L'autore, un reduce della
In realtà la conferenza non è stata incentrata sulla spiegazione del libro, ma è stata più il racconto di un breve ma intenso periodo della vita di questo "nonno d'Italia";
di come da giovane abbia compiuto gesta coraggiose, dei suoi 3 incontri con Benito Mussolini, e di come fu trattato dai "partigiani rossi" una volta fatto prigioniero.
Cito alcune parti del libro, che sono una delle tante testimonianze della barbarie di quelli che ancora oggi vengono comunemente chiamati "liberatori".
"[...] Era il 27 aprile dell'anno 1945. Al mattino eravamo uomini, soldati, forti, sani e dotati di personalità e dignità. Alla sera ci ritrovammo ridotti al livello di animali torturati, umiliati, privati di ogni diritto in balia di individui barbari e violenti.[...]
[...] La sete era generale perché anche l'acqua mancava. Un sergente della Divisione Littorio, che aveva subìto particolari violenze a causa della sua divisa, al primo apparire di due partigiani venuti a controllare, chiese dell'acqua ed in cambio ottenne un calcio nella pancia ed una serie di insulti. L'ultima acqua che avevamo bevuto era quella della pioggia che ci era arrivata in bocca il giorno prima.[...]
[...] Nelle prime ore del pomeriggio fummo fatti uscire ed incolonnati, iniziò così la marcia... Lungo la strada giungemmo ad un paese che, mi pare di ricordare, si chiamasse Monleone... Quando, nel tardo pomeriggio, giungemmo sulla costa, ci fecero passare in lunga fila, fra ali di energumeni picchiatori pieni di cieco furore, vere e proprie forche caudine. Pugni, calci, colpi con oggetti vari, le donne con gli zoccoli, sputi, insulti feroci, sassate e legnate nelle gambe. Durò forse mezz'ora quel calvario ma sembrò senza fine. Quando finalmente ci fecero entrare in un campo sportivo finì quell'infernale bolgia.
Circa un'ora più tardi ci fecero ammucchiare in piedi in un angolo e ricevemmo la sgradita visita di una specie di brutta copia di un commissario bolscevico con tanto di giacca di pelle nera e cinturone, pistola alla vita, mitra a tracolla ed immancabile fazzoletto rosso. Con tanta arrogante prosopopea ci comunicò che il giorno successivo saremmo stati processati dal popolo e condannati a morte.
Quel giorno finì con il nostro trasferimento nella soffitta di una scuola senza minimamente avere cibo. [...]
[...] La notte era trascorsa insonne, nessuno era riuscito a dormire in quelle ore che, ora mai certo, erano le ultime che ci restavano da vivere. I pensieri correvano a ricordare i momenti più significativi della mia breve ma intensa vita passata.
Non ricordavo nulla da rimproverarmi o fatti di cui pentirmi. La mia giovinezza era limpida e colma di valori spirituali e di profondo amore per quella Patria che, in quei momenti angosciosi, reputavo ormai finita, preda di traditori, delinquenti e nemici della civiltà. L'unico pensiero che mi portava alla commozione era quello di mia madre e delle mie sorelle. Mi mancava solo la possibilità di riabbracciarle e baciarle per l'ultima volta e poter rivolgere loro le mie ultime parole d'amore. [...]
[...] Venne purtroppo il momento che precedeva la nostra fine.
Eravamo esattamente in 51. Ci fecero uscire in fila indiana con sghignazzate di scherno, insulti e bestemmie.
Una pseudo giuria composta da individui con camicie rosse, fazzoletti rossi, armi in mano o a tracolla, senza minimamente conoscere il nome o menzionare accuse chiedeva solo alla folla il giudizio che invariabilmente era sempre lo stesso, urlato dai presenti. A MORTE! A MORTE!
Questo era ciò che in seguito fu definito "Tribunale del Popolo".
Ricordo che qualche pezzo di tela rossa rettangolare sfilacciata su un lato denotava di essere stata strappata da una bandiera tricolore di cui interessava solo la parte rossa. Povera Italia. La folla presente non poteva rappresentare l'Italia ma solo una piccola parte, sanguinaria e colorata, che però prevaricava e dimostrava, con la violenza e le minacce, la propria appartenenza alla peggiore ideologia politica.
In quei giorni violenti, il popolo buono, il popolo onesto e civile non scendeva in strada per non essere vittima, a sua volta, della furia rossa. [...]
[...] Mi presero in consegna per l'esecuzione due partigiani molto diversi fra loro. Uno giovane, muscoloso, pochi anni oltre i miei diciannove. Dotato di molta prosopopea e volontà di esibirsi come eroe giustizialista, lo chiamavano Tino; l'altro di mezza età, magro, taciturno e con uno sguardo indifferente. Forse anche fra i giustizieri i peggiori avevano preso il sopravvento e la precedenza così, a me, erano rimasti i mediocri. Fui portato verso un angolo della piazza dove il giovane voleva esibire la sua vittima ad alcune ragazze ed amici posando a eroe vincitore ed invitando, chi voleva, a sfogare su di me l'odio verso i fascisti vinti. [...]"
Ecco i liberatori dunque; ecco la giustizia di queste persone. Come gli avvoltoi, i partigiani si scagliarono su quel che restava di soldati che scelsero di non arrendersi, e si auto-innalzarono, cavalcando l'onda della vittoria militare anglo-russo-americana, a vincitori non solo militari, ma morali. Mentendo, hanno preteso, con le loro vigliacche azioni, di dare un arricchimento ideale alla storia; in realtà gli unici ad arricchirsi, e non spiritualmente ma materialmente furono proprio questi "resistenti", come i contratti stipulati tra loro e l' O.S.S. (futura C.I.A.) stanno a testimoniare. Nonostante questi accordi di pura natura economica, comunque, il traditore resta sempre un traditore che, proprio per questa sua natura, non riuscirà a godere della stima nemmeno da parte di chi l'ha comprato; in questo senso le parole trovate sul diario di Eisenhower sono eloquenti:
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