domenica 30 novembre 2008

Non Prevarranno!



Esattamente 70 anni fa veniva vigliaccamente assassinato Corneliu Zelea Codreanu, fondatore del movimento rivoluzionario romeno della Guardia di Ferro.
Dopo averlo incarcerato il re Carol II lo fece uccidere inscenando un tentativo di fuga dal carcere.
Il suo movimento - organizzato in cellule dette Cuib, con sede centrale alla celeberrima Casa Verde - si contraddistingueva per la forte ispirazione cattolica, il tradizionalismo, l'aspra lotta alla corruzione parlamentare e la vicinanza alle esigenze dei ceti più deboli, tra i quali godeva di un ampio consenso.
Proprio per questo i suoi militanti, costantemente perseguitati, stavano diventando una forza troppo ingombrante per il governo conservatore che si liberò barbaramente del Capitano.
Questo soprannome derivava dal suo innato carisma, che folgorò personaggi quali E. Cioran, M. Eliade, J. Evola ed intere generazioni di "postfascisti", oltre a (udite! udite!) Indro Montanelli, inviato in Romania nel 1940 per il Corriere della Sera.

L'opera e gli insegnamenti di Codreanu sono mirabilmente riassunti nelle "leggi fondamentali del cuib", da lui elaborate e diffuse:

1) La legge della disciplina: sii legionario disciplinato, ché solo in questo modo sarai vittorioso. Segui il tuo capo nella buona e nella cattiva fortuna.
2) La legge del lavoro: lavora. Lavora ogni giorno. Lavora con amore. Ricompensa del lavoro ti sia non il guadagno, ma la soddisfazione di aver posto un mattone per la gloria della Legione e per il fiorire della Romania.
3) La legge del silenzio: parla poco. Parla quando è necessario. Di' quanto è necessario. La tua oratoria è l'oratoria dell'azione. Tu opera; lascia che siano gli altri a parlare.
4) La legge dell'educazione: devi diventare un altro. Un eroe. La tua scuola, fattela tutta nel cuib. Conosci bene la Legione.
5) La legge dell'aiuto reciproco: aiuta il tuo fratello a cui è capitata una disgrazia. Non abbandonarlo.
6) La legge dell'onore: cammina soltanto per le vie indicate dall'onore. Lotta, e non essere mai vile. Lascia agli altri le vie dell'infamia. Piuttosto di vincere per mezzo di un'infamia, meglio cadere lottando sulla strada dell'onore.




La Nave Verde


La nave è battuta qua e là dalle onde,
la furia del mare ne investe le sponde
e il flutto si innalza uguale a un titano...
Capitano! Capitano! Capitano!

Sembra soverchiata, sott'acqua si perde,

ma è solo un istante... quella nave verde
è morsa con rabbia dal grande uragano...
Capitano! Capitano! Capitano!


Ma mentre imperversa il diluvio furente,
un suono di tromba per l'aria si sente:
sul mare infinito, sul vasto acqueo piano

s'odono i comandi tuoi, o Capitano!

Ed ecco ad un tratto superba e sicura

si drizza la nave... la nebbia non cura,
non cura gli assalti del marin titano:
questa è la tua nave verde, o Capitano!

Impazza feroce sul mar la rovina,
sempre più vicina, sempre più vicina...
Ma l'animo è forte e il furore è vano
Capitano! Capitano! Capitano!

Pronti ad affrontare in piedi la morte
su un mar che ci investe ogni istante più forte,
vinciamo ogni gorgo, i marosi infrangiamo
col pensiero fisso in te, o Capitano!

La nostra canzone è il combattimento:

un dì nasceranno campi di frumento

dalla cieca selce, dal cumulo vano
dei massi e del nostro sangue, o Capitano!


Se la morte stessa balzasse sul ponte,
fulminei noi le straremmo di fronte,
in mezzo alla furia del grande uragano...

Capitano! Capitano! Capitano!

(Aron Cotruş, traduzione di Claudio Mutti)

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sabato 29 novembre 2008

Il Tramonto dell’Occidente

Riassumendone in breve l’opera, Spengler esprime nella prima parte un approccio nuovo allo studio della storia, che aveva già avuto vari ma poco ascoltati predecessori, dall’arabo Ibn Khaldun, all’italiano Giambattista Vico, ai russi Nikolai Danilevsky e Konstantin Leontiev, al tedesco Wilhelm Dilthey: un approccio morfologico che vede lo studio delle civiltà come organismi separati, ma simili nel seguire un ciclo vitale ben determinato di nascita, fioritura e decadenza, seguendo paradigmi analoghi. Ogni civiltà ha un’anima, determinata dalle proprie condizioni etnogeografiche di origine (così alla Grecia piccola e frammentata corrisponde l’atomismo dell’anima Apollinea, agli spazi selvaggi del Nord Europa corrisponde lo sforzo verso l’infinito dell’anima Faustiana, e così via), che si esprime dando vita a peculiari forme storiche, politiche, artistiche, economiche, filosofiche, religiose, ma anche scientifiche e matematiche. Spengler grazie alla sua cultura ampia e “multiscientifica” riesce ad analizzare e trattare ciascun argomento con esemplare rigore.

Nella seconda parte egli applica quest’approccio tracciando una storia comparata e assolutamente relativistica delle otto civiltà (egizia, mesopotamica, cinese, indiana, classica, mesoamericana, araba, occidentale), mettendo in luce sia come le loro espressioni siano frutto della propria anima (quasi rovesciando il concetto marxista di struttura e sovrastruttura dall’ambito economico a quello spirituale), sia come seguano tutte un medesimo paradigma di sviluppo, in cui i punti più importanti sono:

a) l’opposizione, centrale alla cultura tedesca moderna, tra la Kultur (espressione della vita, dell’essere, della fede e del misticismo, della campagna, della nazione, della razza) e la Zivilisation (espressione dello spirito, dell’essere-desto, della letteratura e dello sterile e intellettualistico razionalismo, della metropoli, del cosmopolitismo e della massa);

b) il concetto di razza, come precisamente radicata a un territorio e plasmata dagli eventi storici, ben diversamente dunque da una concezione razzialista che leghi il concetto di razza alla biologia (prima frenologica, ora genetica) o ponga questo alla base dell’agire storico.

Secondo Spengler, la nostra Kultur si sarebbe esaurita con la Rivoluzione Francese e Napoleone analoghi di Alessandro Magno e dell’Ellenismo, dando inizio alla Zivilisation. Noi ci troveremmo ora ad essere dominati dall’economia e dal denaro, mentre si diffonderebbe, come un revival religioso (“Seconda religiosità” la chiama Spengler), il socialismo. Tuttavia è destino ed è necessità storica, che l’unica forza che può ribellarsi e vincere il denaro, il sangue, si sollevi contro la situazione attuale, facendo appello al riemergere d’istinti più primitivi. L’epoca che si schiude a noi sarà quella del Cesarismo, ovvero del dominio di grandi figure che sottometteranno di nuovo l’economia alla politica, lottando tra di sé per il possesso del mondo intero. Queste figure però insieme all’esercizio di un potere illimitato sentiranno anche il dovere di prendersi cura del mondo e delle popolazioni («Il popolo ha un unico diritto: quello di essere governato bene»). L’azione in questo senso è necessaria, proprio perché voluta dal destino.

In Italia, il giudizio di Croce stronca subito Spengler come un «dilettante», mettendo fuori discussione la pubblicazione de Il tramonto dell’Occidente. Tuttavia, alcuni scritti politici furono pubblicati lo stesso all’inizio degli anni ‘30, per via dell’ammirazione di Spengler per Benito Mussolini, il quale a sua volta lesse, apprezzò e fu ispirato dal filosofo tedesco, il quale vedeva in lui un Cesare (diversamente da Adolf Hitler, che Spengler considerava invece un «fesso»).

Dopo la guerra Spengler era caduto in disuso, anche in Germania, per via del suo pessimismo. In Italia fu rilanciato da un altro grande filosofo, a suo tempo definito da Gottfried Benn lo “Spengler italiano”: Julius Evola. Egli tradusse e pubblicò per Longanesi nel 1961 Il tramonto dell’Occidente, nonostante non condividesse in toto le idee di Spengler, di cui anzi critica ampiamente l’impostazione e la forma mentis, come spiega nell’introduzione all’opera e nella sua autobiografia Il cammino del cinabro. Si rendeva conto, tuttavia, dell’impatto rivoluzionario dell’opera e provvide a promuoverla in Italia, diffondendo la conoscenza di Spengler all’interno della cultura di Destra. Molto apprezzato dagli ambienti della Nuova Destra italiana negli anni ’80, Spengler ha conosciuto a partire dal 1991 una sorta di Renaissance culturale, grazie anche ad intellettuali quali Marcello Veneziani e Stefano Zecchi, che rilanciarono anche in campo accademico gli studi.

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venerdì 28 novembre 2008

Invito alla lettura di Oswald Spengler

Esistono libri che hanno avuto un successo e una fama che vanno ben oltre la cerchia dei loro lettori, libri la cui lettura, per ardua o lunga che sia, ci influenza e ci cambia molto più di quanto non siamo disposti ad ammettere. Uno di questi è senz’altro “Il tramonto dell’Occidente: Lineamenti di una morfologia della storia mondiale” (Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte) di Oswald Spengler, uscito in due parti, in due momenti ben diversi: il primo volume, “Forma e realtà”, (Gestalt und Wirklichkeit) nel marzo 1918, quanto gli Imperi Centrali erano ancora all’offensiva, la Russia era stata appena messa fuori combattimento e le difese Alleate s’incrinavano sul Piave e sulla Somme; il secondo volume, “Prospettive della storia mondiale” (Welthistorische Perspektiven) usciva invece nel 1922, a guerra ormai terminata, e con la Germania in piena crisi (furono riveduti ed editi in un unico volume l’anno seguente).

Il libro nel suo insieme ebbe un esplosivo successo di vendite, a dispetto della crisi economica, presso il pubblico borghese (oltre 100.000 copie) e indusse un rilevante dibattito di critica (il cosiddetto “Spengler-Streit”), ed ebbe un’importante ricezione anche all’estero. È utopico voler qui in breve tracciare un’analisi completa dell’opera, anche per le dimensioni (circa 1500 pagine), ma voglio piuttosto spiegare perché valga la pena di leggerlo.

Oswald Spengler (1880 – 1936) non era un accademico né un filosofo, si era laureato in matematica e scienze naturali all’Università di Halle, frequentando corsi di varie materie, e aveva ottenuto la licenza d’insegnamento superiore con una tesi su Eraclito. Dopo aver insegnato al liceo, l’eredità materna gli consentì di dedicarsi allo studio e alla scrittura a tempo pieno. Fu la crisi di Agadir del 1911 a gettare in lui il dubbio sull’effettiva decadenza della civilizzazione europea, benché allora paresse dominare la Terra. In undici anni egli scrisse dunque quest’opera monumentale che ricevette però numerose critiche dal mondo accademico. Molti non tolleravano quest’approccio così poco ortodosso, questo stile più da presocratico che da professore; altri ritenevano che fosse eccessivamente pessimista nelle sue vedute. Tuttavia, non solo fu apprezzatissimo dal pubblico tedesco, ma il grandissimo interesse che ha destato in Europa e, soprattutto, nel resto del mondo lo contrassegnano oggi inequivocabilmente come un grande classico della politica, apprezzato dagli eurasiatisti come Kissinger, in America Latina come in Giappone.

L’opera di Spengler non si esaurisce con “Il tramonto dell’Occidente”, ma continua articolandosi in tre ambiti: politico, storico e filosofico, strettamente intrecciati tra loro. Il primo ambito è il più ricco, per cui segnalo l’opera breve ma pregnante “Prussianesimo e socialismo” (1919), i libri “Rigenerazione del Reich” (1924) e “Anni della decisione” (1933), oltre alla raccolta di saggi “Forme della Politica Mondiale” (1933), tutti editi in Italia dalle Edizioni Ar di Padova. La riflessione storico-filosofica procede con “L’uomo e la tecnica” (1931), “Scritti e Pensieri” (1933) e i due grandi volumi postumi “Urfragen”, dedicato a questioni di carattere metafisico, e “Albori della Storia Mondiale”, che ricostruisce la preistoria umana, editi rispettivamente da Guanda, SugarCo, Longanesi ed Edizioni Ar. Per chi invece preferisse iniziare da un’antologia, come un assaggio del pensiero spengleriano, consiglio l’antologia “Per un soldato” (1941), curata dalla sorella Hildegarde Kornhardt, e “Spengler. Ombre sull’Occidente” (1973), curata da Adriano Romualdi, entrambe edite dalle Edizioni Ar.

Concludendo, non posso che raccomandare la lettura dell’opera principale di Spengler, proprio perché è come un colpo di spugna sulle preconcezioni hegeliane della storia come progresso e fortemente eurocentrica, e spalanca interi nuovi mondi di eventi ed interpretazioni storiche spesso negletti o sconosciuti; perché offre spiegazioni su molti fenomeni storici convincenti o quanto meno degne d’esame; perché le sue predizioni storiche, svalutate all’epoca in cui scriveva, si sono avverate o si stanno avverando; insomma: un autore oggi più che mai attuale e stimolante la riflessione.

Domani l'articolo sul Tramonto dell'Occidente

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mercoledì 26 novembre 2008

Il pensiero di Pareto su élites, borghesia e Fascismo

Vilfredo Pareto (1848 – 1923), il “solitario di Celigny”, fu un esponente della teoria sociologica delle élites. Più precisamente seguì, prendendo le distanze da Mosca, un approccio “psicologico”.

Antidemocratico per forza di cose, egli sostenne che, in ogni società organizzata, è sempre una minoranza (classe eletta o élite) a prendere le decisioni, anche con la forza. I regimi democratici non sono esenti da ciò.

Riguardo alla società, Pareto è convinto che non può sussistere se non organizzata gerarchicamente, e che anche la rivoluzione che si pone come obiettivo l’abbattimento di un ordine oligarchico, produrrà sempre e comunque un nuovo ordine oligarchico. Cambieranno le élites, nel senso che andranno a governare persone diverse mosse da sentimenti e/o ambizioni diverse, certo, ma non cambierà mai la logica di fondo: e cioè che ad usufruire del potere politico sarà comunque una minoranza. «La storia è un cimitero di aristocrazie...»

Il rapporto tra classe eletta e società “governata” non si riduce a quello di classe proposto da Marx. Infatti non esiste solo la “lotta di classe” tra ricchi e poveri, ma anche tra altre realtà sociali (uomini e donne, operai e contadini, fumatori e non fumatori, ecc.) che vanno ad intersecarsi con la precedente rendendo il contesto un intreccio inestricabile. Per questo motivo, Pareto, considerava con avversione le dottrine socialiste, che secondo lui erano, pur se ben sviluppate nella parte ideale, troppo riduttive; e per questo non in grado di smuovere i profondi sentimenti che spingono l’uomo all’azione. Gli uomini, infatti, hanno bisogno di credere in “qualcosa” (fede) e di agire in nome di “qualcosa” (mito). Nel fare questo il Nazionalismo riesce molto meglio del Socialismo.

Il sociologo che stiamo trattando vede la storia come un succedersi di classi elette. Il ricambio di queste avviene in senso ondulatorio: un’élite che ha raggiunto il suo “picco” massimo è destinata ad avere un periodo di decadenza. Può accadere che, toccato il limite di questa decadenza, avvenga il ricambio e una nuova élite inizi così il suo corso. Ma può anche accadere che tale ricambio avvenga quando l'élite destinata a scomparire non sia in decadenza, o sia in ascesa. Pensiamo a una rivoluzione improvvisa dove, per mezzo di un colpo di Stato, una nuova minoranza prenda il potere; in questo caso non è detto che la vecchia classe eletta fosse necessariamente in decadenza.

Sulla morale borghese, Pareto scrisse un opuscolo intitolato Il virtuismo borghese. Rilevò che in passato era vietato attaccare il sentimento religioso, ma non era necessario rispettare i tabù della castità. Col proliferare dello stile di vita borghese, le parti si invertirono; divenne possibile “sbeffeggiare” la religione, ma guai a rendere pubblico tutto ciò che potesse, anche alla lontana, essere inerente al sesso. «In realtà [...], la morale che ci vogliono imporre colla legge i virtuisti, è semplicemente la morale cattolica o protestante». In questo senso il “virtuismo” fu il Cattolicesimo della borghesia.

Riguardo al Fascismo va detto che Pareto, morendo nel 1923, poté studiare solo la veste movimentista e rivoluzionaria del fenomeno, e i suoi studi a riguardo furono per lo più comparativi col fenomeno socialista.

Sono due gli elementi del Fascismo che “il solitario di Celigny” captò come peculiari: l’uso della violenza extra-legale e l’esistenza di un mito il cui nocciolo è nazionalista.

La fede fascista è inferiore a quella socialista, ma ha saputo meglio di quella degli “avversari” risvegliare, attraverso il mito della nazione, la coscienza delle persone. Il Socialismo, infatti, era spinto da «desideri del pronto godere» e «combatteva per impadronirsi di cose e posizioni a sé utili». Il Fascismo, invece, perseguiva un ideale mitico che spingeva la maggior parte dei suoi seguaci all’azione; azione però controllata e indirizzata da un capo che si prefiggeva una mèta di grandissimo (e nobilissimo) livello: la conquista del potere centrale.

Le istanze fasciste trionfarono perché portate avanti da uomini che ardevano di una fede che mancò ai socialisti.

Concludo il post con una citazione paretiana a mio avviso attualissima: «Siamo giunti ad un punto in cui si scorge, tra le nebbie dell’avvenire, il principio di trasformazioni della democrazia, del parlamentarismo, del ciclo della plutocrazia demagogica (potere dell’alta finanza che per portare a sé consensi fa promesse che sa già di non poter mantenere), e l’Italia, che già fu madre di tante forme di civiltà, ben potrebbe avere gran parte nello generarne una nuova». [Libertà, 1923, in Scritti sociologici, pag. 1210]

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martedì 25 novembre 2008

Tornare ad essere veri uomini, veri guerrieri



Yukio Mishima (14 gennaio 1925 – 25 novembre 1970) era uno scrittore e drammaturgo giapponese di fama mondiale. Al suo innegabile talento letterario seppe unire un “vivere inimitabile” fatto di anticorformismo, culto del corpo e spirito guerriero, oltre che sconfinato amore per la Patria.
38 anni fa compì il suicidio rituale (seppuku) dopo aver occupato (con quattro membri dell’Associazione degli Scudi, il suo gruppo paramilitare) simbolicamente il Ministero della Difesa. Fu uno spettacolare ed estremo gesto di ribellione davanti ad un paese schiavo dell’America e svuotato di ogni Tradizione, senza più alcuna dignità (qualcosa che anche noi conosciamo bene...).

Qualche mese prima di morire scrisse parole profetiche, sia riguardo al suo destino che a quello della sua nazione:

«Aver vissuto tranquillamente in questi venticinque anni di democrazia, traendone vantaggi nonostante la mia disapprovazione, ferisce da lungo tempo il mio animo (...) il Giappone è destinato a scomparire. Al suo posto rimarrà, in un lembo dellAsia estremo-orientale, un grande paese produttore, inorganico, vuoto, neutrale e neutro, prospero e cauto. Con quanti ritengono che ciò sia tollerabile, io non intendo parlare»


Ecco le ultime parole del Samurai, che ancora risuonano nell’edificio militare dove si tolse la vita:

«(...) insorgeremo insieme ed insieme moriremo per lonore. Ma prima di morire ridoneremo al Giappone il suo autentico volto.
Avete tanto cara la vita da sacrificarle lesistenza dello spirito? Che sorta di esercito è mai questo, che non concepisce valore più nobile della vita? Noi ora testimonieremo a tutti voi lesistenza di un valore più alto del rispetto per la vita. Questo valore non è la libertà, non è la democrazia. È il Giappone. Il paese della nostra amata storia, delle nostre Tradizioni: il Giappone.
Non cè nessuno tra di voi disposto a morire per scagliarsi contro la Costituzione che ha disossato la nostra Patria? Se esiste, che sorga e muoia con noi! Abbiamo intrapreso questa azione nellardente speranza che voi tutti, a cui è stato donato un animo purissimo, possiate tornare ad essere veri uomini, veri guerrieri»

La morte è l’ultima delle sue opere, l’estremo tentativo di unire arte e vita.
Una vita che Mishima aveva saputo Tendere come un Arco.


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Dove il teschio canta/ Torneranno i fanti, torneranno le bandiere...


Canto LXXIII
Cavalcanti
Corrispondenza Repubblicana


E poi dormii
E svegliandomi nell’aere perso
Vidi e sentii,
E quel ch’io vidi mi pareva andar a cavallo,
E sentii:
«A me non fa gioia
Che la mia stirpe muoia
infangata della vergogna
Governata dalla carogna
e spergiurata.
Roosevelt, Churchill ed Eden*
bastardi ed ebreucci
Lurchi e bugiardi tutti
e il popolo spremuto in tutto
ed idiota!
Morto che fui a Sarzana*
aspetto la diana
della riscossa.
Sono quel Guido* che amasti
pel mio spirito altiero
E la chiarezza del mio intendimento.
De la Ciprigna sfera*
Conobbi il fulgore
già cavalcante
(mai postiglione)
Per le vie del Borgo
detto altramente
La città dolente
(Firenze)
sempre divisa,
Gente stizzosa e leggiera
che razza di schiavi!
Passai per Arimino*
ed incontrai uno spirito gagliardo
che cantava come incantata
di gioia!
Era una contadinella
Un po’ tozza ma bella
ch’aveva a braccio due tedeschi
E cantava,
cantava amore
senz’aver bisogno
d’andar in cielo.
Aveva condotto i canadesi
su un campo di mine
Dove era il Tempio
della bella Ixotta*.
Camminavano in quattro o in cinque
ed io ero ghiotto
d’amore ancora
malgrado i miei anni.
Così sono le ragazze
nella Romagna.
Venivan’ canadesi
a ‘spugnar’ i tedeschi,
A rovinar’ quel che rimaneva
della città di Rimini;
Domandarono la strada
per la Via Emilia
a una ragazza,
una ragazza stuprata
Po’ prima da lor canaglia.
–Be’! Be’! soldati!
Questa è la strada.
Andiamo, andiamo
a Via Emilia!–
Con loro proseguiva.
Il suo fratello aveva scavato
I buchi per le mine,
là verso il mare.
Verso il mare la ragazza,
un po’ tozza ma bella,
Condusse la truppa.
Che brava pupa! che brava pupetta!
Lei dava un vezzo
per puro amore,
che eroina!
Sfidava la morte,
Conquistò la sorte
peregrina.
Tozza un po’ ma non troppo
raggiunse lo scopo.
Che splendore!
All’inferno ‘l nemico,
furon venti morti,
Morta la ragazza
fra quella canaglia,
Salvi i prigionieri.
Gagliardo lo spirito
della pupetta
Cantava, cantava
incantata di gioia,
Or’ ora per la strada
che va verso ‘l mare.
Gloria della patria!
Gloria! gloria
Morir per la patria
nella Romagna!
Morti non morti son’,
Io tornato son’
dal terzo cielo*
per veder la Romagna,
Per veder’ le montagne
nella riscossa,
Che bell’inverno!
Nel settentrion rinasce la patria,
Ma che ragazza!
che ragazze,
che ragazzi,
portan’ il nero!»

Ezra Pound





* Anthony Eden (1897 – 1977), ministro britannico della Guerra e degli Affari Esteri durante la Seconda Guerra Mondiale, acerrimo nemico di Germania e Italia; per questo si scontrò, in precedenza, con Chamberlain, il quale si era distinto per un atteggiamento più mite e moderato nei confronti delle forze dell’Asse.
* Sarzana, comune in provincia della Spezia, teatro di aspri scontri tra le truppe italo-tedesche e gli “sbandati”, ma anche e soprattutto luogo di esilio del poeta Cavalcanti, dal quale tornò malato a Firenze ove morì pochi giorni dopo.
* Guido Cavalcanti (1255 ca. – 1300), celebre poeta fiorentino, tra i più grandi esponenti del dolce stil novo e amico di Dante.
* Secondo la struttura del Paradiso dantesco, il Terzo Cielo è il Cielo di Venere (Ciprigna è epiteto della dea), caratterizzato dall'amore, e dove infatti risiedono le anime di coloro che amarono; tuttavia fu Pound a inserirvi Cavalcanti, giacché egli, nei giorni in cui è ambientata la Divina Commedia, non era ancora morto.
* Antico nome di Rimini (in latino Ariminum).
* Tempio Malatestiano a Rimini, ove è sepolta Isotta, moglie di Sigismondo Malatesta, signore di Rimini, che commissionò il tempio stesso, al quale lavorarono grandi artisti dell’epoca quali Leon Battista Alberti, Matteo de’ Pasti, Agostino di Duccio e Piero della Francesca.
* Vedi nota precedente.

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lunedì 24 novembre 2008

A proposito di soluzioni alla crisi...



Sessantacinque anni fa nasceva la Repubblica Sociale Italiana.
Nella sua pur breve vita, oltre ad un alto esempio Ideale, ci ha fornito delle vere e proprie pietre miliari sul tema sociale.
Il Manifesto di Verona (suo primo documento politico) offre degli spunti che appaiono di incredibile attualità, soprattutto davanti alla pesante crisi economica che attanaglia tutto loccidente...


Art. 3 - La Costituzione repubblicana dovrà assicurare al cittadino il diritto di controllo e di responsabile critica sugli atti della pubblica amministrazione.

Art. 8 - La Repubblica (...) si adopererà per la realizzazione di una comunità europea, con la federazione di tutte le Nazioni che accettino i seguenti principi fondamentali:

a) eliminazione dei secolari intrighi britannici dal nostro continente

b) ABOLIZIONE DEL SISTEMA CAPITALISTICO INTERNO E LOTTA CONTRO LE PLUTOCRAZIE MONDIALI.

Art. 9 - Base della Repubblica Sociale e suo oggetto primario è il lavoro, manuale, tecnico, intellettuale in ogni sua manifestazione.

Art. 12 - In ogni azienda (industriale, privata, statale, parastatale) le rappresentanze dei tecnici e degli operai coopereranno intimamente – attraverso una conoscenza diretta della gestione – all’equa fissazione dei salari, nonché all’equa ripartizione degli utili tra il fondo di riserva, il frutto al capitale e la partecipazione degli utili stessi per parte dei lavoratori (con le eccedenze destinate a scopi di natura sociale, dall’art. 46 del “decreto sulla socializzazione delle imprese”).

Art. 15 - Quello alla casa non è soltanto un diritto di proprietà, è un diritto alla proprietà. Il Partito provvede a fornire in proprietà la casa alle famiglie dei lavoratori di ogni categoria, mediante diretta costruzione di nuove abitazioni o graduale riscatto delle esistenti. In proposito è da affermare il principio che laffitto costituisce titolo dacquisto.


«Il Fascismo stabilisce luguaglianza verace e profonda di tutti gli individui di fronte al lavoro e di fronte alla nazione... Che cosa significa questa più alta giustizia sociale? Significa il lavoro garantito, il salario equo, la casa decorosa; significa la possibilità di evolversi e di migliorare incessantemente. Non basta. Significa che gli operai, i lavoratori devono entrare sempre più intimamente a conoscere il processo produttivo e a partecipare alla sua necessaria disciplina»

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Governo ed economia reale

Venerdì 28 verrà approvato dal governo il "pacchetto famiglie" per incentivare la ripresa economica.

Più soldi ai ceti più bassi (aiuti minimi di 150 Euro alle famiglie a reddito compreso tra i 12 e i 20mila Euro) e riduzioni di spese fisse è ciò cui si punta.
Da gennaio potrebbero ridursi le accise sulla benzina e sulle bollette di elettricità e gas. Ritardandosi il meccanismo di formazione dei prezzi, il calo del greggio (ora sta 50 $ al barile circa) avrebbe iniziato a farsi sentire dai prossimi mesi. La manovra del governo è quella di anticipare tale calo con tagli già da gennaio per poi lasciare che il prezzo si stabilizzi ad aprile, quando cioè le accise torneranno al loro livello attuale.

Riguardo alle tariffe autostradali si pensa al congelamento di possibili aumenti futuri; possibilità che ha provocato venerdì a Piazza Affari una "brutta caduta" di Atlantia, società che controlla autostrade per l'Italia.

Cambiamenti in vista anche sul fronte mutui. Dai prossimi mesi le famiglie potrebbero beneficiare della riduzione dei tassi Euribor. Infatti nel codice etico che le banche riceventi i finanziamenti statali dovranno accettare, è previsto da parte delle suddette banche l'impegno a ridurre le rate dei mutui a sostegno delle famiglie, adottando eventualmente come base il tasso di riferimento della BCE invece che l' Euribor.

A vantaggio delle imprese è invece previsto un taglio di 3 punti su Ires e Irap ma non su l'Irpef, 3 punti che verranno recuperati a luglio 2009.


In questo scenario di crisi economica, si è sentito parlare molto di un incentivo a sostegno dell'economia reale; è a tal proposito interessante l'opinione del premio Nobel Samuelson che suggerisce di aiutare con tagli delle tasse e misure di accomodamenti i ceti più bisognosi contrariamente a quella che fu la politica di Bush che avvantaggiò, attraverso il compassionate conservatism, i ceti più abbienti. Aiutando i più poveri, infatti, essi avranno a disposizione più soldi per l'acquisto di beni di prima necessità (latte, pane, vestiario, ecc.) rimettendo così in circolo quel denaro che aiuterà l'economia (reale) a camminare. Secondo Samuelson aiutare i più ricchi significherebbe dargli l'opportunità per reinvestire in borsa.

Conclude l'economista, e qui conviene riportare direttamente le sue parole: " il capitalismo senza controlli e regole è destinato a suicidarsi"...

(tratto da "Il Messaggero" del 21/11/2008)

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venerdì 21 novembre 2008

Riflessioni sulla Scuola (Fascista)...


«Superare la classe, come fatto sociale e come fatto economico, nella triplice attualità dello stato unitario, della gerarchia del valore, dell’organica rappresentanza professionale, è programma del Fascismo.

Una scarsa sensibilità in questa materia può compromettere, annullare qualsiasi propaganda. L’apologetica al regime è facile. L’Educazione al Fascismo è arte difficile. La scuola aperta a tutti – tranne gli svogliati e gli incapaci – in ogni suo ordine e grado; la scuola aperta a tutti secondo le capacità e non secondo le possibilità economiche della famiglia: questo il passaggio obbligato d’un antiborghesismo che voglia andare a fondo.

Finché il professionista sarà il figlio del professionista, lo spirito borghese cacciato dalle piazze avrà rifugio nelle case, l’azione politica dovrà spendere metà del suo lavoro a disfare i domestici pregiudizi [...] O scuola aperta o formazione classista. O scuola aperta o casta borghese.

Questo il valore rivoluzionario di quella Carta della Scuola che garantisce oggi al Fascismo l’educazione della civiltà».


(Berto Ricci, Categoria Spirituale e Categoria Sociale)


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giovedì 20 novembre 2008

Non originali, ma originari: “Le radici spirituali dell’Europa. Romanità ed Ellenicità”


«La Storia è la metafora del Mito». Il breve saggio di Giandomenico Casalino, che riproduce un suo intervento ad una conferenza del 2006, è intriso di questo concetto fondamentale. Parole – e lo stesso Casalino se ne stupisce – di Andrea Carandini, celebre archeologo di formazione marxista. Questa premessa risulta indispensabile al vero e proprio tema della discussione, ossia le radici spirituali dell’Europa; «l’idiota modernista dice che il MITO È UNA METAFORA DELLA STORIA, cioè – secondo lui – il Fatto è l’unica cosa concreta e reale; il mito è la chiacchiera che metaforizza il fatto. Ma ignora – perché è cieco e non vede – che il fatto è tale ed esiste in quanto incarna l’Idea, come dice Hegel».

Casalino ci parla quindi della Romanità non già in senso storico e scientifico, bensì in senso strettamente spirituale e meta-storico, giacché «Roma non nasce, ma si manifesta alla Storia». Sono dunque presi in esame quei princìpi, quei valori – in una parola – quella Weltanschauung (Visione o Idea del mondo) che ha caratterizzato la civiltà romana, la quale seppe poi trasmetterla ai popoli soggetti (poi romanizzati e poi romani) e tramandarla – da qui “Tradizione” – ai posteri. Dice Casalino, infatti, che «il mistero di Roma è il mistero della nostra tradizione», e NOI ne siamo gli eredi «perché l’erede è spirituale, poi può esserlo patrimonialmente, ma prima di tutto deve ereditare moralmente: haeres nel diritto romano è colui che eredita lo ius gentis e lo ius imaginis, quindi il patrimonio cioè la tradizione del padre». Qui l’autore pone l’accento sull’etimologia del termine patrimonium, che viene da pater (padre) e -monium che accenna ad agente, ad azione: prima di essere un’eredità materiale, essa è dunque spirituale, poiché è richiesta l’azione da parte dell’erede; come diceva Goethe «ciò che hai ereditato dai padri conquistalo per possederlo».

Viene poi tracciata la differenza tra la Grecia e Roma. La Grecità è dunque «la scienza della contemplazione, è l’epistéme filosofico; quello greco è il discorso del “DATO COME VOLUTO” […] Il greco, trovandosi davanti l’universo, il cosmos, lo considera VOLUTO, cioè lo accetta poiché esso è divino». Dunque l’uomo greco contempla la perfezione della natura, ne carpisce la bellezza, e si armonizza ad essa; la filosofia ellenica appare dunque come la ricerca della comprensione di questo cosmos meraviglioso che gli dèi hanno creato, e l’arte scultorea ed architettonica greca ne riprodurrebbe l’armonia. In definitiva, la Grecità è l’Ascesi della Contemplazione.


La Romanità, al contrario, segue il discorso del VOLUTO COME DATO; secondo la formula di Carandini «Roma è l’atto costitutivo dell’Occidente». Quindi Roma, se “costituisce”, crea ex nihilo, è l’Ascesi dell’Azione. E l’áskesis, che è esercizio e salita, è sacrificio e abnegazione, «l’ascesi è eroica […] Il romano pertanto non vede un cosmos già ordinato, bello, che lui accetta. Il romano crea l’ordine dal nulla con “l’atto costitutivo”, pensa la natura in termini giuridici; nella sua cultura la legge è la natura ordinata in cosmos che è la res publica. […] Come il romano realizza l’ordine? Mediante l’azione che è sacra perché guarda verso l’Alto, verso il Sacro. E qual è l’azione sacra per eccellenza? Il Rito!». Quindi per Roma il cosmos è non già la natura, bensì lo Stato, la Res Publica, al di fuori del cosmos-res publica è il caos dei barbari; ma – secondo la celeberrima equazione ciceroniana – Res Publica è Res Populi, è il popolo ordinato secondo la legge, che è sacra, quindi il popolo è sacro (non a caso, i Tribuni della Plebe sono rivestiti della sacrosanctitas, ossia sono intoccabili in quanto sacri).

«Allora come con l’azione, con il rito si realizza l’Ordine? Prima del rito e prima di realizzare l’ordine cosa c’è? C’è la guerra, la via eroico-guerriera, la triade Iuppiter, Mars, Quirinus», ossia dalla città in pace (Quirino), attraverso la guerra (Marte), si giunge alla pace basata sulla giustizia (Giove), la costituzione della sacra res publica, l’Idea, il pactum, cioè la legge.

È con la legge, infatti, che Roma ha unificato il mondo: Roma è una civitas augescens, ossia una civiltà che si accresce, che accoglie gli altri popoli nel suo ordinamento civile basato sulla giustizia, e accomuna i loro destini al proprio, realizzandone la sintesi: è «la polarità tra l’Unità e la Molteplicità, che è il mistero risolto della Grecità e della Romanità». Per questo motivo l’ecumene romana e romanizzata è vissuta, nel suo essere storico, un millennio: poiché non ha violentato le altre genti, ma le ha accolte, ne ha fatto un solo popolo che è sacro e retto dalla giustizia della legge: «Roma cosa ha fatto? Ha realizzato la sintesi dell’inconciliabile […] cioè la sovranità del popolo con il sacro, il diritto con il sacro, lo ius imperii con la fede nella libertas, valore aristocratico indoeuropeo».

Ora ci sarà più facile capire come e perché Aurelio Simmaco, senatore della migliore nobiltà romana, rètore, filosofo e giurista, nel IV secolo d.C., poteva chiamare il poeta gallo Ausonio «maestro di latinitas e di romanitas»; e come e perché il generale e patrizio di origini vandale Stilicone poteva dire «fatevi da parte! Perché il nostro impero, anzi il mio impero, la mia civiltà, il mio mondo lo difendo io!».

E allora non ci stupiremo più se, negli anni bui dell’autunno dell’impero, il poeta gallo-romano Rutilio Namaziano scrive nel suo saluto a Roma, come a voler lasciare un imperituro messaggio di una civiltà che tramonta, Urbem fecisti quod prius orbis erat: «Hai reso città ciò che prima si chiamava mondo».

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mercoledì 19 novembre 2008

Guardarsi indietro per andare avanti

Sembrava che al di sopra delle divisioni un vasto raggruppamento nazionale e sociale cominciasse a determinarsi e le anime semplici ne deducevano grandi speranze

Quando il 6 Febbraio 1934 a Parigi marciano uniti estrema destra ed estrema sinistra, il poeta e saggista francese Robert Brasillach intravede l’inizio di una rivoluzione nazionale contro il Parlamento corrotto e il vecchiume partitico. Le sue speranze cadono sotto i colpi della polizia francese, che uccide 22 manifestanti.
Da quel giorno Brasillach consacra il suo cuore e la sua penna al servizio di ciò che crede l’unica soluzione per l’avvenire della Patria: il Fascismo.
Egli ravvisa nell’esperienza italiana la sintesi necessaria tra nazionalismo e socialismo, antidoto ad ogni conflitto interno. Da qui nasce il mito del “Fascismo immenso e Rosso” carico di antiborghesismo, Volontà, irriverenza ed ostile ad ogni pregiudizio di classe.
Ma ciò che più lo affascina, e che vorrebbe anche per la sua Francia, è il mito della Giovinezza, traboccante di entusiamo e di gioia: «il giovane fascista che canta, marcia, lavora e sogna è innanzitutto un essere allegro».


Purtroppo gli avvenimenti tradiscono le sue speranze: la Francia entra nel secondo conflitto mondiale e Brasillach si fa addirittura arrestare per “pacifismo”, essendo contrario all’intervento e imputando le responsabilità della guerra soprattutto alla Gran Bretagna. Per amor di Patria parte comunque al fronte per tornare durante il regime “collaborazionista” di Vichy. Qui scrive molti articoli a favore di un’intesa franco-tedesca. Sono pagine che hanno fatto «più male alla resistenza francese di un intero battaglione della Wehrmacht» a detta del tribunale speciale creato nel 1945 dai “liberatori” anglo-americani e da De Gaulle. Ed è con questa incredibile accusa che il Poeta viene condannato a morte. Al pronunciare della sentenza uno spettatore tuona «È una vergogna!». «No, è un onore!» afferma Brasillach.

A poche ore dalla fine il suo pensiero va a quel giorno che, 11 anni prima, infiammò il suo spirito e unì tutte le coscienze rivoluzionarie del paese:

Ai morti di Febbraio

Le ultime fucilate continuano a lampeggiare

Nel giorno indistinto là dove sono caduti i nostri

Con undici anni di ritardo sarò, dunque, fra voi?

Penso a voi, stasera, o morti di Febbraio!

«Si dice che la morte, come il sole, non possa guardarsi in faccia. Tuttavia ho tentato. Non ho in me nulla di stoico, ed è duro sottrarsi a ciò che si ama. Ma io ho tentato pure di non lasciare, a quelli che mi vedono o pensano a me, una immagine indegna.
Ho pregato molto e so bene che è stata la preghiera a portarmi un sonno calmo. Il mattino il prete è venuto con la comunione. Pensavo con dolcezza a tutti quelli che amavo e a tutti quelli che avevo conosciuto nella mia vita, e pensavo con dolore al loro dolore. Ma mi sono sforzato il più possibile di accettare».


Il 6 Febbraio, data simbolo con la quale il Potere vuole enfatizzare la propria vittoria, Robert Brasillach è condotto alla fucilazione.
Con un grande poeta scompaiono i sogni di Libertà dell’Europa intera.

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martedì 18 novembre 2008

Pericle e il conflitto delle interpretazioni

Figura controversa fin dall’antichità, Pericle è stato uno dei pochi uomini che hanno ricevuto dai posteri la possibilità di assegnare il proprio nome ad un preciso momento della storia; non è un caso, infatti, che nei secoli successivi, lo statista greco avrebbe incarnato la grandezza di Atene all’apogeo della sua espansione.

Per comprendere il come e il perché gli siano stati attribuiti un ruolo ed un’importanza così fuori dall’ordinario, si è aperto un aspro dibattito fra gli studiosi sul rapporto fra Pericle e il regime democratico ateniese del V secolo.




Lasciando da parte gli antichi, Tucidide in primo luogo, seguito dalla Costituzione degli Ateniesi attribuita ad Aristotele e dalla Vita di Pericle di Plutarco, è noto che l’interesse dei moderni per le imprese degli uomini illustri dell’antichità inizia a partire dall’età rinascimentale, grazie soprattutto alla riscoperta in occidente delle biografie del già citato Plutarco. La figura di Pericle, nonostante l’importanza riconosciutagli in seguito, rispetto ad altri personaggi quali Aristide, Solone o Temistocle, restò tuttavia a lungo in secondo piano. Questo perché egli appariva come l’incarnazione della democrazia, vale a dire di una forma di governo da molto tempo condannata all’oblio. L’interesse verso la democrazia ed il relativo sviluppo storico cominciò a manifestarsi nel XVIII secolo in relazione più o meno diretta con la critica dei regimi assolutistici portata avanti dalla filosofia dei "lumi".

Alla vigilia della rivoluzione francese un’opera soprattutto merita particolare attenzione, Le voyage du jeune Anacharsis dell’abate Barthélemy , vero e proprio monumento di erudizione in cui nella seconda parte dell’introduzione storica viene dedicata un’intera sezione alla figura di Pericle, intitolata appunto “Il secolo di Pericle”, dove l’abate traccia un ampio ritratto del personaggio, largamente desunto da Plutarco, al momento della sua entrata nella scena politica e più avanti mettendo in evidenza le sue doti nella ricerca del consenso del démos: “Grazie al suo ascendente, Pericle dispose del tesoro pubblico degli Ateniesi e di quello dei suoi alleati, riempì Atene di capolavori d’arte, assegnò pensioni ai cittadini poveri, attribuì loro una parte delle terre conquistate[…] Il popolo, non vedendo altro che la mano che elargiva, chiudeva gli occhi sulla fonte cui essa attingeva. Si univa sempre di più a Pericle, il quale , per legarlo più fortemente a sé, lo rese complice delle sue ingiustizie e si servì di esso per assestare quei colpi eccezionali che aumentano il credito rendendolo manifesto”.

Giudizi simili a questo vengono formulati senza una certa originalità anche nel secolo XIX, non mancando tuttavia di sottolineare come la democrazia vigente nell’Atene classica fosse riservata comunque ad una minoranza dell’Attica. Negli anni che seguono immediatamente la seconda guerra mondiale è sempre l’immagine di un Pericle come un politico intelligente a dominare la produzione storiografica dell’Europa occidentale.

Gaetano de Sanctis (1944) traccia l’immagine di un Pericle dotato di intelligenza, umanità e cultura, da discepolo del filosofo Anassagora pone la sua ricca personalità al servizio della propria patria e costruisce una democrazia ideale, che si riflette nell’orazione funebre. Anche de Sanctis, comunque, non rinuncia a sottolineare le ristrettezze della democrazia ateniese e della politica imperialista, e l’incapacità di unificare la Grecia intorno ad un comune principio democratico. Non sarebbe difficile moltiplicare citazioni di ispirazione analoga, che mettano in risalto al tempo stesso il patriottismo, l’integrità e tutte le altre virtù periclèe grazie alle quali seppe realizzare un’adeguata politica sociale volta ad assicurare il benessere dei cittadini.

Recentemente lo studioso americano Josiah Ober nel suo Political Dissent in Democratic Athens: Intellectual Critics of Popular Rule (2001) ha ribadito come Pericle sia stato una figura dominante della storia di Atene grazie al modo in cui seppe usare la carica di stratego, ma soprattutto grazie alle abilità oratorie e all’acuta percezione delle aspettative ateniesi. Per lo studioso americano, Pericle seppe valorizzare lo spirito dei cittadini Ateniesi in virtù del principio democratico per sbarazzarsi dell’opposizione della compagine aristocratica.

In conclusione, Pericle, al pari di altri uomini illustri nell’antichità, seppe sfruttare la nascente democrazia ateniese per affermarsi come principale guida della politica ateniese al momento della sua massima espansione.

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lunedì 17 novembre 2008

Riflessione sulla Scuola...

"[...] arrivò il '68 e da allora vige e impera la demagogia scolastica. Della quale sono finalmente venuti i nodi al pettine .

I fattori distorsivi specifici sono 3: primo il sessantottismo, esiziale perché ha predicato l'ignoranza del passato, recidendo quella trasmissione del sapere che dovrebbe essere la prima missione dell'educatore; cavalcando la tigre dell'antielitismo, ha distrutto il principio del merito producendo la società del demerito che premia i peggiori e gli incapaci a danno dei migliori.

Secondo fattore il progressivismo pedagogico (largamente di ispirazione psicoanalitica) [...] che, sull'impulso del celebre dottor Benjamin Spock, ha convertito al permissivismo tutte le madri dell'occidente con la dottrina che il bambino non doveva essere frustrato da punizioni. Prima la scuola si reggeva sull'alleanza maestri-genitori. Ora i maestri che resistono all'andazzo sono lasciati soli e vilipesi come repressivi.


C'è infine un fattore che sfugge ai più: la teoria della società post-industriale come società dei servizi fondata su alti livelli di istruzione; ma il post-industriale non doveva e non poteva sostituire l'industriale, nocciolo duro della produzione della ricchezza. La società dei servizi si trasforma in una società parassitaria di piena occupazione fasulla. Proprio l'idea di siffata società, in cui nessuno si sporca le mani, alimenta l'insensata corsa al titolo universitario.
Ma è proprio necessario che tutti vadano all'università? C'è chi proprio non è tagliato per gli studi superiori, che si sono abbassati per accoglierlo.
Più si moltiplicano gli attestati che creano alte aspettative, e più creiamo legioni di scontenti senza lavoro, o costretti a un lavoro che considerano indegno del loro rango."

(G. Sartori, "Corriere della Sera")

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venerdì 14 novembre 2008

Fuori dagli schemi


6 Febbraio 1934. A Parigi scendono in piazza miltanti di estrema sinistra ed estrema destra uniti contro il Parlamento. Marciano insieme membri dei Camelots du Roi, dell’Action Française, studenti, operai, comunisti ed ex combattenti. Il governo risponde uccidendone 22. Il poeta Robert Brasillach conia il mito del Fascismo immenso e Rosso”.



Nicola Bombacci. Tra i fondatori del Partito Comunista Italiano nel 1921, aderirà alla Repubblica Sociale Italiana 22 anni dopo. Riconobbe il valore rivoluzionario dell’azione di Mussolini, accanto al quale verrà ucciso.



1931. Il Mahatma Gandhi visita il quartiere romano Garbatella, esprimendo apprezzamenti per il lavoro del Duce e dell’ONMI (Opera Nazionale Maternità e Infanzia).


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Fuori dagli schemi?



Finanziamenti elettorali di Barak Obama:

- Goldman Sachs: $ 874.000

- JPMorgan Chase: $ 581.000

- Citigroup: $ 581.000

- Morgan Stanley : $ 425.000

-Unione Banche Svizzere: $ 454.000

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lunedì 10 novembre 2008

Parallelismi: Augusto e Mussolini

Numerosi autori antichi hanno parlato di Historia magistra vitae (“la Storia è maestra di vita”) – formula coniata da Cicerone –, e molti intellettuali posteriori ribadirono e riproposero il concetto. La Storia, intesa in senso gnoseologico (ossia la conoscenza che noi abbiamo dei fatti storici), sarebbe un ottimo “strumento” grazie al quale ci è possibile riconoscere eventi simili tra loro, e che ci permetterebbe quindi di comportarci di conseguenza. Lo stesso Machiavelli (1469 – 1527, in foto) basò su questo concetto il suo celeberrimo trattato Il Principe: colui che conosce la storia e quali furono gli esempi di virtù o d’errore che occorsero di fronte ad analoghe condizioni, egli saprà indirizzare gli eventi a suo favore e sarà il “vero” e ottimo Principe, ossia il reggitore dello Stato. Tuttavia Guicciardini (1483 – 1540) si mostrò scettico nei confronti di questa teoria, obiettando che gli avvenimenti storici non si ripetono mai nella stessa maniera, e che il buon statista deve essere in grado di interpretarli correttamente, escogitando volta a volta le soluzioni migliori.

Ma – per tornare a noi – è proprio vero che la storia è magistra vitae? Forse sì, ma esiste certamente anche l’altra faccia della medaglia: Vita magistra historiae (“la vita è maestra della Storia”), ossia ogni epoca ha riletto, interpretandole in maniere sempre diverse, alcune singole esperienze storiche, lasciandovi qualcosa di se stessa. Così è stato ad es. per Sparta, giacché i comunisti videro nella costituzione di Licurgo un fulgido esempio di uguaglianza tra i cittadini, mentre i nazionalsocialisti la esaltarono quale Stato “razziale” per eccellenza.

Anche la figura di Ottaviano Augusto, una delle più affascinanti che la Storia abbia conosciuto, subì lo stesso processo. Un caso interessante fu quello dell’identificazione, in epoca fascista, di Augusto con Mussolini. Nel 1937 cadeva infatti il bimillenario della nascita dell’imperatore, e fu allestita – non a caso – la Mostra Augustea della Romanità. Tale mostra, che ebbe sede nel Palazzo delle Esposizioni a Roma (in foto) sotto la direzione del grande archeologo G. Q. Giglioli, raccoglieva un’imponente mole di riproduzioni di materiali inerenti alla storia di Roma antica, volendone essere una grandiosa celebrazione. Una sala dell’esposizione, l’ultima, era dedicata – per l’appunto – ad Augusto e Mussolini.

Ma perché il Duce del Fascismo era accostato ad Augusto? I motivi sono molteplici.

Augusto (63 a.C. – 14 d.C., in foto), al contrario di quanto alcuni ancora credono, non fu il vero erede politico del padre adottivo Caio Giulio Cesare (100 – 44 a.C.). Cesare aveva in mente Roma come una monarchia universale, ossia uno Stato in continua espansione territoriale e governato da un monarca assoluto. Questa concezione era invero stata raccolta da Marco Antonio, suo fedele luogotenente e – non a caso – futuro nemico di Ottaviano (poi Augusto). L’ideale di quest’ultimo fu infatti quello che poi strutturò in quasi un cinquantennio di governo, ossia il Principato, retto da un capo carismatico (princeps) e non necessariamente espansionista, più vicino al modello statuale di Pompeo.
Augusto fu quindi visto nei secoli come il virtuoso “architetto” e ordinatore dello Stato, contrapposto al Cesare conquistatore e al suo mito (Cesarismo) che ebbe anch’esso molta fortuna, ad es. presso colui che meglio lo personificò: Napoleone Bonaparte (1769 – 1821).

Tuttavia sia Augusto che Mussolini possono essere letti e accostati secondo due ruoli che rivestirono entrambi: il rivoluzionario e lo statista.

Ultimamente è tornata molto di moda l’espressione “la prima marcia su Roma” – formula coniata da Ronald Syme nella sua splendida The Roman Revolution (1939) –, ossia quella che iniziò il futuro Augusto nell’agosto del 43 a.C. attraversando il Rubicone (come già fece suo padre Cesare). Si era appena conclusa la cosiddetta “guerra di Modena” tra Ottaviano, investito del potere dal senato, e Antonio; durante i combattimenti perirono – in maniera più che sospetta – i due consoli Irzio e Pansa: Roma ora non aveva più i sommi magistrati che reggevano la repubblica. Questo vuoto di potere – casuale o abilmente macchinato – offrì a Ottaviano la tanto agognata “occasione” (kairòs in greco): richiese al senato il consolato per sé e ricompense ai suoi soldati; al netto rifiuto non esitò a marciare sull’Urbe. Il giovanissimo Ottaviano (aveva solo diciannove anni!) era precoce, e mostrò tutta la sua abilità politica prima di entrare al senato: quest’ultimo gli aveva mandato a dire che era possibile indire regolari elezioni a cui gli era lecito partecipare (concessione già di per sé inaudita, giacché l’età minima per rivestire il consolato era di 43 anni). Ma a rifiuto Ottaviano oppose rifiuto, inviò un manipolo di uomini armati, capeggiati dal centurione Cornelio il quale, entrando nella curia e gettando indietro il mantello mostrando l’elsa della spada quasi del tutto sguainata, tuonò: «Questa lo farà console se non lo farete voi!». Allora Cicerone, prototipo del vecchio statista, si abbandonò a imbarazzanti blandizie nei confronti di Ottaviano, con il recondito, benché vano, intento di poter meglio controllare il «ragazzo» (così lo chiamava nelle sue lettere). Questo ricordò a Syme il vecchio Giolitti che, dapprima umiliandosi, tentò invano di “pilotare”, previa marcia su Roma, il giovane (aveva appena trentanove anni) e arrembante Mussolini.

Ma il paragone tra Augusto e Mussolini per la Mostra Augustea della Romanità riguardava certamente le figure di Augusto e di Mussolini in quanto statisti.
Se durante la campagna etiopica, infatti, il Duce fu accostato, come si addiceva al fondatore del sorgente impero, a Cesare, negli anni successivi la propaganda del regime fascista pose l’accento sul Mussolini ordinatore dello Stato. La contrapposizione Cesare-Augusto aveva ispirato anni prima l’opera di Guglielmo Ferrero (1871 – 1942) Grandezza e decadenza di Roma (1906-7 in 5 volumi) che lodava il lavoro oscuro e paziente di Augusto (in antitesi con quello più appariscente e risonante di Cesare) identificandolo con Giolitti: paragone che certamente nobilitava oltremodo il vecchio statista italiano.

Al contrario la personalità politica di Benito Mussolini (1883 – 1945), grazie alla sua imponente e lungimirante opera di strutturazione del regime fascista, meglio si attagliava a quell’Augusto che, da vero “architetto”, aveva dato forma al Principato con riforme che investirono quasi tutti gli aspetti dell’apparato statale romano. Altro tratto in comune tra i due “duci” fu il carattere restauratore delle due rivoluzioni a cui diedero vita: Augusto, nel fondare il nuovo Stato, si propose di restaurare – per l’appunto – la tanto amata Res Publica, attraverso un oculato compromesso formale (come scrisse Tacito, i nomi erano gli stessi ma altri erano i concetti che essi esprimevano); anche Mussolini aveva donato alla rivoluzione fascista una connotazione non già sovversiva, bensì restauratrice. Ora che tale rivoluzione si stava esaurendo, e il Fascismo si andava affermando quindi come Regime, fu logica – e tutt’altro che peregrina – l’identificazione di Mussolini con Augusto.

Un ulteriore carattere lega, infine, i due statisti: l’auctoritas, la quale era la base del loro potere e che traeva la propria forza e legittimazione dal consenso pressoché unanime del popolo di cui essi godevano.

Tuttavia gli eventi che conclusero le loro esistenze non possono che differire in maniera più netta. Augusto morì alla veneranda età di quasi settantasei anni, con l’intima soddisfazione di aver edificato le fondamenta della Roma imperiale col plauso dei contemporanei e dei posteri; al contrario Mussolini soffrì il patibolo, al quale si avviò con l’animo sconsolato di chi è stato tradito da un popolo che tanto aveva amato, che, ingrato, avrebbe bestemmiato il suo nome nei decenni a venire.


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