mercoledì 3 dicembre 2008

La giustizia del lavoro: Socializzazione delle imprese


12 febbraio 1944. Il nuovo governo di Mussolini vara il decreto n. 375, comprendente 46 articoli. Detto così ci parrebbe mera prassi burocratica. Tuttavia il tema del decreto è il seguente: “Sulla socializzazione delle imprese”. Ma che cos’è precisamente la Socializzazione delle Imprese? Le interpretazioni sono state varie, discordanti e talvolta oscure. Eppure ci troviamo di fronte a una svolta epocale in campo economico, una vera RIVOLUZIONE! Una delle più grandi riforme economiche che l’uomo ricordi fu studiata, redatta, promulgata e, soprattutto, applicata da quello che è definito uno Stato-“fantoccio”: la Repubblica Sociale Italiana.

A scuola ci hanno infatti insegnato che la cosiddetta “Repubblica di Salò” era uno pseudo-Stato alla completa mercè dei super-cattivoni nazisti, comandati dal Diavolo in persona (ovvero Hitler). Ma – obiezione! – può uno Stato-“fantoccio” far ritirare la moneta d’occupazione (Reichskredit Kassenscheine), a seguito della sua imposizione da parte dell’Impero del Male (ovvero la Germania nazista giudeicida)? Può ottenere la permanenza in Italia (quella del Nord, ossia quella vera) dell’oro della Banca d’Italia? Può realizzare la Socializzazione delle Imprese, osteggiata tra l’altro dal comando tedesco? Mistero…

Per comprendere a fondo l’enorme portata rivoluzionaria della Socializzazione, è necessario tornare un po’ indietro nel tempo: alla cosiddetta “Rivoluzione industriale”. Per Rivoluzione industriale si intende un processo di evoluzione economica che da un sistema agricolo-artigianale-commerciale porta ad un sistema industriale “moderno”, il quale è caratterizzato dall’uso generalizzato di macchine azionate da energia meccanica e dall’utilizzo di nuove fonti energetiche inanimate (come ad esempio i combustibili fossili). Tale processo avviene gradualmente tra metà ‘700 e metà ‘800. In sostanza, però, cosa accade? La nascente impresa capitalistica dunque, dopo aver soppiantato la tradizionale impresa artigianale, grazie all’ampio impiego di macchinari sempre più numerosi ed efficienti, aveva sovvertito di fatto il rapporto tra il lavoro umano e gli strumenti di lavoro veri e propri.

Nell’oramai antica impresa artigianale era la qualità dell’opera dell’uomo a determinare la qualità del prodotto e della conseguente retribuzione; nella nuova impresa capitalista, invece, era la macchina a conquistare il primato nei confronti del meccanismo produzione/profitto, denobilitanto fattualmente l’uomo a suo accessorio. Inoltre nacque al tempo la famosa “legge bronzea dei salari”: essendo l’opera dell’uomo meno richiesta e, quindi, deprezzata, il deprezzamento doveva colpire necessariamente anche i salari (poi “salari di sussistenza”, ossia il minimo per la sopravvivenza stessa dell’operaio).
L’imprenditore, a sua volta, smetteva di essere il “primo” lavoratore dell’impresa, comunque in rapporto umano con gli operai, e diveniva ora azionista: ossia colui che fornisce capitale.

Che cosa dice, invece, il PRIMO articolo del decreto n. 375/1944? «Alla gestione della impresa SOCIALIZZATA prende parte DIRETTA IL LAVORO». A imperare non è più quindi l’impalpabile e apolide tirannia del capitale, unico e anonimo beneficiario del profitto senza limiti e senza regole, bensì la co-gestione dell’impresa da parte di proprietari/capi (ma presenti e attivi) e operai/lavoratori (finalmente protagonisti).

Ciò vuol dire: Consiglio di Gestione composto per la metà dai rappresentanti degli operai, eletti da quest’ultimi tramite votazione segreta. Imprenditore e lavoratori diventano quindi una comunità che opera di concerto per il bene dell’impresa stessa che essi rappresentano. Sì, proprio perché socializzare vuol dire anzitutto costituire una società; al contrario le società capitalistiche per azioni – contro ciò che comunemente si crede – non sono affatto loro stesse società, ma proprietarie di società, solamente fornitrici di capitali, e quindi avulse dai reali processi di lavoro e produzione.

Ultimo articolo e ultimo punto, certamente il più rivoluzionario: la ripartizione degli Utili e la destinazione delle Eccedenze (un buon marxista avrebbe parlato di “plusvalore”). Leggiamo quindi l’art. 46:

«Gli utili dell'impresa […] verranno ripartiti tra i lavoratori, operai, impiegati tecnici, impiegati amministrativi, in rapporto all'entità delle renumerazioni percepite nel corso dell'anno. Tale ripartizione non potrà superare comunque il 30 per cento del complesso delle retribuzioni nette corrisposte ai lavoratori nel corso dell'esercizio. Le eccedenze saranno destinate ad una cassa di compensazione amministrata dall'Istituto di Gestione e Finanziamento e destinata a scopi di natura sociale e produttiva».

Di fronte a tanta grandezza, ogni altra parola risulterebbe superflua…

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