mercoledì 30 gennaio 2013

«Il mio amico Pound ha ragione»


di Adriano Scianca 


«“Ma qvesto”,
disse il Duce, “è divertente”
afferrando il punto prima degli esteti».

L’incipit del canto 41 in cui Ezra Pound rievoca il suo incontro con Benito Mussolini (the Boss, nella versione originale) avvenuto esattamente 80 anni fa costituisce da sempre un vero rompicapo per gli storici e i letterati. Se la “v” in “qvesto” sembra alludere in parte alla romanità e in parte al marcato accento romagnolo di Mussolini (un particolare, quest’ultimo, che viene sottolineato proprio per segnare ulteriormente la natura popolare e popolana del capo del fascismo e la conseguente distanza tra lui e “gli esteti”), il giudizio si riferisce, come noto, alla lettura, da parte del Duce, dei primi 30 Cantos. Ma facciamo un passo indietro.

Informazioni di prima mano su Mussolini, al di là di ciò che il poeta leggeva nei giornali e vedeva per le strade, Pound le aveva avute da Olga Rudge, che già nel 1923 aveva suonato il violino per il leader fascista, riportandone un’opinione lusinghiera: il Capo di Stato appariva alla musicista americana come un uomo politico illuminato, amante dell’arte, che sapeva a sua volta suonare il violino e sembrava molto competente della materia per essere un profano. Tali racconti dovevano aver fatto grande presa su Pound, che da sempre auspicava una politica più attenta al mondo dell’arte e della cultura. Nei primi anni Trenta il poeta, come detto in precedenza, cominciò a muoversi per cercare di incontrare Mussolini. Anni dopo cercherà di fare altrettanto con Roosvelt, senza riuscirci. Con Mussolini dovette insistere un bel po’, ma alla fine lo incontrò (ulteriore conferma, ai suoi occhi, della superiorità dell’Italia fascista sull’America democratica), precisamente il 30 gennaio 1933, alle 17.30.

Il poeta portò a Mussolini una copia dei canti 1-30. Il Duce li sfogliò, lesse per un po’, poi esclamò: «È divertente». Il commento appare a prima vista naif, superficiale, quasi irridente. Tale, almeno, è sembrato negli anni ai soloni della cultura. Non così all’autore dei Cantos, che proprio a questo episodio dedicherà l’incipit del canto 41 che abbiamo già visto precedentemente. Come spiegare l’entusiasmo di Pound? I più propendono per l’accecamento puro e semplice del poeta di fronte al suo eroe, ma forse che le cose stanno diversamente. Secondo Tim Redman, infatti, Mussolini era rimasto colpito da un passaggio in cui un personaggio dei Cantos parla in dialetto e aveva chiesto di cosa si trattasse. Dopo la spiegazione, il Duce si mise a ridere e disse che la cosa era divertente. Pound rimase folgorato e il perché ce lo ha spiegato di recente la figlia Mary: «Solo pochi giorni prima Joyce si era lamentato con mio padre perché nessuno gli aveva detto che l’Ulysses era divertente. Bisogna conoscere i retroscena». Antonio Pantano, invece, ha ricondotto il divertimento di Mussolini alla comprensione del metodo poundiano per eliminare le imposte, tassando direttamente il denaro con il ben noto meccanismo della moneta prescrittibile. Eliminare le tasse: quale governante non riterrebbe questo “divertente”?

Nello stesso incontro, comunque, pare che Mussolini e Pound abbiano discusso di cultura cinese e del concetto confuciano del “mettere ordine nelle parole” per mettere ordine nelle idee. Al che Mussolini, evidentemente molto ben ispirato, quel giorno, chiese al poeta perché mai volesse mettere ordine nelle sue idee, confermando a Pound l’impressione di stare parlando con un uomo geniale. Idea che molti commentatori hanno giudicato ingenua, anche se uno studioso non certo fascisteggiante come Hugh Kenner ha potuto scrivere: «Nel 1933 sembrava possibile credere che Benito Mussolini comprendesse queste nozioni. Forse, in un certo senso, era così». Anche il fatto che Pound lo chiamasse “the Boss” (ma altre volte utilizzava nomignoli come “Mus” o “Ben” oppure, curiosamente, lo appellava “il toro”) non va trascurata: Pound, evidentemente, riconosceva nel capo del fascismo anche il proprio capo.

La convocazione dell’udienza venne appesa nello studio di Pound, mentre sulla carta da lettere finì la frase mussoliniana «la libertà è un dovere», liberty, a duty. Nel 1945, nei primi interrogatori con il comando militare americano, ricostruirà ancora una volta l’incontro con Mussolini, sbagliando la data ma aggiungendo ulteriori particolari: «Intorno al 1929, ho avuto un’udienza con Benito Mussolini che era a conoscenza del mio libro “Guido Cavalcanti” che gli avevo presentato l’anno prima. Lui pensava di discutere di quello, ma io invece gli ho sottoposto una serie di domande di argomento economico molto incalzanti». Altre richieste di colloquio finirono invece nel vuoto, spesso bloccate sul nascere dalla segreteria del Duce, decisamente poco a suo agio di fronte alla prosa creativa dei testi che il poeta continuava a inviare a Mussolini. Eppure il nome di Pound ricorre più di una volta in un testo centrale per la comprensione del pensiero del capo del fascismo: i Taccuini mussoliniani di Yvon De Begnac. Come noto si tratta della mole sterminata di appunti che il giovane giornalista conservò in occasione dei suoi colloqui con Mussolini avvenuti fra il 1934 e il 1943. Da questi taccuini avrebbe dovuto infine nascere una biografia del Duce che non vide mai la luce per le contingenze storiche, mentre gli appunti vennero in seguito pubblicati così come erano, con lunghi monologhi privi di domande sugli argomenti più disparati. E in tutto questo, come detto, compare più volte il nome di Pound. La citazione più importante recita, fra l’altro:

«Il mio amico Ezra Pound ha ragione. La rivoluzione è guerra all’usura. È guerra all’usura pubblica e all’usura privata. Demolisce le tattiche delle battaglie di borsa. Distrugge i parassitismi di base, sui quali i moderati costruiscono le loro fortezze. Insegna a consumare al modo giusto, secondo logica di tempo, quel che è possibile produrre. Reagisce alle altalene del tasso di sconto, che fanno la sventura di chi chiede per investire nell’industria, e aumenta il mondo del risparmio, riducendone il coraggio, contraendone la volontà di ascesa, incrementandone la sfiducia nell’oggi, che è più letale ancora della sfiducia nel domani. Allorché il mio amico Ezra Pound mi donò le sue “considerazioni” sull’usura, mi disse che il potere non è del danaro, o del danaro soltanto, ma dell’usura soltanto, del danaro che produce danaro, che produce soltanto danaro, che non salva nessuno di noi, che lancia noi deboli nel gorgo dalla cui corrente altro danaro verrà espresso, come supremo male del mondo. Aggiunse in quel suo italiano, gaelico e slanghistico, infarcito di arcaismi tratti da Dante e dai cronachisti del trecento, che il potere del danaro e tutti gli uomini di questo potere regnano su un mondo del quale hanno monetizzato il cervello e trasformato la coscienza in lenzuoli di banconote. Il danaro che produce danaro. La formula del mio amico Ezra Pound riassume la spaventosa condizione del nostro tempo. Il danaro non si consuma. Regge al contatto dell’umanità. Nulla cede delle proprie qualità deteriori. Contamina peggiorandoci in ragione della continua salita del suo corso tra i banchi e le grida della borsa nelle cui caverne l’umano viene, inesorabilmente, macinato. Il mio amico Pound ha le qualità del predicatore cui è nota la tempesta dell’anno mille, dell’anno “n volte mille” sempre alle porte della nostra casa di dannati all’autodistruzione. La lava del denaro, infuocata e onnivora, scende dalla montagna che il cielo ha lanciato contro di noi, mi ha detto il mio amico Pound; e nessuno, tra noi, si salverà. Il mio amico Pound ha continuato con voi, come mi avete detto, nella casa romana dello scrittore di cose navali Ubaldo degli Uberti, l’analisi di come il danaro produce soltanto danaro, e non beni che sollevino il nostro spirito dalla palude nella quale il suo potere ci ha immerso. Non è ossessione la sua. Nessun uomo saggio, se ancora ne esistono, ha elementi per dichiarare esito di pericolosa paranoia il suo vedere, tra i blocchi di palazzi di Wall Street e tra le stanze dei banchieri della City, le pareti indistruttibili dell’inferno di oggi. I Kahn, i Morgan, i Morgenthau, i Toeplitz di tutte le terre egli vede alla testa dell’armata dell’oro. Pound piange i morti che quell’esercito fece. E vorrebbe sottrarre a ogni pericolo tutti noi esposti alla furia del potere dell’oro. Con il vostro amico Pound ho parlato di quello che Peguy ha scritto contro il potere dell’oro. Conosce quasi a memoria quelle pagine. Ne recita brani interi, senza dimenticarne alcuna parola. Il suo francese risale agli anni parigini in cui la gente di New York, di Boston, emigrata a Parigi, pensava ancora che l’occidente fosse fra noi. Illusa, quella gente, che scegliendo Parigi, il potere dell’oro sarebbe andato per stracci, almeno per questi migranti della letteratura. È, quel francese di Pound, come un prodotto del passato, come una denuncia del troppo che stiamo dimenticando, tutti noi che corriamo il rischio, o che già lo abbiamo corso, di finire maciullati dal potere dell’oro».

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martedì 22 gennaio 2013

Lo Hobbit: un’ambiguità di fondo

L’articolo è stato pubblicato in «Occidentale», gennaio 2013.

Il 13 dicembre scorso è arrivato nelle sale italiane Lo Hobbit: un viaggio inaspettato (Warner Bros), il primo atto della prevista trilogia dedicata all’omonima opera di J. R. R. Tolkien. Il regista è, anche questa volta, Peter Jackson, il quale aveva già in precedenza curato la trilogia de Il signore degli anelli, il più famoso romanzo tolkieniano di cui questo Lo Hobbit costituisce il prequel. 

Lo stile, sia nella sceneggiatura che nella scenografia, è lo stesso collaudato per Il signore degli anelli: ricostruzioni grandiose, ambientazioni spettacolari (le riprese sono state realizzate in Nuova Zelanda), atmosfere conturbanti. I ritmi talvolta rallentano, ma nel complesso lo svolgimento della trama è avvincente.

La storia, per il resto, è sufficientemente nota e sarebbe un peccato rivelarne anche solo degli spezzoni. La fedeltà della sceneggiatura all’opera originale è poi pressoché integra, se si fa eccezione di alcune licenze artistiche finalizzate a una migliore resa cinematografica. E il cast, infine, si rivela all’altezza del compito, con il bravo Martin Freeman nei panni del protagonista Bilbo Baggins, la conferma di Ian McKellen nel ruolo di Gandalf e la convincente prova di Richard Armitage nelle vesti del fiero e audace Thorin Scudodiquercia.

Insomma, il film è godibile e ben realizzato sotto tutti i punti di vista, riuscendo nell’impresa di restituire al meglio il capolavoro tolkieniano. Quel che invece non può esser taciuto ed evitato è un giudizio sul messaggio «politico» dell’opera, soprattutto a livello di immaginario. Non è infatti un mistero che la narrativa tolkieniana, dal dopoguerra fino ad oggi, ha esercitato un notevole influsso sugli ambienti della destra radicale, tanto che i raduni estivi della gioventù missina, più o meno dissidente nei confronti del partito, presero il significativo nome, appunto, di «campi hobbit». L’esperienza di questi campi, legati peraltro in parte alla «nuova destra» tarchiana, ha poi dato vita in alcuni suoi esponenti a un complesso fenomeno di auto-mitizzazione che non è possibile analizzare in questa sede, ma i cui effetti sono visibili ancora oggi, in particolar modo – come si diceva – a livello di immaginario.

Se da una parte è senz’altro vero che il fascismo del terzo millennio ha completamente e irrevocabilmente rivoluzionato l’immaginario destro-radicale, grazie soprattutto alla riattivazione delle radici avanguardiste e futur-ardite del sansepolcrismo, è tuttavia evidente, all’interno di questo vasto e stratificato immaginario, il permanere a livello residuale di richiami al mondo fantastico evocato da Tolkien. La questione naturalmente, sia chiaro, non è affatto artistico-letteraria, ma squisitamente politica, proprio perché in passato l’immaginario tolkieniano è stato spesso interpretato dai giovani neofascisti come un rifugio e una scappatoia: il fantasioso universo della Terra di Mezzo, popolato da nani, elfi e impavidi guerrieri, infatti, finiva più per proteggere dal mondo esterno una gioventù sotto costante attacco invece di fungere da collettore attivo e mobilitante. Le cause di questo processo erano sicuramente oggettive ma, al contempo, non si può negare una specie di resa soggettiva di fronte al tragico contesto politico da parte di alcuni militanti, i quali, magari inconsciamente, trovarono a Gondor o nella Contea ciò che sembrava loro impossibile conquistare in piazza, nelle strade, nell’ufficialità culturale e, più in generale, nella cosiddetta «società civile». 

A questo punto una valutazione «politica» dell’opera tolkieniana si impone. L’autore, com’è noto, attinse a piene mani alle leggende e ai miti classici e germanici, ricreando un mondo fortemente intriso di etica eroica e princìpi aristocratici che si possono cogliere e apprezzare, ad esempio, nella figura di Aragorn, il ramingo del nord che, deciso ad essere fedele al suo destino di re, accetta stoicamente l’arduo compito di reclamare il suo trono; stesso discorso vale per Thorin Scudodiquercia, il tenace nano pronto a ogni sacrificio pur di riconquistare per sé e per il suo popolo il regno usurpato dal drago Smaug. 

Nonostante ciò, tuttavia, nelle opere di Tolkien sono purtroppo presenti anche elementi riconducibili a una visione anti-eroica della vita. Gli Hobbit infatti, che svolgono un ruolo centrale nei suoi libri, rappresentano nei loro vizi e nelle loro virtù la componente «borghese» della Terra di Mezzo. Essi sono descritti come crapuloni, leggeri, pacifici, mansueti, tranquilli e bontemponi, senza una direzione d’esistenza e un destino, presi e tirati per la giacca dagli eventi che non riescono a controllare ma di cui, anzi, subiscono passivamente la tirannia. In proposito si potrebbe obiettare che Bilbo alla fine si decide per unirsi all’avventura di Thorin e Gandalf, rompendo in tal modo la ripetitiva routine della sua vita frivola e rilassata, così come Frodo accetterà di portare, tra atroci sofferenze, il «pesante fardello» per il bene comune. Gli Hobbit però, anche quando si risolvono per la lotta, non accedono mai a un’autentica dimensione tragica (e perciò eroica) dell’esistenza. Il loro compito è sempre gravoso, una scomoda e ineluttabile necessità di cui farebbero volentieri a meno, oppure, come nel caso di Bilbo, un temerario diversivo per evadere dalla monotonia borghese.

In altre parole gli Hobbit sono, nella migliore delle ipotesi, «eroi per caso», e quindi anti-eroi, proprio come tutti i borghesi, del resto. Una visione del mondo che, oltretutto, si attaglia benissimo alla concezione puritana e intrinsecamente anti-eroica dello spirito anglosassone in generale e statunitense in particolare, come hanno ben evidenziato Giorgio Locchi e Alain de Benoist ne Il male americano (LEdE, 1978), dove il guerriero è lodato solo quando difende la società dei pii e dei devoti, ma dove l’etica eroica, al contrario, è inevitabilmente condannata in quanto blasfema ed empia.

L’ambiguità dell’epica tolkieniana, quindi, risiede proprio in questo sottinteso dualismo che si compone nel lieto fine ma che lascia nondimeno irrisolto il conflitto. L’eterno conflitto, cioè, tra l’anima borghese, tiepida, timorosa e inessenziale, e lo spirito eroico, ardente, tragico, epico. Tra il borghese, che si accontenta degli agi e della «qualità» della vita, e l’eroe che accetta il suo destino di lotta e vittoria. L’eterno conflitto, insomma, tra la tragedia e la farsa. 


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