utile unire il prezioso lavoro di studiosi come Paolo Zanetov e Valentino Romano, che ci aprono gli occhi sul dolore del Sud, sul complesso fenomeno del brigantaggio e su figure luminose come José Borjès, a quello del succitato Francesco Mancinelli e di Gabriele Adinolfi. Due pensatori meta-politici fondamentali per capire le anime rivoluzionarie del periodo in esame, colte nella loro reale essenza. Tra di esse, spicca l’eroismo della Repubblica Romana, impareggiabile per consenso e valore culturale, oltre che esempio di pura italianità. Non è un caso che fu stroncata dall’esercito francese (con generali massoni), su richiesta del Papa Pio IX (!), rovesciando nei fatti la vulgata che la descrive come mera entità massonica. Anche su Garibaldi sono stati fatti tentativi denigratori, tesi a disconoscere il suo valore di uomo d’armi tacciandolo di viltà. È lo stesso meccanismo subdolo messo in atto con Che Guevara – come descrive ancora Adinolfi – che non deve resistere davanti alla forza del mito, irrorato dalla verità (basti menzionare la battaglia di Bezzecca del 12 Luglio 1866, momento di inarrivabile coraggio dei volontari garibaldini).

Sgombrato il campo dagli equivoci, possiamo ora approcciarci più serenamente alle vicende di quegli anni lontani, i cui strascichi polemici non mancheranno di animare nuovi dibattiti. Il tutto senza perdere la centralità del valore unitario della nostra Patria, ricordandosi che «non esistono questioni meridionali o settentrionali, ma questioni nazionali».

Condividi