mercoledì 28 marzo 2012

Le origini dell’ideologia fascista

L’articolo sarà pubblicato in «Occidentale», aprile 2012.

Oramai esaurita e introvabile in libreria, è stata recentemente ristampata la seconda edizione (1996) di Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), opera tra le più importanti dell’insigne storico Emilio Gentile (Il Mulino, pp. 512, € 16). Si tratta di uno dei capisaldi della moderna storiografia sulla dottrina fascista, «catturata» nel momento della sua nascita e del suo evolversi sino alla svolta del 1925, allorché il governo di Mussolini si fece regime e il pensiero fascista entrò nella sua fase matura, ancorché tutt’altro che concluso e  cristallizzato, come si addice, del resto, a ogni moto spirituale e culturale schiettamente rivoluzionario, il quale non è mai stasi, ma è movimento, avanzata. Che non è mai contemplazione del passato e appagamento nelle mete raggiunte, bensì sguardo audace e proiezione entusiastica verso l’avvenire. Un avvenire che, com’è noto, è sempre incerto e, quindi, sommamente e meravigliosamente intrigante. Un pensiero, insomma, che fu creato dall’ardente fuoco di innovatori e di avanguardisti, e non certo dalla mente fredda e calcolatrice del borghese in vestaglia e pantofole, sempre timoroso del domani e, pertanto, nemico di ogni vera e autentica rivoluzione.

Il libro – arricchito rispetto alla prima edizione (1975) di un saggio introduttivo intitolato «La modernità totalitaria» – è fondamentale almeno per due motivi. Innanzitutto perché illustra con rigore ed efficacia non comuni il fiume impetuoso degli ideali fascisti in tutti i suoi rivoli e i suoi affluenti. In secondo luogo perché, al tempo della sua prima pubblicazione, fu una delle prime opere che, sulla scia della «rivoluzione storiografica» defeliciana, contribuirono a far giustizia di tutte le viete e artificiose teorie sul fascismo sorte nel dopoguerra, semplicistiche e ultra-ideologizzate: in particolare quella marxista, che vedeva nel fascismo una rozza e brutale reazione al soldo dell’alta borghesia industriale; e quella liberale, che interpretava il «fenomeno fascista» come «male del secolo», scaturito dall’esperienza disumanizzante della Grande Guerra, e di conseguenza come un imprevisto e ingombrante ostacolo alle «magnifiche sorti e progressive» dell’umanità borghese e neo/post-illuminista.

Gentile al contrario, destrutturando queste vecchie a fallaci interpretazioni, ricostruisce il percorso aurorale dell’ideologia fascista grazie al ricorso sapiente e antipregiudiziale alle fonti primarie dell’epoca, analizzando le parole e gli scritti degli uomini e degli intellettuali che, direttamente o indirettamente, contribuirono all’edificazione della cultura fascista. A cominciare, ovviamente, da Benito Mussolini, ossia da quel Mussolini socialista che, venuto a contatto con l’opera di filosofi e pensatori quali Nietzsche, Stirner, Sorel e Pareto, operò una revisione «idealistica» e perciò volontaristica del socialismo, che rappresentò senz’altro il primo passo verso la sua futura «presa di coscienza» fascista.

Tra le innumerevoli componenti culturali del fascismo, ritroviamo poi quelle correnti ardentemente e causticamente rivoluzionarie che, oggi, costituiscono la piattaforma esistenziale e mitica del fascismo del terzo millennio. Mi riferisco, in particolare, alle origini futur-ardite, fiumane, sindacaliste e squadriste del movimento mussoliniano, latrici di uno stile di vita sostanziato di «avventura, eroismo e spirito di sacrificio»: tutto ciò ben rappresenta, del resto, l’essenza di quel «romanticismo fascista» descritto già all’inizio degli anni Sessanta da Paul Sérant. Radici nobili e rivoluzionarie, quindi, che le tartarughe frecciate di CasaPound – attraverso una riappropriazione volontaristica dell’origine fascista, depurata dalle scorie passatiste e conservatrici – hanno posto a pietra angolare della loro azione politica avanguardistica.

Ma non potremmo neanche tacere le correnti attualiste, relativiste e scettiche del fascismo, incarnate dai loro capiscuola Giovanni Gentile, Adriano Tilgher e Giuseppe Rensi. Maggiormente conosciuto il primo, è stato certamente un gran merito dell’Autore aver riscoperto gli ultimi due. Tilgher, ad esempio, immettendo il fascismo – con l’entusiastica adesione del Duce – nell’alveo delle grandi correnti filosofiche relativistiche, sanciva la distruzione, o quanto meno la messa al bando di ogni «metafisica» tirannica e limitante, riconducendo pertanto il movimento delle camicie nere al suo specifico volontarismo d’origine nietzscheana. Stesso discorso vale per Rensi, esponente di punta dello scetticismo moderno (ben diverso da quello «classico»), anche se talora il suo pensiero si carica di tonalità eccessivamente naturalistiche e pessimistiche, le quali però – a onor del vero – ben si sposavano con alcuni aspetti di derivazione machiavelliana propri della mentalità di Mussolini.

Ciò che emerge, in sostanza, dalla ricognizione di Emilio Gentile nel sostrato ideologico del fascismo, è la sua natura eminentemente rivoluzionaria e moderna. Ideologia anti-ideologica, alla quale riconosceva un ruolo puramente strumentale, «il fascismo riassumeva nel mito dello Stato e nell’attivismo come ideale di vita i caratteri essenziali della sua ideologia, che lo distinsero dalle altre ideologie politiche del nostro tempo». Primato della politica e dell’azione, mito della nazione e dello Stato, culto della giovinezza e dell’eroismo, proiezione tragica e carica di destino nell’avvenire più remoto: questi i fondamenti del fascismo che, tra l’altro, sanciscono la sua originalità e autonomia rispetto a qualsiasi altra ideologia. A partire innanzitutto dal nazionalismo borghese e ottocentesco, in barba a tutte le superate speculazioni sulla «cattura ideologica» del fascismo da parte del nazionalismo. Come evidenzia Emilio Gentile, infatti, «il fascismo affermò l’idea della nazione come mito, mentre per i nazionalisti la nazione era una realtà naturale, per i reazionari un principio tradizionalista indipendente dalla volontà degli individui, un passato che condiziona il presente e determina il futuro secondo percorsi immutabili». Ovvero, per dirla con Henri Lemaître, la cultura fascista «concepisce la nazione non essenzialmente come eredità di valori, ma piuttosto come un divenire di potenza».

Divenire di potenza, prospettiva millenaria, primavera di bellezza. Niente di più prossimo al trittico casapoundiano etica-epica-estetica, recentemente tradotto da Scianca in volontà di potenza, volontà di forma, volontà di destino. Come si può vedere, ripercorrere le origini dell’ideologia fascista significa anche fare chiarezza su sé stessi. Ma – e ciò è fondamentale – tale percorso non è assolutamente quello del gambero. L’origine, cioè, non è mai alle nostre spalle, è sempre a venire. La rivoluzione, in altri termini, riguarda sia il passato che il futuro. La rivoluzione è ovunque e in ogni momento, è sempre in atto.

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lunedì 5 marzo 2012

La nuova politica e la nazionalizzazione delle masse

L’articolo sarà pubblicato in «Occidentale», marzo 2012.  

«Pochi libri – forse nessuno tra quelli pubblicati in questi ultimi anni – hanno tanta potenza suggestiva e sono così ricchi di vera cultura e di stimoli intellettuali e di suggerimenti metodologici e tematici come questo di George L. Mosse. Fare in questo campo riferimenti, confronti, è sempre difficile. Eppure, se un riferimento, un confronto è possibile, i nomi, i titoli che vengono in mente sono due: quello di Johan Huizinga con il suo Autunno del Medioevo e quello di Marc Bloch con il suo I re taumaturghi». Così si esprimeva, con toni elogiativi, Renzo De Felice presentando al pubblico italiano nel 1975 l’opera di Mosse La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), recentemente ristampata dalla casa editrice Il Mulino (pp. 312; € 12).

Il lavoro di Mosse, in effetti, è di una importanza fondamentale nella storia degli studi sulle rivoluzioni nazionali del primo Novecento. Intanto perché mostra, in tutta la sua chiarezza, l’intrinseca modernità del cosiddetto «fenomeno fascista» (a cui noi preferiamo dare, in accordo con Giorgio Locchi, la definizione di «tendenza sovrumanista»), il quale dunque si distingueva nettamente da ogni altro movimento conservatore o reazionario sin lì presente sulla scena politica. In secondo luogo perché esso illustra a dovere il vasto e trasversale consenso che il nuovo stile politico riuscì a catalizzare e poi a incanalare nel suo progetto d’ampio respiro, denunciando così la patente debolezza di ogni speculazione semplicistica e interessata su termini quali «terrore», «propaganda» e «demagogia» applicati alla prassi politica dei governi nazional-rivoluzionari tra le due guerre. Da tutto ciò, tra l’altro, consegue la rivalutazione dell’immaginario mitico e simbolico che permeò la nuova politica «fascista», il quale non è più visto, pertanto, come mero gusto per la teatralità o – peggio – come mezzo di assoggettamento delle masse, ma piuttosto come «linguaggio» privilegiato per rendere effettiva e tangibile l’unità morale e spirituale della nazione.

Procediamo però con una premessa terminologica. Quando Mosse parla di «nuova politica», egli intende, sostanzialmente, quell’innovativo «stile politico» sorto con la Rivoluzione francese, il quale si sviluppò grazie alla prepotente irruzione delle masse nella storia, della quale esse si presentavano ora come protagoniste. Si tratta, più in particolare, della dirompente ascesa di quella che Jean-Jacques Rousseau definì la «volontà generale», che – in un mondo in cui «Dio è morto» – condusse a poco a poco alla creazione di una religione laica e secolare, e alla nascita di un «culto del popolo per se stesso». Mosse, dunque, analizza l’evoluzione della nuova politica nella Germania ottocentesca per giungere sino al nazionalsocialismo, tracciando determinatamente lo sviluppo di quella ch’egli definisce la «nazionalizzazione delle masse», ossia il progressivo sorgere della mistica nazionale e comunitaria attraverso cui il popolo tedesco creò quella liturgia politica che doveva cementare e inverare la sua unità spirituale.

Di qui l’importanza decisiva del ruolo svolto dai comitati patriottici, dalle confraternite studentesche, dalle associazioni ginniche e corali, dagli architetti neoclassici che – a partire dalle guerre anti-napoleoniche che risvegliarono l’orgoglio germanico – parteciparono attivamente al sostegno di questa euforia nazionalistica e che decisamente concorsero – attraverso i monumenti nazionali, le feste, le cerimonie, ecc. – alla creazione di una tradizione in cui poi si inserì il nazionalsocialismo nel periodo postbellico, allorché la fierezza dei tedeschi era stata messa a dura prova dalla sconfitta nella Grande Guerra e poi sostanzialmente calpestata dalla classe dirigente di Weimar.

Con la pubblicazione del libro, un problema che subito venne posto riguardava la possibilità di applicare i concetti di «nuova politica» e di «nazionalizzazione delle masse» anche all’Italia fascista. De Felice, sia nell’introduzione all’opera mossiana che nella sua celebre Intervista sul fascismo, si affrettò a fornire una risposta negativa, rimarcando anzi eccessivamente la distanza tra fascismo e nazionalsocialismo (arrivando addirittura a parlare di «antitesi») e proponendo la non convincente distinzione tra «totalitarismo di destra» (nazionalsocialismo tedesco) e «totalitarismo di sinistra» (fascismo italiano). Nonostante ciò, fu un allievo dello stesso De Felice a dimostrare l’aderenza del movimento mussoliniano alle pratiche della nuova politica. Mi riferisco, ovviamente, a Emilio Gentile che, nel 1993 e dopo alcuni lavori preparatòri, licenziò la pubblicazione de Il culto del littorio, in cui venivano analizzati i simboli, i miti, la liturgia e i riti della religione laica fondata dal fascismo.

Al di là dell’usuale condanna della nuova politica da parte dei gendarmi del pensiero egualitario, rimane tuttavia un assillante quesito a turbare il sonno degli epigoni di Locke e Montesquieu. Assistendo cioè al fallimento sostanziale (lasciamo perdere i circhi mediatici confezionati ad arte) delle democrazie occidentali nella mobilitazione delle masse e nella loro attiva partecipazione alla vita civile, e nel momento in cui torna in voga l’antipolitica, è possibile riconquistare le masse alla politica? Le rivoluzioni nazionali del Novecento hanno dimostrato che ciò è fattibile, in particolare grazie all’eliminazione di tutti i vari diaframmi che si frappongono tra il popolo e la classe dirigente (partiti, lobbies, parlamenti, ecc.) e stabilendo, pertanto, un più diretto contatto tra governanti e governati. E in ciò riuscirono, soprattutto, ricorrendo all’energia feconda e verace del mito, sfruttando tutta la potenza del linguaggio figurale e simbolico che faceva vibrare all’unisono le anime di tutto un popolo, e rifuggendo quindi dall’algida verbosità discorsiva e razionalistica dei politicanti e degli intellettuali «impegnati».

È dunque possibile, in definitiva, realizzare l’unica vera e autentica «democrazia» nell’èra postmoderna? È oggi possibile realizzare, in altri termini, quella democrazia che Moeller van den Bruck definiva giustamente «la partecipazione di un popolo al proprio destino»? Come si può vedere, nonostante settant’anni di ubriacatura egualitaria e demo-liberale, il problema della partecipazione delle masse alla politica e dell’autocoscienza civile dei popoli è ancora aperto. È ancora, malgrado tutto, la grande sfida del nostro tempo.

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