martedì 31 marzo 2009

Rivoluzione Francese e Democrazia giacobina



«Il mondo moderno viene partorito nel fiume di sangue del Terrore rivoluzionario»


di Francesco Polacchi


Da due secoli gli storici si interrogano sulle dinamiche e sulle conseguenze che i fatti determinanti lo scoppio e il prosieguo della Rivoluzione Francese hanno portato nella società contemporanea. Questo è un periodo in cui le persone, e per primi proprio gli storici, nutrono un profondo bisogno di categorizzare gli eventi, schematizzarli in modo arbitrario per renderli convenzionali al proprio fine. Alessandro Manzoni, in tempi non sospetti, scrisse di Napoleone Bonaparte: «Ei fu». Ebbene io dico: «La Rivoluzione Francese fu». È un fatto. Non ho voglia di tifare. Essa, al tempo, fu accolta come uno scandalo. Oggi bisogna riconoscere che è stato un vero evento-spartiacque. Cioè è stato un qualcosa che ha creato un prima e un dopo. Qualcosa che, a torto o a ragione, non può essere dimenticato. Essa è stata presa a modello, è stata considerata la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra.

È considerato l’evento che conclude la Storia Moderna e che apre la Storia Contemporanea. 1789 signore e signori. 14 luglio 1789. La cosa curiosa è che questa storia contemporanea non è ancora terminata, come se due secoli fa ci fossero state le stesse condizioni di vita, lo stesso modo di rapportarsi, di comunicare o le stesse barriere da infrangere. Come se l’uomo non fosse andato nello spazio (sulla Luna!?!!?!), come se non ci fosse stata la Grande guerra europea (detta anche I guerra mondiale) o la Guerra mondiale (detta anche II), come se Hiroshima e Nagasaki non rappresentino un altro punto di arrivo-inizio per un nuovo ciclo storico.
Tra i maggiori promotori di questa visione della storia c’è lo storico marxista Hobsbawm (in foto) che partorisce l’idea di un “Lungo ‘800”, nascente dalla Rivoluzione Francese che terminerebbe nel 1917 con la Rivoluzione Russa, dalla quale partirebbe il “secolo breve”, che si concluderebbe a sua volta con la caduta del muro di Berlino nel 1989. Egli parte, come Marx, dalle considerazioni sulla lotta di classe che sarebbe avvenuta tra la nascente borghesia e la sclerotica classe dominante composta dai due “stati” della nobiltà e del clero. Una borghesia alfiere della democrazia e delle idee di liberté, egualité, fraternité. Una borghesia avanguardia di una rivoluzione popolare.

I fatti storici, se letti attentamente, ci mostrano immediatamente una contraddizione in termini.
Attenzione:
1) la popolazione francese negli anni ’80 del ‘700 aveva raggiunto quota 28 milioni di abitanti;
2) il ‘700 era stato un secolo pieno di crisi agricole e il fabbisogno alimentare non sempre era soddisfatto;
3) l’85% della popolazione viveva nelle campagne occupandosi principalmente del settore agricolo e/o dell’allevamento;
4) circa il 2% della popolazione era di rango elevato, cioè clero o nobiltà.
Calcolando che la percentuale restante non per forza deve essere considerata appartenente alla borghesia, se non in senso lato, e che comunque non tutti i suoi componenti presero parte alla rivoluzione, ma anzi qualcuno addirittura l’avversò, le considerazioni sono tre: o non è stata una rivoluzione borghese, o quest’ultima deve essere circoscritta a uno scontro tra minoranze, oppure ci sono state più rivoluzioni all’interno della stessa.

Allora la prima domanda è: che cos’era la borghesia in Francia in quegli anni?
Letteralmente era la classe che anticamente viveva nel borgo, fuori dalle mura cittadine. Era legata principalmente al commercio e all’artigianato ma anche alle scienze e alla medicina. Alcuni membri di questa classe, cioè coloro che comprando grandi quantità di prodotti e rivendendoli al dettaglio guadagnavano un surplus che li portava ad arricchirsi, furono tra i primi accumulatori di capitale. Ciò ha reso questa classe molto mobile e attiva, il che ha portato molti di loro nel tempo a rientrare in città come famiglie ricche, mentre adesso, all’epoca della rivoluzione, tendevano a riuscire dai centri abitati per comprare tenute agricole. Tenute agricole che in gran parte appartenevano alla mano morta del clero e della nobiltà (circa il 60%) e che per il restante 40% era quasi tutto ad usufrutto delle comunità di villaggio. Non esistevano ancora le enclosures britanniche. Cioè non esistevano le recinzioni in quanto non esisteva ancora quella visione della vita legata esclusivamente al profitto.
All’interno delle città, dove altri borghesi si affacciavano, esisteva ancora il millenario sistema corporativo che da sempre aveva creato una solidarietà tra coloro che professavano lo stesso mestiere impedendo la competitività a favore di una regolarità del commercio. Cioè il commercio come interesse di tutti e non per il profitto del singolo.
Questa la borghesia.

Il popolo rurale in genere non è mai stato al centro delle ribalte ideali. Nel XVIII secolo, come detto, la popolazione era aumentata del 40%. Le razioni di cibo no. C’erano state carestie, epidemie e siccità che avevano reso insofferenti gli abitanti. Molti di essi non sapevano neanche cosa fosse Parigi, figuriamoci se avessero saputo leggere. L’analfabetismo era diffusissimo. E poi amavano il loro Re. Il Re era pur sempre il Re. Era il detentore del potere divino. Ma adesso avevano fame e al diavolo tutto quanto, dovevano sfamare la loro famiglia.
È da questo punto di osservazione che lo storico francese Michelet definì questa la “rivoluzione della miseria”.
La realtà è, però, più complessa. Per tutto il secolo c’era stata una propensione di una minoranza di uomini nell’indagare su alcuni aspetti della cultura, approfondendo la visione razionalista derivata dai filosofi del secolo precedente e resa più radicale dal senso d’ingiustizia che essi provavano nei confronti dei torti subiti dagli intellettuali del tempo, da parte degli organi di censura che rispondevano in modo particolare ai culti confessionali. Temi fondanti divennero quindi il rapporto tra Stato e religione, le condizioni sociali, la gestione del potere e i rapporti di mercato. In sintesi estrema questo era l’Illuminismo. L’Età dei Lumi. La Ragione innalzata al livello di un dio e la ricerca di una presa di coscienza degli individui che andasse oltre il mero bisogno di sopravvivenza, e che si liberasse dal dogmatismo religioso. Fondamentalmente laici essi credevano nella formazione di Stati che fossero guidati da re coadiuvati da filosofi.

In conclusione c’era il re. Lui e i suoi accoliti. Erede di un potere forte e consolidato come quello che gli avevano trasmesso i suoi avi fin da Luigi XIV, Luigi XVI era invece un inetto più propenso al gioco della pallacorda nella reggia di Versailles che non alla guida del paese. La nobiltà era invece divisa. La maggior parte era gelosa dei propri privilegi, mentre altri si fecero attenti alle questioni promosse dal “terzo stato”. Numerosi erano stati coloro che avevano sposato le tesi illuministe. Quando furono riconvocati per la prima volta gli “Stati generali” (dal 1614) nel maggio dell’89 essi si schierarono a difesa delle rimostranze di quest’ultimi. E quando il 9 luglio il terzo stato si rinchiuse nella Sala della Pallacorda molti nobili e qualche prelato si unirono a loro.
Fu questo l’inizio.

Luigi XVI fece circondare Parigi dalle guardie regie e il popolo scoppiò in una rivolta dagli esiti ben noti. Il 14 luglio una folla in preda al caos assaltò la Bastiglia, oggi luogo-simbolo della rivoluzione, che non era praticamente protetta da nessuno. Di qui nascono le varie rivoluzioni all’interno della stessa rivoluzione. Ci fu quella “istituzionale”, in quanto fu immediatamente proclamata la commune (governo municipale). Ci fu quella “cittadina”, ossia quella dei parigini che misero a ferro e fuoco la città e combatterono contro le guardie regie e ci fu, infine, quella “nazionale” (sopra detta “della miseria”) da parte di una gran parte dei Francesi che assaltarono castelli e conventi in tutta la Francia ritenuti simbolo dell’oppressione.
Punto di svolta.
Luigi XVI si vide costretto a riconoscere la “Comune” accettandone la coccarda tricolore, ritirando le truppe e permettendo la formazione della “guardia nazionale”. Poco dopo l’Assemblea Nazionale dichiarerà finiti i privilegi e gli oneri feudali, e vennero soppressi i titoli nobiliari e i corpi privilegiati. Si parla di feudalesimo in questo passaggio. Con gli occhi di oggi è facile recepire che fu un passo simbolico e non di natura pratica, in quanto – come afferma Cobban – non si può più parlare propriamente di “feudalità” poiché già all’epoca di Luigi XIV vi era stato un forte accentramento del potere che ne aveva reso ridicolo l’utilizzo del termine.

Ma è sicuramente il 26 agosto del 1789 il momento clou della rivoluzione. L’Assemblea proclama infatti la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Essa individuò nella separazione dei poteri la condicio sine qua non di uno Stato costituzionale. Sottolineò che tutti gli uomini godono di eguali diritti e dell’uguaglianza davanti alla legge. I primi articoli parlano invece della libertà personale, sacra e inalienabile, limitata soltanto dalla legge in quanto “espressione della volontà generale”. Si afferma la libertà d’opinione, di parola e di stampa e la già riconosciuta libertà religiosa. Ma soprattutto viene riconosciuta la proprietà privatasacra e inviolabile”.

Con questo atto risulta netta la forbice che si sta aprendo tra le varie rivoluzioni. Essa continuerà ad allargarsi fin quando divenne palese con la Costituzione del 1791. Infatti alla società degli ordini ne subentrò una che faceva ricorso sistematicamente alle elezioni, ma che si fondò sulla differenza di classe socio-economica. Gli elettori furono divisi in attivi e passivi a seconda del censo. Solo gli attivi, che erano circa il 60% del totale, potevano votare 50.000 elettori al secondo grado di elezione. Questi ultimi poi dovevano votare un’Assemblea Legislativa alla quale comunque accedevano solo notabili e ricchi possidenti, in quanto per essere eletti bisognava pagare una tassa cospicua. Ecco qui. Il gioco era fatto. La parte della borghesia più riottosa aveva ottenuto ciò che voleva. Essa si arrogava determinati diritti per sé ma non per tutti, e il potere, che prima era in mano del re più “altri pochi”, adesso era gestito direttamente da una piccola parte di una classe divenuta ormai potente.

Dal punto di vista economico prevalse l’idea liberista (il laissez-faire) e furono abolite tutte le corporazioni al punto di impedire associazioni di imprenditori, lavoratori e gli scioperi: democrazia? Il mercato aveva vinto. È un passaggio molto più complesso di come viene considerato: si passa dal concetto di comunità a quello di società, ossia può nascere un’unione d’intenti tra più persone solo in virtù di un interesse.
Sulla scia delle idee illuministe il re non fu destituito del tutto. Si propendeva per un dispotismo illuminato alla Voltaire. Non c’era ancora l’idea di governare in modo autonomo. Perfino quando il re scappò alla volta del Belgio, egli fu perdonato e ricondotto a Parigi venendo dichiarato rapito.

Nel frattempo i neonati partiti o clubs si organizzavano su tutto il territorio nazionale, le città si federavano e la Guardia Nazionale cominciava ad avere sempre più seguito. Nell’aprile del 1792 arrivò la guerra. La Francia dichiarò guerra. E la dichiarò all’Austria che fu difesa da Prussia e Piemonte.
All’inizio si temette una capitolazione a causa delle gravi sconfitte e del probabile tradimento di alcune truppe regie, ma poi, quando fu chiamato l’allarme per la “Patria in pericolo”, arrivarono da tutta la nazione le forze popolari sotto l’insegna della Guardia Nazionale. Esse, incolte e senza eccessiva consapevolezza a riguardo dello svolgersi degli avvenimenti, seppero rispondere agli eserciti stranieri con grande coraggio e valore. Guidati da Danton (in foto), il 20 settembre del 1792 i Francesi bloccarono le truppe reazionarie a Valmy impedendo la fine della rivoluzione. In questa piccola cittadina si creò un sodalizio. La massa informe ora combatteva per una nazione. Cosa dobbiamo guardare in questi uomini dalla poca cultura se non lo spirito dal quale erano mossi? La massa si stava trasformando in popolo. Non questione di classe, non i “proletari sanculotti”, ma i figli di una stessa nazione.

Il giorno successivo nacque la Convenzione che proclamò la Repubblica una e indivisibile.
Il re è nudo.
Al parlamento la lotta è aspra tra la Gironda e la Montagna. I primi “decentratori”, conservatori e moderati, a tal punto da voler limitare le forze popolari, non riuscirono a mettere in stato di accusa i principali promotori della Montagna, i Giacobini, guidati ormai da Maximilien Robespierre (in foto), che volevano la ridistribuzione di terre tra i contadini e che spingevano per far giustiziare il re. Nel frattempo la guerra continuava, e dopo varie battaglie che non decretarono un vincitore, il generale Demourriez si arrese agli Austriaci.
Conseguenze drammatiche furono quelle in Vandea, dove gli abitanti si ribellarono alla leva obbligatoria stabilita dalla Convenzione e si costituirono in un esercito che fu duramente represso dalle forze democratiche. Non era una loro guerra. Il loro tradizionale modo di vivere era stato stravolto. Si opponevano a rendere servizio alla rivoluzione che aveva imposto la divisione della regione, la divisione dei campi e l’abolizione dei diritti di pascolo nelle terre comuni, aveva inasprito le tasse e – più in generale – aveva distrutto la loro autonomia di amministrazione. Furono uccise circa 300.000 persone: a questo epilogo, gli abitanti che si rifiutavano di essere chiamati “cittadini” si diedero alla guerriglia, che fu chiusa nel sangue l’anno successivo con l’invio di un forte contingente agli ordini di Tourrez.

Di qui ebbe vita il Terrore giacobino e il successivo Terrore bianco, con l’approdo prima al Direttorio e poi alla salita al potere del generale Napoleone Bonaparte.
Con ciò non voglio chiudere la storia della rivoluzione… sarebbe interessantissimo parlarne ancora. Ma questo ciclo di articoli verte su un concetto specifico: la democrazia.

Dunque se democrazia significa effettivamente governo del popolo, per quanto riguarda i fatti storici, così non fu. Ci fu invece una minoranza organizzata, che si riuniva in clubs o in logge massoniche, che riuscì a “cavalcare” una sollevazione popolare che nella storia non ha avuto pari. Le dinamiche di gestione, di fatto, non cambiarono. I rappresentanti dei cittadini si trovarono a essere molto distanti dalle vere esigenze del popolo. Alcuni, soprattutto quelli appartenenti alla Gironda, avrebbero voluto chiudere la rivoluzione nel 1792 consolidando le conquiste fatte fino a quel momento. Fu in questo arco di tempo che nacque l’incapacità dei rivoluzionari di mantenere salda la situazione. Il Terrore fu una reazione violenta di uomini mal avvezzi al comando e alla gestione del potere stesso, ma che, nel loro essere radicali, volevano che le conquiste – per l’appunto – divenissero per tutti. Fu il potere a logorare quegli uomini.

In conclusione la rivoluzione francese fu una bomba a orologeria. Fu una krisis che – come ha ricordato Adriano Scianca sullo scorso numero di “Occidentale” – significa “pericolo” e “opportunità” al tempo stesso. La crisi l’abbiamo analizzata. L’opportunità vive nell’idea che l’Uomo, l’Individuo europeo aveva varcato di fatto il nuovo Rubicone. Al vetusto potere, conservato nelle mani degli eredi per sangue e non per merito, di regni considerati alla stregua di patrimoni personali, era stato dato un colpo fatale. Mancava però la consapevolezza di tutti. I concetti base di libertà, uguaglianza e fratellanza rimasero superficiali e mai veramente assimilati; ciò è normale proprio perché si parla di grandi numeri e di un nemico da combattere e sconfiggere il prima possibile. È per questo che l’800 rappresenterà un grande magazzino di idee durante il quale nuove avanguardie culturali, semplici filosofi o esponenti politici ricominceranno a indagare sulla natura e sul senso della vita in un’introspezione più profonda e romantica. L’esistenza dell’uomo sarà posta al centro dei dibattiti culturali e il concetto di libertà non verrà lasciato al mero bisogno pratico e quotidiano.

Dalla rivoluzione francese partirà quella guerra tra differenti visioni del mondo e dell’esistenza tra gli uomini. Essa durò circa un secolo e mezzo e si concluse con la capitolazione del Giappone nel 1945. Quella successiva è un’altra storia. Nella rivoluzione francese c’erano infatti le influenze liberali e i germi del socialismo che si divise tra il comunismo e il proto-fascismo e che avrà maturazione nel XX secolo. Questo scontro a tre non fu totalizzante da principio, in quanto, fino alla Grande Guerra, l’umanità si continuò ad affrontare per motivi di ostentazione di potenza e per conquiste economiche su base estensiva. Alla fine della Grande Guerra, però, queste tre differenti visioni del mondo erano ormai mature per uno scontro – appunto – totalizzante.

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venerdì 27 marzo 2009

“Sudditi”. Manifesto contro la Democrazia

«La Democrazia è un modo per metterlo nel culo alla gente, soprattutto alla povera gente, col suo consenso»

(Massimo Fini)


La democrazia è il sistema di autoregolazione del mondo migliore possibile?
È senza dubbio questo il quesito di partenza che Massimo Fini (in foto) ci invita a porre e a porci, come suo costume, in modo provocatorio e dissacrante, certo di scuotere la coscienza dei suoi lettori. Il saggio comincia parlandoci della democrazia universale e dei suoi amici; l’America per prima, naturalmente, ma anche un’Europa ossequiosa e uguale nei suoi sistemi, che siano liberali o social-democratici. Tra i grandi “amici della democrazia” cita il politologo americano Francis Fukuyama, che disse che il mondo e la storia erano finiti col crollo dell’impero sovietico, dato che la democrazia, avendo già distrutto i così detti “fascismi”, avrebbe regnato tranquilla e incontrastata. Non serve portarvi a monito l’odierna realtà per vedere quanto sia inesatta questa previsione; pertanto Fini lascia correre e osserva che, questa di Fukuyama, è l’aspirazione di chi, come Bush, ad esempio, vuol globalizzare la democrazia, facendone “dono” a tutti e a tutti i costi.

Fini poi vira altrove, a sinistra ad esempio, per dimostrare che questa convinzione generale (che la democrazia sia il massimo della vita), è assolutamente trasversale; Gianni Vattimo, autorevolissimo filosofo “catto-sinistrorso”, sulla “Repubblica”, in effetti, così si esprime: «Il male è ciò che è contrario alla democrazia». Poi, in una nota, e non per par condicio, irride il suo omonimo Presidente di Alleanza Nazionale, ex missino e post-fascista, che suggestionato dal clima di adorazione per la democrazia, definì il fascismo «il Male Assoluto». Ma ce ne è anche per la Rivoluzione industriale, che a detta di Nietzsche aveva creato gli “schiavi salariati”; l’Onu, che accoglie solo chi è positivo al test di democrazia; le Nazioni Unite e tutti gli obsoleti organismi che perpetuano e si perpetuano in questo sistema. Fini, successivamente, sposta l’attenzione sui nemici della democrazia. Qui a diverso titolo vivono i vari Hitler e Mussolini, molto meno i bolscevichi, che comunque la parola democrazia la volevano idealmente mettere vicino alla parola “socialista”; tra le pieghe anche Alexis de Tocqueville (in foto), un liberale che criticò fortemente il sistema democratico americano. Ma perché Fini ce l’ha tanto con la democrazia così come oggi viene spacciata e concepita? Facciamo uso delle sue parole: «La democrazia rappresentativa, liberale, borghese – insomma, la ‘democrazia reale’ come la conosciamo e la viviamo, e che è attualmente egemone, non è la democrazia. È una finzione. Una parodia. Un imbroglio. Una frode. Una truffa. Noi la definiamo in modo brutale, e in una prima approssimazione che pecca per difetto (perché, come vedremo, la realtà è persino peggiore): ‘un modo per metterlo nel culo alla gente col suo consenso’».

E la provocazione va oltre quando Fini sceglie l’esempio dei Nuer, un popolo nilotico che vive nelle paludi del Sudan meridionale, per spiegare che si può vivere armonicamente senza che nessuno ci governi: «È impossibile vivere tra i Nuer e immaginare dei governanti che li governino. Il Nuer è un prodotto di un’educazione dura ed egalitaria, profondamente democratico e facilmente portato alla violenza».

L’autore sceglie il sarcasmo per evidenziare che ciò a cui apparentemente anela la “superiore civiltà occidentale”, e che è stato fonte di estenuante dibattito tra illuministi, liberali e marxisti – libertà ed uguaglianza, appunto – viene invece facilmente raggiunto dai Nuer, piccolo popolo che a queste agognate virtù unisce anche il primordiale istinto alla violenza.

Ma cos’è allora veramente questa democrazia? Per Fini si tratta di un grande imbroglio, basato su un’etimologia che richiama al governo del popolo, ma che invece nei fatti è il suo esatto contrario: «Scordiamoci che il popolo abbia mai governato alcunché, almeno da quando esiste la democrazia liberale. Se c’è qualcosa che fa sorgere nell’anima di un liberale un puro sentimento di orrore è il governo del popolo».

L’autore individua nella nascita degli Stati nazionali la progressiva diminuzione del “potere popolare”. Burocrazia, pluripartitismo, rappresentatività a vari gradi e livelli; tutti specchietti per le allodole che celavano e celano un potere meno manifesto, più occulto e sotterraneo, ma più vincolante ed alienante. E più nel tempo hanno voluto spiegarci l’essenza di questo termine così onnicomprensivo, più i cosiddetti pensatori illuminati si sono incartati in teorie cangianti e allo stesso tempo vuote: nemmeno determinare capisaldi univoci ed assoluti si è riuscito a fare con facilità. Fini sguazza nelle contraddizioni di filosofi, politologi e pensatori di varia dignità e titolo, tenendo sempre ben ferma l’idea dell’assoluta dissonanza tra teoria e realtà; e anche laddove ci si riconduce finalmente a punti cardine condivisi (perlopiù nei modelli anglosassoni), il suo “martello” trae ispirazione dalla forza di quello nietzscheano. Dove si dice che il voto è uguale per tutti ad esempio, Fini fa uso delle teorie elitiste (Pareto e Mosca) per dimostrarne la falsità e, con lo stesso metodo e l’ausilio di diverse fonti, smonta anche la presunta uguaglianza, il controllo sul controllo, il rifiuto della violenza e demagogie assortite.

Nell’ultima parte l’autore si sofferma invece sull’idea di “progresso”. Estranea, almeno per come oggi viene intesa, ai greci, ai latini e agli orientali, cominciata a circolare nel mondo giudaico-cristiano, e tradotta al nostro tempo nella pretesa-attesa d’una migliore condizione dell’uomo sulla terra. Tornando al mondo moderno e a tempi più recenti, scorgiamo echi della prassi hegeliana nel pensiero liberale; nel voler vedere la democrazia – e il progresso che ne è la costola madre – come fine e centro della storia. Anche la prassi liberale, comunque, a parere di Fini, nonostante la sua presunta struttura indistruttibile, è soggetta a caducità e finitezza; né più e né meno del marxismo e dei suoi sottoprodotti. E allora, come vive realmente oggi l’opulento Occidente democratico?
Male, molto male, per Fini – e non solo per lui, almeno questo è evidente –, perché «dominato da oligarchie arbitrarie, non rispettate, ma che detengono la forza reale, si è abituato a servire ogni prepotenza».

Il debole Occidente, pertanto, teme smisuratamente il confronto, soprattutto con le genti del “Sud del mondo”, perché più motivate, più pronte a rischiare avendo meno da perdere, più inclini a scorgere valori alti – lo “scontro di civiltà” con l’Islam ne è una prova.
Anche l’antica dicotomia destra-sinistra sembra cadere in un siffatto contesto, come si consumano lentamente le idee base che ne erano il cardine, lasciando il posto ad un variegato mondo liberal-democratico-liberista con estemporanei cenni al sociale, più che altro usato solo come lustrino per la forma. “Liberale” e “democratico” per un solo ed unico pensiero conformante:
«È questo il pensiero unico di cui si sente tanto parlare senza peraltro sapere bene, spesso, di cosa si tratti. I pochi che osano mettersi di traverso a questo pensiero sono bollati come inguaribili e ridicoli parassiti».

Constatato che anche il movimento “no global”, ora “new global”, è risultato essere un bluff, manovrato consapevolmente o meno da un braccio meno evidente del potere stesso, Fini intravede fuori dall’Occidente un interessante fenomeno di resistenza all’omologazione planetaria: «Il movimento talebano del mullah Omar (in foto) che proponeva, nell’èra della modernità democratica trionfante, avanzante e conquistante, una sorta di ‘Medioevo sostenibile’ (che è qualcosa di meno imbecille dello ‘Sviluppo sostenibile’ che, allo stato attuale, è già un impossibile ossimoro, un’illusione o, piuttosto, una volgare menzogna), cioè una società regolata sul piano del costume da leggi arcaiche… non del tutto aliena però del far proprie alcune limitate e mirate conquiste tecnologiche». In fondo, ci fa capire l’autore, pare essere stato proprio il mullah Omar l’unico vero No Global dei nostri tempi.

Fini, come suo stile, chiude il saggio con un’ulteriore provocazione profetica, ovvero asserendo che non serve abbattere il sistema, tanto esso crollerà da solo portando via con sé tutto, la disperazione dei popoli e l’egemonia dei potenti. Perchè questo è un mondo che sta implodendo, perchè come L’obeso di Giorgio Gaber è «l’Infinito di un Leopardi americano». Ma si chiede anche: «Ci sarà l’alba di una nuova Aurora?». Sognare non costa nulla, e poi ci sono sempre i Nuer.

Originariamente pubblicato su “Lankelot”, a firma di Léon.

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martedì 24 marzo 2009

Democrazia: il problema (Alain de Benoist)

«Non tutti, oggi, sono democratici, ma tutti pretendono di esserlo...»

(Alain de Benoist, Democrazia: il problema, 1985)


Alain de Benoist (in foto), scrittore francese quanto mai interessante, fu tra gli animatori negli anni ‘70 del movimento culturale Nouvelle Droite (Nuova Destra). Tra le sue opere spicca Democrazia: il problema (1985), sintetica ma attenta disamina dell’evoluzione del concetto di “democrazia”.
In tale opera l’autore ci fornisce una visione completa della democrazia, analizzando come il “fenomeno” abbia mutato forma e sostanza nel tempo fino a proporre un’idea di democrazia “organica” che – a detta sua – sarebbe oggigiorno più “efficace”. Il tutto arricchito da citazioni tratte dal pensiero di autorevoli personalità che vanno da Aristotele a Carl Schmitt, passando per Montesquieu, Sartori, Tocqueville, Michels e tanti altri.

Erroneamente, c’è chi crede la democrazia un “prodotto moderno”. Così non è. Fino al XIX secolo il concetto di democrazia non trovò grossa eco in Europa. De Benoist ci suggerisce allora di volgere lo sguardo in Grecia per studiare la “vera” democrazia; una democrazia diretta (tutti i cittadini potevano prender parte all’ekklesìa o assemblea, vero organo decisionale) dove «il popolo governava, invece di eleggere gli uomini incaricati di governarlo».

La democrazia è concepita non in rapporto all’individuo, ma alla comunità organizzata, alla città (pòlis). Caratteristica principale della sua esistenza è perciò il concetto di cittadinanza, dove cittadino (polìtes) è chi appartiene a una patria, cioè a una terra e ad un passato.

Anche per il concetto di “libertà” vale la stessa premessa: per il Greco è l’appartenenza a conferire la libertà, essere libero significa avere il diritto di poter partecipare alla vita politica, alla vita della città dunque. Ebbene se la democrazia è inscindibilmente legata al concetto di libertà, e questo è legato a sua volta al concetto di appartenenza a una comunità (cittadinanza quindi), ne risulta che in una città di uomini liberi, l’interesse particolare non può che sottostare all’interesse generale, cioè quello della comunità/città.

Proseguendo nella sua analisi, de Benoist passa in rassegna le critiche che più spesso si muovono oggi contro la moderna democrazia.

Una di queste critiche è quella che vede il “regno dei partiti” attentatore all’unità nazionale. Portando avanti ognuno i propri interessi, sempre divergenti, il gioco politico perde di vista l’interesse generale creando uno stato di “endemica guerra civile”.

La democrazia non è poi legata “naturalmente” al concetto di libertà. Sono stati molti i regimi democratici oppressivi e terroristici (si pensi al genocidio vandeano, o alle “democrazie popolari” dell’Europa dell’Est fino al 1989...).

Altra critica è mossa verso chi confonde la democrazia con il liberalismo. Una loro congiunzione, essendo la prima fondata sul concetto di “potere del popolo” e il secondo sui diritti dell’individuo scaturiti da una “naturale” condizione di eguaglianza, appare quanto mai complicata. Nello stato democratico è il popolo ad essere sovrano. Altra cosa avviene nello stato liberale dove sovrano diventa il numero.

Proseguendo, l’autore sposta l’attenzione sul concetto di pluralismo e sovranità popolare.

Le moderne democrazie rappresentative vedono nel pluralismo un connotato fondante la democrazia stessa. In altri termini o la moderna democrazia rappresentativa riconosce il pluralismo o non è. Tuttavia riconoscere il pluralismo significa difendere anche quelle “arene” politico-sociali non propriamente democratiche e/o spesso avverse al regime stesso. Posta così la questione, il pluralismo rischia di essere un fattore “disgregante” per la democrazia, più che istitutivo.

Sulla sovranità popolare (espressione democratica per antonomasia...) e sul principio di maggioranza che le è proprio, resta da indicare significato e portata da attribuire a tale principio. Esso può considerarsi allora come un dogma o come una tecnica. Se la osserviamo nell’accezione dogma, è allora la quantità che risulta essere l’extrema ratio; è il numero che fa nuovamente da “sovrano”.
Se la consideriamo come tecnica, e assodiamo che il regime liberale vede ogni forma di dominio antidemocratica, è il riconoscimento dei diritti alla minoranza (opposizione) che garantisce il buon funzionamento democratico. Ma riconoscere tali diritti significa riconoscere il pluralismo e tutti i rischi ad esso connessi, non ultimo quello di disgregazione della nozione di popolo, base della democrazia stessa.

Il IV capitolo del libro è dedicato a (ed intitolato) “la crisi della democrazia”.

Le moderne democrazie occidentali assumono la forma, per dirla con Dahl, di poliarchie elettive in quanto il popolo delega a chi elegge la «cura di far passare nella realtà le sue decisioni». Il rappresentante, però, delegherà a sua volta parte del compito a collaboratori, funzionari, esperti, e via dicendo. Inoltre il potere politico non è il solo potere esistente nella società (si pensi ad istanze economiche, al potere dei media, ad altre istituzioni culturali, ecc.). I partiti rendono ancor più caotico il contesto: essendo organizzati internamente secondo logiche oligarchiche (R. Michels), essi «pretendono di difendere l’interesse comune, ma difendono in realtà la propria potenza. Contrapposti gli uni agli altri, sono tutti d’accordo per mantenere il regime dei partiti».
L’elettore, che dovrebbe essere il “protagonista” del regime democratico, fa in realtà la parte della “comparsa”; si aggiunga poi che tanto è più alto il numero dell’elettorato, tanto più l’importanza del singolo voto si marginalizza: se votano 40 milioni di persone, il voto del singolo non è che la 40 milionesima parte della volontà generale. Questa demoralizzante condizione dell’elettore è aggravata dal fatto che la volontà popolare non è mai auto-determinata, ma quasi sempre “fabbricata” da tecniche di condizionamento dell’opinione ad opera degli organi di informazione. «Pubblicità e marketing hanno raccolto il testimone della propaganda. Nessun dispotismo era fino ad oggi riuscito a far accettare così passivamente una simile Gleichschaltung (messa al passo)».

La limitata durata del mandato non può che aggravare la situazione. I programmi politici dei candidati tenderanno infatti a concentrarsi su politiche che mirano al breve termine. Puntando tutto sulla “seduzione” per poter raccogliere il più alto numero di voti possibile, i programmi elettorali saranno scarni, a scarsissimo carattere ideologico e per lo più standardizzati; lasciando l’elettore con la sensazione che «tutti gli uomini politici dicono le stesse cose».

Per finire, Alain de Benoist ci indica la direzione “verso una democrazia organica”. Sapendo già da Aristotele che una democrazia non può esistere in Stati con troppe persone, sembrerebbe impossibile proporre tale regime in un contesto come quello contemporaneo. Eppure la nostra società si compone di una moltitudine di comunità (regioni, comuni, municipi, ecc.). È qui che la democrazia può trovare espressione nella sua forma più “pura” ed originaria: quella diretta.

Altra forma di espressione diretta è il plebiscito (oggi referendum). Essendo la democrazia fondata sul concetto di partecipazione, quale mezzo migliore dell’iniziativa popolare per far sentire la collettività realmente partecipe?

Per partecipare, poi, è indispensabile riconoscersi nel contesto in cui la partecipazione avviene; da qui risulta indispensabile riprendere il concetto greco di cittadinanza, dove l’interesse comune non sottostà a quello individuale, ma, al contrario, l’individuo assume coscienza di sé proprio perché appartenente a una collettività.
In una siffatta società, dove l’idea di patria assumerebbe un’importanza centrale, è il sentimento di fratellanza che diventa fondamento non solo della solidarietà, ma anche della giustizia sociale, del patriottismo e della partecipazione democratica.

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venerdì 20 marzo 2009

Democrazia a Roma?


«D’una democrazia romana si parla, è vero, da antichi e da moderni. Ma il regime costituzionale romano in quei secoli dell’età repubblicana per cui ne abbiamo adeguata conoscenza, cioè dal III sec. a.C. in poi, è di fatto una oligarchia»

(Gaetano De Sanctis)


Nell’Occidente del “pensiero unico” democratico, non pochi hanno tentato di ricondurre l’esperienza repubblicana romana al concetto meta-storico di Democrazia. Il dibattito è iniziato, invero, da lungo tempo ma, proprio ultimamente, è tornato di fervente attualità. Nonostante numerosi studi, conferenze e quant’altro, la risposta è stata tuttavia impietosa: la Repubblica romana non fu mai una democrazia.

Oltre al De Sanctis, il quale nel 1947 negò categoricamente che Roma fosse una democrazia, l’illustre storico Moses I. Finley (in foto) scrisse esplicitamente ne La democrazia degli antichi e dei moderni (1973): «Anche i Romani discussero di democrazia, ma ciò che avevano da dire è di ben scarso interesse. Essa era una derivazione nel peggior senso, una derivazione solamente libresca, giacché Roma non fu mai una democrazia – in una qualsiasi definizione accettabile del termine – sebbene istituzioni popolari fossero incorporate nel sistema di governo oligarchico della Repubblica romana».

Diverso il destino della questione tra buona parte della romanistica, per forza di cose più attenta alla natura formale della costituzione romana, a partire da A. Guarino, in aperta polemica col De Sanctis, per arrivare a F. De Martino e G. Crifò, i quali sostenevano e/o sostengono tuttora vi fosse una forte e decisiva componente democratica all’interno della struttura politica di Roma.

Per meglio comprendere la diàtriba sulla natura della Repubblica romana sarà allora necessario risalire alla miglior fonte antica sulla tematica (nonché testimonianza oculare), ossia l’opera del grande storico greco Polibio.

Polibio di Megalopoli (200 ca. – 118 a.C.), uomo di raffinata cultura e di notevole spessore storiografico (il suo modello era il grande Tucidide), a séguito della Terza Guerra Macedonica (171 – 168) fu deportato a Roma, assieme ad altri 1000 membri della Lega Achea, in quanto sospettato di appartenere all’ala filo-macedone della Lega. Nella capitale strinse amicizia con Scipione Emiliano, il futuro distruttore di Cartagine, a cui si legò per comuni interessi culturali. A Roma e – per di più – nel rinomato “Circolo degli Scipioni”, Polibio ebbe modo di conoscere il sistema politico romano da un osservatorio privilegiato. Dal suo lungo soggiorno nell’Urbe nacque la sua fondamentale opera storica: le Storie. Il valore storiograficamente rivoluzionario del suo lavoro fu l’aver compreso che il destino del “mondo” (che per lui coincideva con l’area mediterranea) fosse ormai strettamente legato alle sorti di Roma che, in soli 53 anni (dalla Seconda Guerra Punica alla vittoria di Pidna, 220 – 168), aveva eretto un imperouniversale” (I 1,5; 2,7; 3,4; III 2,6).

Polibio è infatti lo storico dell’imperialismo e della gloria del popolo romano. Egli ravvisa – con una profondità d’analisi che potremmo definire “moderna” – nella forza della sua costituzione il motivo della grandezza di Roma. A questa Polibio dedica l’intero VI libro della sua opera (in part. i capp. 11-18), inserendo questo fondamentale excursus dopo la trattazione della disastrosa disfatta di Canne (216), giacché la solidità di una costituzione si valuta nei più gravi momenti di difficoltà.


(Annibale e Scipione Africano)


Partendo dalla teoria dell’anakýklosis (ciclo “che ritorna”) dei sei regimi politici (tre positivi e tre degenerati), ossia Regno (basilèia) > Tirannide (monarchìa) > Aristocrazia > Oligarchia > Democrazia > Oclocrazia > Regno ecc., Polibio osserva che la costituzione romana sfugge a questo processo di nascita/fioritura/degenerazione grazie alla sua precipua natura: Roma non è infatti né monarchica, né aristocratica, né democratica, bensì monarchica (consoli), aristocratica (senato) e democratica (comizi popolari) al tempo stesso (VI 12-14). Il concetto di costituzione “mista” è moderno e anacronistico, ed appare dunque più lecito parlare di “compresenza” dei tre regimi politici, in stretto rapporto dialettico e in un articolato sistema di controllo e bilanciamento (VI 15-17), checks and balances – potremmo dire – rifacendoci alla tradizione britannica.

Il popolo di Roma, in effetti, detiene poteri di estremo rilievo e importanza, di cui rammentiamo i fondamentali:
- Assegnazione di onori e punizioni. Fattore decisivo in una comunità, poiché – come Polibio fa giustamente notare – «[onori e punizioni] sono i soli mezzi con cui si tengono insieme signorie (dynastèiai), comunità politiche e, insomma, ogni forma di vita umana. […] Come sarebbe possibile, infatti, se i buoni fossero stimati allo stesso modo dei cattivi?»;
- Emissione delle sentenze di morte (con però la concessione, talvolta, dello ius exsilii);
- Assegnazione delle cariche;
- Verifica delle leggi, con la possibilità da parte dei Tribuni della Plebe di opporre il proprio veto (ius intercessionis);
- Decisione della pace o della guerra;
- Ratifica o rigetto di alleanze, accordi e trattati.

Ora, tuttavia, è necessario porsi la stessa domanda che ci eravamo posti parlando della democrazia ateniese: chi è il “popolo” (per lo meno quello a cui si riferisce Polibio, nel II secolo a.C.)? La risposta è la stessa: i cittadini (cives). Ma chi sono i cives Romani? Ebbene, sono cittadini coloro che partecipano alle decisioni e alle elezioni dei comizi (sia centuriati che tributi). Di conseguenza dobbiamo escludere sia i sudditi delle province che gli alleati italici, e dovremo includere invece una buona parte dell’Italia centrale. Ma, giacché per partecipare ai lavori dei comizi era necessaria la presenza fisica al Foro, si capisce che solo gli abitanti di Roma e delle immediate vicinanze avevano la reale possibilità di incidere sulla vita politica dell’Urbe (Roma mantenne di fatti la struttura politica e giuridica di una città-stato, pur non essendolo più da tempo).

Dobbiamo poi notare altri due elementi essenziali: 1) Nei comizi il voto non aveva valore individuale bensì collettivo (per centuria o per tribù), e le centurie (ripartite in base al censo) erano per la maggior parte costituite dalla prima classe censitaria e da quella dei “cavalieri” (equites). Sostanzialmente, su un totale di 193 centurie, qualora prima classe (80 centurie) e classe dei cavalieri (18) si fossero unite, il quorum e la maggioranza sarebbero stati assicurati; 2) Gli strumenti di propaganda politica a Roma, ossia l’ambitus, le contiones e l’istituzione della clientela – i quali meriterebbero un articolo a sé – permettevano alla nobilitas senatoria di influire in maniera più che decisiva all’interno dei comizi.

Esemplare fu, in proposito, la votazione per la guerra da muovere a Filippo V di Macedonia nel 200, fatto che ci è tramandato da Tito Livio (XXXI 6-8): il popolo, stremato dalla lunga e sanguinosa Guerra Annibalica appena conclusa, disapprovò la dichiarazione di guerra; fu allora che, e séguito dell’eloquente e suadente orazione del console P. Sulpicio Galba, il popolo fu riconvocato e si decise, infine, per la guerra. La mossa si rivelò vincente: le possenti e rinvigorite armi romane sconfissero Filippo, scacciando così la minaccia di un’invasione e preparando la strada alla futura conquista della Grecia.

La Repubblica dei Romani si presenta quindi a noi, sotto l’aspetto più concreto e storico (e non già giuridico e formale), calcando appena la mano, come un’aristocrazia. Tale constatazione non deve però lasciare adito ad un improprio svilimento del ruolo del popolo, che poteri decisionali, seppur limitati, ne ebbe. Non a caso lo Stato romano trova la sua massima sintesi, che ne esprime la sovranità, nella celebre formula Senatus Populusque Romanus (il Senato e il Popolo romano).

La costituzione della Roma repubblicana, tuttavia, è un’aristocrazia. A proposito è paradigmatica l’affermazione di Polibio che, confrontando Roma e Cartagine (le nazioni che si contesero la supremazia sul Mediterraneo) a livello costituzionale, e ravvisando che i due sistemi politici erano simili (ossia “misti”, volendo semplificare), sentenziava che Roma vinse poiché al tempo vi prevaleva la componente aristocratica, laddove a Cartagine spiccava la democratica (VI 51): «Poiché dunque presso gli uni [i Cartaginesi] decideva il popolo, e presso gli altri [i Romani] i migliori, le decisioni dei Romani sulle questioni politiche erano più valide; ed è per questo che, pur essendo stati completamente sconfitti [a Canne], grazie alla validità delle loro decisioni riuscirono infine a prevalere nella guerra contro i Cartaginesi».

Era quindi il Senato la vera e silenziosa forza di Roma, era l’autorità e il governo dei migliori (àristoi). Era lo stesso Senato che uno sbalordito ambasciatore di Pirro, interrogato dal suo sovrano, definì una «assemblea di re».

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martedì 17 marzo 2009

Platone: l’alfiere anti-democratico




«È naturale quindi – continuai – che la tirannide non si formi da altra costituzione che la democrazia; cioè, a mio avviso, dalla somma libertà viene la schiavitù maggiore e più feroce»

(Platone, Repubblica, 564 a)


Siamo nell’Atene del IV secolo a.C., un periodo di grandi trasformazioni sociali e politiche, caratterizzato dall’individualismo e il relativismo gnoseologico dei sofisti, dalla sfrenata licenza di poter dire e di poter pensare qualsiasi cosa si voglia. E ancora dalla fine della democrazia periclea, dall’instaurarsi del regime oligarchico dei Trenta Tiranni, e di nuovo dalla restaurazione della democrazia, molto diversa dalla precedente e soprattutto colpevole dei più alti crimini, primo fra tutti quello di aver condannato a morte Socrate, l’uomo giusto per eccellenza, il prototipo del filosofo, l’incarnazione del Bene e della Giustizia.

È in questo periodo che opera Platone (427 – 347 a.C.), ed è da questi grandi cambiamenti che prende forma la sua ricerca filosofica. Ma soprattutto è dalla condanna e la conseguente morte del maestro che comincia la riflessione politica sulla situazione di Atene: se il governo di una città poteva commettere il più grave dei crimini, ossia condannare a morte Socrate, era chiaro che la civiltà e la prosperità esteriore della democrazia ateniese nascondevano al loro interno una malattia morale che solo la riflessione filosofica può guarire.

Platone si scaglia contro ogni tipo di individualismo e a favore del giusto reinserimento dell’individuo nella polis, della parte nel tutto. Nella filosofia platonica l’individuo viene presentato come un uomo composto da tre esseri: un mostro a più teste, un leone e un uomo. I tre esseri corrispondono alle tre componenti dell’anima di ciascuno e alle tre classi della polis ordinata secondo giustizia, in modo tale che ciascuno, inserito in una delle tre classi, possa esercitare quel compito a cui la natura l’ha meglio indirizzato. La componente più bassa dell’anima è quella desiderativa (epithymetikòn), che spinge alla soddisfazione dei desideri e al possesso dei beni strumentali. Se essa prevale nel singolo, costui apparterrà alla classe bronzea dei lavoratori, la cui virtù specifica è la temperanza, in quanto questa classe è l’unica a cui è concessa la proprietà privata. Questa classe non può partecipare al governo della polis, in quanto è interessata all’accrescimento dei propri beni.

La componente intermedia è quella animosa (thymoeidès), che volge all’impegno costante per il perseguimento di stabili obiettivi, al di là del piacere momentaneo. Se essa prevale, il singolo apparterrà alla classe argentea dei guerrieri custodi che provvedono alla difesa armata della città. La virtù che li caratterizza è il coraggio. Ad essi non è concesso avere né possessi privati né famiglia propria. Ciò corrisponde all’intento platonico di una separazione tra potere e ricchezza, la quale impedisce atteggiamenti competitivi ed egoistici a discapito dell’unità del “tutto armonico” della polis.
L’ultima componente dell’anima è quella razionale-intellettuale (loghistikòn), che è in grado, elevandosi al di là dell’opinione e passando attraverso la Scienza, di arrivare a cogliere le “idee” e le loro relazioni. Se essa prevale nel singolo, questo apparterrà alla classe aurea dei custodi governanti (àrchontes), ovvero i filosofi. La virtù propria di questa classe è la sapienza (sophìa).

Da questa breve descrizione del pensiero politico-filosofico di Platone possiamo facilmente dedurre che esso sia caratterizzato da una sottile ed incisiva critica alla democrazia, alla sua pretesa di universalità, alla stessa antropologia su cui essa si fonda. Il suo, dunque, è un pensiero anti-egualitario, anti-individualista, ferocemente collettivista, in una parola anti-democratico. La democrazia, infatti, si richiama fondamentalmente a due princìpi: libertà e uguaglianza. Platone respinge entrambi questi princìpi, mostrandone l’intrinseca problematicità. A proposito della libertà, egli osserva che essa è destinata ad autonegarsi e a sfociare nel suo opposto, la tirannide, come lo stesso Platone afferma nella Repubblica: «Un’eccessiva libertà si trasforma in un’eccessiva schiavitù, nella vita privata come in quella pubblica. Dunque la tirannide non si insedia a partire da nessun’altra costituzione se non dalla democrazia; dall’estrema libertà deriva la schiavitù maggiore e più selvaggia» (Rp. 564 a). Inoltre l’unica vera forma di libertà, alla quale possono accedere gli individui nei quali dominano le istanze irrazionali, risiede nell’accettazione del comando di coloro in cui la ragione esercita il predominio. Meglio essere governati dalla ragione che appartiene ad un altro, piuttosto che dagli istinti irrazionali che risiedono nella propria anima.

Per quanto riguarda l’uguaglianza, egli nega che essa sia un dato acquisito sul piano morale, antropologico e intellettuale: gli uomini non sono affatto uguali. Considera poi l’uguaglianza non il punto di partenza, ma l’obiettivo di una società giusta.
La prassi democratica, la quale prevede che le decisioni siano prese a maggioranza all’interno dell’Assemblea e che molte cariche siano assegnate per sorteggio, nega il principio di competenza e la connessione, indispensabile per Platone, tra Potere e Sapere. Egli ritiene invece che la maggioranza degli individui non possegga né il grado di competenza, né il livello di consapevolezza, e neppure l’attitudine etico-morale per contribuire al governo della città. Per il filosofo la politica, almeno per quanto concerne la necessità di possedere una competenza disciplinare specifica, non differisce da una qualsiasi altra tecnica, come lo stesso Platone afferma nel Gorgia attraverso l’analogia tra la politica e la medicina: come questa, infatti, la politica comporta il possesso di un sapere oggettivo e controllabile, richiede un sapere e una competenza specialistica e per questo non può essere affidata all’arbitrio dei più, i quali posseggono solo una dotazione minimale di tale competenza. Solo un numero esiguo di individui è in grado di esercitare un pieno controllo della ragione sulle istanze razionali della propria anima. Ciò significa che gli uomini non sono affatto tutti uguali, perché la maggior parte è influenzabile dagli appetiti e dalle passioni.

È importante specificare che gli argomenti platonici contro la democrazia assumono connotati antropologici, e per questo assumono una validità universale, ossia non si riferiscono solamente alla democrazia esistente ad Atene. Platone non critica solo questo o quel meccanismo istituzionale in vigore nella città democratica, ma soprattutto l’uomo democratico, i suoi valori, i princìpi stessi sui quali si fonda la democrazia. È per questo che la critica platonica può essere estesa ad ogni forma democratica, dunque anche a quella attuale.

La presunta presenza nelle opere tarde di Platone di una revisione del giudizio sulla democrazia non sembra efficace, infine, se si considera che la collocazione mediana della democrazia nella gerarchia delle forme di governo esposta nel Politico non dipende dalla presenza, nella costituzione democratica, di elementi positivi, ma dalla semplice constatazione che la democrazia e l’uomo democratico hanno una sorta di mediocrità che li rende incapaci di realizzare in forma estrema tanto il Bene quanto il Male. Inoltre la costituzione delle Leggi, anche se considerata “mista” (di elementi monarchici e democratici), è in realtà aristocratica, in quanto si fonda sull’obbedienza alle leggi, espressione del sapere e dell’intelligenza. Elementi del tutto estranei alla democrazia.

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venerdì 13 marzo 2009

La riflessione politica di Aristotele



«Il governo dei molti non è buono, uno solo sia il comandante»

(Omero, Iliade, B 204)


Per ben comprendere l’analisi della democrazia e delle varie forme di governo in generale svolta nella Politica, risulta necessario chiarire, in via preliminare, i rapporti esistenti fra l’etica, da un lato, e la politica propriamente detta dall’altro.

All’interno della sistemazione aristotelica del Sapere vengono, come seconde, dopo le scienze teoretiche, le scienze pratiche. Queste si presentano come gerarchicamente inferiori alle prime in quanto in esse il sapere non è fine a sé medesimo, ma è subordinato, e quindi, agli occhi dello Stagirita, asservito all’attività pratica. Tali scienze hanno come specifico oggetto la condotta degli uomini e il fine che, attraverso tale condotta, essi vogliono raggiungere, sia considerati come individui, sia come membri della società politica in quanto tale. Questo rapporto si esprime, da parte di Aristotele (384/3 – 322 a. C.), nel definire con il termine “politica” la scienza complessiva dell’attività morale degli uomini sia come singoli che come cittadini. All’interno di questa sistemazione, la politica propriamente detta occupa un gradino superiore rispetto all’etica, alla quale rimane strettamente legata, assegnandole in questo modo una funzione di comando:
«Se dunque è il bene identico per il singolo e per la città, sembra più importante e più perfetto scegliere quello della città; certo esso è desiderabile anche quando riguarda una sola persona, ma è più bello e più divino quando riguarda un popolo e una città».

Da questa constatazione espressa nell’Etica Nicomachea, e ribadita nella Politica, Aristotele passa a delineare le cause che spingono gli uomini alla formazione degli Stati, rintracciandole e racchiudendole principalmente nella incapacità degli esseri umani di vivere isolatamente e nella conseguente necessità di avere rapporti con i suoi simili per sopravvivere. In primo luogo, la naturale distinzione in maschi e femmine spinge gli uomini a formare la prima comunità, vale a dire la famiglia, per il soddisfacimento dei bisogni elementari, quali la procreazione; in secondo luogo, si ha la formazione del villaggio inteso quale tipo di comunità atta a garantire in modo organico e sistematico i bisogni della vita. Tuttavia, per il raggiungimento della vita perfetta, identificata dallo Stagirita nella vita morale, l’essere umano necessita di strutture, quali leggi e magistrature, che solo una complessa organizzazione come lo Stato può garantire.

Tale organizzazione è imperniata sulla figura del Cittadino, inteso come colui in grado di prendere parte direttamente all’amministrazione della giustizia e dell’assemblea che governa la città – in un’espressione – alla vita attiva. Tale definizione riflette la caratteristica essenziale della polis greca dove il cittadino si sente tale solo se partecipa direttamente in prima persona all’amministrazione della cosa pubblica: in questo modo il filosofo mostra, da una parte, l’impossibilità di allontanarsi nelle sue conclusioni speculative dai vari condizionamenti storico-culturali della città-stato considerata ancora come l’orizzonte racchiudente i valori dell’uomo, ma, dall’altro, di limitare il numero dei cittadini escludendo, ad esempio, categorie quali operai e mercanti, i quali, pur essendo uomini liberi (non erano né stranieri né schiavi), non avevano il tempo di esercitare quelle funzioni che agli occhi di Aristotele sono essenziali.

Poste tali premesse, il filosofo enumera le diverse forme in cui si attua lo Stato, intese come differenti costituzioni. La costituzione è definita nella Politica come «la struttura che dà ordine alla città, stabilendo il funzionamento di tutte le cariche e soprattutto dell’autorità sovrana». Da qui lo Stagirita esamina le forme in cui si realizza l’autorità sovrana, ponendo come distinzione preliminare che ciascuna di queste forme possa essere esercitata in modo corretto, quando si eserciti in vista dell’interesse comune e, in modo scorretto, quando si eserciti in vista di interessi privati, una gestione da cui si generano le deviazioni. A questo punto si hanno le tre forme di costituzioni rette 1) Monarchia 2) Aristocrazia 3) Politìa, alle quali corrispondono le altrettante forme di costituzioni degenerate 1) Tirannide 2) Oligarchia 3) Democrazia.

Come si può notare da questa schematizzazione, Aristotele, fra le forme di governo degenerate, intende per democrazia un governo che, trascurando il bene di tutti, mira a favorire gli interessi dei più poveri in modo indebito. Il filosofo, infatti, precisa che l’errore in cui cade la democrazia è quello di ritenere che, poiché tutti sono uguali nella libertà, tutti possano e debbano essere uguali anche in tutto il resto. Aristotele riferisce nella Costituzione degli Ateniesi che, dopo la morte di Pericle, la vita politica in Atene subì un processo di deterioramento a causa di quelli che «volevano mostrare il più possibile la loro sfrontatezza e la loro compiacenza per la folla».

Tuttavia, sebbene lo Stagirita abbia una certa avversione per la democrazia, tale avversione non è preconcetta. Egli afferma, infatti, che la “migliore” forma di governo è quella fondata sulla “classe media” e che le democrazie sono più sicure delle oligarchie e anche più durature in forza dei cittadini medi. In altri luoghi, Aristotele rileva come il governo dei “molti” sia superiore al governo dei “pochi” non solo perché questi ultimi «si lasciano corrompere dal denaro e dai favori più facilmente dei molti», ma soprattutto perché i “molti” riuniti insieme «diventano un uomo con molte mani, con molti piedi, con molti sensi» e «con molte eccellenti doti di carattere e d’intelligenza». Questa sorta di ammirazione per i molti non vieta, tuttavia, ad Aristotele di scorgere come il loro governo possa degenerare in tirannide. Ciò avviene quando l’autorità della legge viene sostituita con quella della massa che, sciolta da ogni vincolo, diviene a sua volta facile preda dei demagoghi, i quali diventano più potenti quanto più le leggi perdono forza. Tale concezione affonda le proprie radici in un’errata concezione dell’uguaglianza e, soprattutto, della libertà, la quale viene dai più intesa come la possibilità di fare ciò che si vuole.


Da quanto detto emerge chiaramente come Aristotele, in virtù anche della sua stessa idea di cittadinanza, non considerasse bene questa forma di governo che, a distanza di secoli, sembrerebbe essersi imposta come la forma egemone nel panorama politico. Molto probabilmente Aristotele aveva ben compreso una verità che i contemporanei molto spesso ignorano: «l’addizione delle mediocrità non produce mai la moltiplicazione dell’intelligenza».

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