giovedì 9 maggio 2013

Alessandro Pavolini: L’ultimo poeta armato


L’articolo è stato pubblicato in «Occidentale», aprile 2013.


Il mito, sin dai tempi più remoti, cela in sé una potenza primordiale e misteriosa. Il mito, attraverso simboli e immagini, ci parla, tecnicamente ci «narra», ci invita all’azione, alla fedeltà a un archetipo. Nel caso di Alessandro Pavolini, la fedeltà al fascismo. La perfetta e simmetrica identificazione del segretario del Pfr con il suo mito archetipico (il fascismo sansepolcrista, lo squadrismo delle origini) ha poi reso lui stesso un mito. «Un’Idea vive nella sua pienezza e si collauda nella sua profondità quando il morire battendosi per essa non è metaforico giuramento, ma pratica quotidiana»: così Alessandro Pavolini ha magistralmente espresso, in una prosa tragicamente vibrante, l’essenza dell’ideale fascista, della salda fedeltà al fascismo, che poi altro non voleva dire che fedeltà a sé stessi, al proprio destino che si è liberalmente scelto.

Senza scomodare Sorel, è troppo facile constatare che, specialmente nell’epoca moderna, conformarsi a un mito, a un’immagine di sé stessi e della propria comunità, è un atto eminentemente rivoluzionario. E questo perché, nella «società liquida» e del nichilismo realizzato, si avverte intorno a noi un malcelato rifiuto di tutto ciò che è Forma, di tutto ciò che è strutturato, che è scultura di sé, che è costruito con abnegazione e attraverso la distruzione del proprio «io» egoista e borghese – un rifiuto di tutto ciò che è bello perché autentico, che è conturbante perché, in definitiva, terribilmente vero.

È proprio per questo motivo, cioè per esorcizzare la bellezza solare del mito incarnato e vissuto, che la parola d’ordine del borghese invidioso è diventata «demitizzare». Cosa ben diversa dalla demistificazione, che invece non è altro che lo smascherare una menzogna artificiosa. No, la demitizzazione è un processo molto più sottile e spudoratamente vile. Essa consiste, in ultima analisi, nel diffamare l’autenticità, nell’abbassare la grandezza e le più alte vette dell’esistenza alle turpi bassezze dei nani. Essere fedeli al proprio mito è in effetti il peggiore dei crimini agli occhi del borghese politicamente corretto, il quale non fa altro che predicare la prudenza, la diserzione, l’individualismo più retrivo. È per questo che il nume sfavillante di Pavolini si è cercato più volte di demitizzarlo. Una vana illusione, del resto, perché il regno delle aquile non potrà mai essere il loro starnazzante pollaio. 

Ma, d’altronde, come si poteva perdonare al Pavolini creatore dei Littoriali, del Maggio Musicale Fiorentino, delle Rassegne d’Arte, della Fiera del Libro, del Teatro Sperimentale dei Guf, ecc. – come si poteva perdonare a quest’uomo di profonda, raffinata e vivace cultura di essere stato fascista? Di più: come si poteva perdonargli di aver incarnato così fedelmente l’idea fascista tanto da immolarsi per essa, mentre tutti gli altri tradivano, si imboscavano, si prostituivano? 

«Le Brigate Nere in che periodo sono apparse? Quando altri si squagliavano e noi ci adunammo. Altri dimettevano il distintivo e noi ci rimettemmo la camicia nera. Altri cercavano di farsi dimenticare e noi ci ricordammo. Ci ricordammo delle parole date, delle fedi promesse, dei compagni perduti. Noi ci ricorderemo sempre». Ecco, la fedeltà al mito e al proprio ideale: questo, i biliosi e i truffatori, non glielo potevano proprio perdonare.

Ora, la seconda edizione ampiamente arricchita de L’ultimo poeta armato. Alessandro Pavolini segretario del Pfr (Seb, pp. 436, € 24) di Massimiliano Soldani, recentemente pubblicata a più di un decennio di distanza dalla prima (1999), ci aiuta a meglio comprendere il mito di Alessandro Pavolini. L’opera di Soldani infatti, arricchita peraltro da una magnifica introduzione di Gabriele Adinolfi, rappresenta un ottimo esempio di storiografia competente e non conforme che rifugge da un tipico tranello in cui spesso è incappato il variegato ambiente neofascista, ossia la trasformazione del fondatore delle Brigate Nere in un santino e in una figurina. Ricordare Pavolini unicamente come l’eroe che resiste fino all’ultimo, fino all’ultima cartuccia, è un altro modo, cioè, per depotenziare la sua figura. Perché Pavolini, prima del supremo ed eroico sacrificio, è stato un uomo che ha vissuto, che ha lottato durante tutta la sua esistenza per qualcosa di ben preciso.  

L’Autore infatti, grazie a una rara padronanza delle fonti, ricostruisce con esattezza le numerose tappe della battaglia politico-culturale di Pavolini, dagli anni del «Bargello» sino agl’ultimi provvedimenti da segretario del Pfr. Dalle pagine dell’opera di Soldani, dunque, emerge chiaramente il fascismo per cui Pavolini si è battuto. Che non è il «fascismo» dei fiancheggiatori, dei conservatori e dei liberali in orbace, bensì il fascismo degli squadristi della prima ora, il fascismo come cultura totale, il corporativismo che anela alla rivoluzione sociale, la socializzazione che introduce gli operai alla gestione delle imprese: è, in definitiva, lo stupendo fascismo mussoliniano sociale e nazionale, il fascismo immenso e rosso.

Si badi che l’appunto è tutt’altro che banale. Se per vent’anni molti si erano costruiti un fascismo fatto su misura, Pavolini al contrario, pur non rinunciando certamente alla discussione e alle critiche costruttive, è sempre rimasto fedele al fascismo originario e rivoluzionario. E ciò è ancora più importante e notevole se riflettiamo sul fatto che tutti questi vari «fascismi» sono poi sopravvissuti nel dopoguerra, e tuttora convivono all’interno della cosiddetta «area» neofascista. In altre parole quindi, conoscere a fondo, grazie a questo volume, la personalità di Pavolini ci aiuta a non perdere di vista la stella polare, ossia il fascismo autentico e genuino, quello in camicia nera. Il fascismo aristocratico perché popolare, imperiale perché nazionale, culturale perché incarnato nell’azione. Quel fascismo che fu veramente la «poesia del XX secolo». 

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