giovedì 24 febbraio 2011

In picchiata su Linate: gli ultimi minuti di vita di Enrico Mattei

Romanzo breve di Filippo Burla




«Una ventina di anni fa ero un buon cacciatore e andavo molto spesso a caccia. Avevo due cani, un bracco tedesco e un setter e, cominciando all'alba e finendo a sera, su e giù per i canaloni, i cani erano stanchissimi. Ritornando a casa dai contadini, la prima cosa che facevamo era da dare da mangiare ai cani e gli veniva dato un catino di zuppa, che forse bastava per cinque. Una volta vidi entrare un piccolo gattino, così magro, affamato, debole. Aveva una gran paura, e si avvicinò piano piano. Guardò ancora i cani, fece un miagolio e appoggiò una zampina al bordo del catino. Il bracco tedesco gli dette un colpo lanciando il gattino a tre o quattro metri, con la spina dorsale rotta. Questo episodio mi fece molta impressione. Ecco, noi siamo stati il gattino, per i primi anni…»

Enrico Mattei, 23 marzo 1961


a Valeria


«Starò via solo oggi, entro sera sarò a casa». Margherita lo fissò. Qualcosa in quelle parole non la convinceva. Non era la prima volta da quando, sposato l’uomo della sua vita, era preoccupata e allo stesso tempo impotente, come il suo sguardo. Questa volta era diverso, un presentimento cupo come mai aveva sentito. Senza i figli che mai avrebbe potuto avere, la perdita del marito avrebbe significato la fine della sua vita. Una vita sempre sulla corda, da quando giovane era una ballerina ad oggi, moglie del più importante dirigente pubblico Italiano, su e giù lungo la penisola, il Mediterraneo e i paesi Arabi a seguito di Enrico e della loro creatura. Costruita con l’amore di una famiglia, adottata a loro discendenza, era l’intera loro vita. Sarebbe stata la loro morte.

Successe una notte, verso fine ottobre.

Il tempo non è dei migliori: burrasca lungo il sentiero di avvicinamento alla pista 36 sinistra dello scalo di Linate, pioggia a dirotto, tuoni e fulmini accompagnano il piccolo ma solido Morane Saulnier MS.760 Paris. Partito dal Fontanarossa di Catania, alle pendici dell’Etna in una mattina soleggiata, sta per fare ritorno ai suoi passeggeri dalle parti di San Donato Milanese. Tra la città e dove poggia la tangenziale sud sorge oggi un palazzo di verdi vetrate e giardini pensili: il nostro informale e malizioso Ministero degli Esteri sottotraccia che già all’epoca si candidava a soppiantare la Farnesina. I tre dell’equipaggio del bireattore sono uno spaccato di vita politica Italiana della metà degli anni ’40: il pilota, pluridecorato al valore durante la guerra e volontario della Repubblica Sociale; il presidente, colonna logistica ed organizzativa di brigate partigiane bianche; il giornalista, Americano.

«India Alfa Papa, Linate. India Alfa Papa, Linate». 27 Ottobre, 1962. Notte. Le parole della torre di controllo si perdono tra le campagne di Bascapè. Il buio della tempesta è squarciato. Per qualche secondo il cielo si illumina, un filare di giovani pioppi si accartoccia e il buio torna in fretta lasciando sotto di sé un relitto e qualche fiamma del comburente rimasto. L’attimo della decompressione dopo l’esplosione e prima dell’impatto si dilata per ore. L’aeromobile, in quell’istante, è ancora integro. Enrico si volta dal finestrino e guarda a sud. Da quell’altezza si vede il Po, come per un attimo la tempesta lascia spazio al sereno della morte. Enrico riconosce una piccola città della campagna piacentina. Capisce che è il momento del commiato. Si lascia scappare una lacrima, prontamente asciugata. Fissa Irnerio e poi William, il giornalista:
«La vedete quella città?».
«Sì…».
Un sospiro misto di serenità e sobria malinconia: «È Cortemaggiore».
Sono ancora in quell’istante che dura per l’eternità. Enrico, Irnerio e William. Il giornalista ascolta, domanda e prende appunti, finanche nella fine fedele al suo lavoro.

«Gli ufficiali dell’anagrafe dicono che sono nato 56 anni fa. Mentono. Pessimi burocrati, la peggio razza. In realtà sono nato 13 anni fa, proprio in quella città che vedete illuminata in questa notte d’autunno».
È un uomo spiccio anche durante quel lungo istante in cui racconta ai compagni dell’ultimo viaggio quella vita che gli sta passando davanti. Burocraticamente sì, era nato 56 anni prima, nel 1906 ad Acqualagna. Marchigiano, come un illustre conterraneo d’inizio secolo: Filippo Corridoni, nato diciannove anni prima a Pausula, poco più di un’ora di macchina dalla città natale di Mattei. Corridoni e Mattei, nati in povertà nella stessa regione e tutti e due vincenti in quel di Milano. Per entrambi una vita densa di tutte le traversie che toccano agli uomini liberi. Diverse le vie, simile la fine per mano straniera. Pressoché identico il fine dei loro percorsi umani. Una parola e il dovere d’ogni uomo, pur declinata dai due in maniera differente: libertà. Azione Sindacale per il primo, Sovranità ed Indipendenza per il secondo. Inattuali, entrambi poco adatti a confrontarsi con il tempo, in assoluto e con quel poco che si sono voluti prendere perché vanno oltre, nella schiera dei grandi che il tempo non potrà insabbiare.

«Non ero uno studente modello. Pochi anni dopo la licenzia media entrai in fabbrica, operaio apprendista. Tempo di compiere vent’anni ed ero già dirigente. “Lasciatemi qualche anno” dicevo a tutti, “e diventerò un industriale”.
Correva l’anno 1936 quando aprii una mia attività. Il settore, vuoi il caso – sorride ironico – la chimica. Poi la guerra, l’Italia devastata dalle bombe alleate. Entrai nella resistenza, da supporto logistico e da diplomatico».
Irnerio Bertuzzi ha uno scatto d’insofferenza quasi impercettibile, traspare dallo sguardo che si ricompone mentre il presidente prosegue nel racconto.
«Non ho mai avuto precise simpatie politiche. Durante il Fascismo ero iscritto al partito e la mia azienda riforniva pure l’esercito. Ho sempre cercato di valutare le situazioni e volgere le decisioni di modo che mi potessero favorire in prospettiva. A questo si deve il mio appoggio alla resistenza e l’iscrizione al Partito Popolare prima e alla Democrazia Cristiana poi».
McHale fa una faccia stranita.
«Non mi guardi così. Non sono un puro, né un idealista come mi vogliono far passare i giornalai che mi prendono per un pericoloso eretico confondendo le parole. Sono eretico e per questo aldilà delle strette contingenze. In questo mondo, anzi in qualsiasi mondo, riservo la purezza solo agli eremiti e a chi vive fuori dalla realtà. Sono stato sempre un avventuriero a cui dopo la guerra venne affidato qualcosa che intuivo potesse realmente raggiungere gli obiettivi che si era dato chi aveva deciso per la sua fondazione durante il Fascismo, nel 1926».

«L’Azienda Generale Italiana Petroli».
«Esattamente. Mi chiesero di prenderne il comando per smantellarla. Ero dubbioso, tanto che, parlando sia con De Gasperi che con mia moglie, le dissi che non s’era mai visto che io potessi chiudere un’azienda. Io le aziende le apro o, meglio, le sviluppo. Mi parlavano dell’Agip come di un carrozzone strapieno solo di debiti e allo stesso tempo offrivano milioni a centinaia per rilevarla. Era un carrozzone in perenne astio con la più banale contabilità ma c’era qualcosa sotto: sotto l’Agip, sotto le concessioni, sotto la Val Padana. Riassunsi i tecnici dell’Agip Fascista, garantii i debiti con la mia fabbrica e le mie proprietà, elaborai un progetto e lo presentai al presidente De Gasperi, al quale riuscii a strappare qualche tempo prima della vendita per cercare di cavarne fuori qualcosa».
«A chi doveva essere venduta l’Agip?».
«Svenduta, prego. A chi secondo lei? A voi Americani. L’Italia era un paese dilaniato. Le bombe che l’avevano ridotta a un cumulo di macerie erano vostre e pretendevate anche di toglierci quel che ero convinto potesse essere uno dei mezzi per la ricostruzione post-bellica. Non mi pareva un’operazione giusta, al contrario: era qualcosa di indecente. Già allora era ovvio che lo sviluppo di una Nazione non avrebbe potuto prescindere dal petrolio e dalle fonti energetiche (*).  Togliendole dalle mani dello Stato, l’Italia si sarebbe da sé condannata ad una situazione di dipendenza dall’estero. Inaccettabile».
«Dice che non ha mai avuto convinzioni politiche, eppure queste vi rassomigliano molto».
«Le mie sono concezioni che vanno aldilà della politica. Sovranità, Indipendenza, possibilità di determinare da soli il proprio futuro sono doveri e diritti di qualsiasi nazione. Sono obiettivi che ogni governo, in qualsiasi sistema, dovrebbe avere come punto focale nella propria attività. Lo riconosco al Fascismo, meno ai governi del dopoguerra anche se lodevoli eccezioni sono davanti agli occhi di tutti».
«Oso troppo se le chiedo di fare un nome?».
«Fanfani: ha sempre difeso il mio operato. Lo capii quando incrociai il suo sguardo, a metanopoli, l’anno scorso qualche istante dopo aver pronunciato il discorso in cui si schierava a difesa dell’Eni, “all’interno e all’estero”».

Dalla cabina sospesa nel vuoto i tre scorgono ancora Cortemaggiore.
«Prima vi ho indicato quella città perché è nato tutto lì. Era il 1949. Il petrolio, in Italia? Non ci credeva nessuno. E facevano bene a non crederci, avevamo trovato niente più che una pozzanghera, ma non ditelo a nessuno! (ride, Enrico). All’Italia, più che idrocarburi serviva la fiducia per ripartire. La scoperta è stata una droga che sono riuscito a gestire con una di quelle operazioni che i santoni chiamano marketing. Si era nel periodo della ricostruzione, si perforavano le montagne per costruire importanti arterie di comunicazione e si diffondevano le prime automobili su larga scala. Sapevamo costruirle, non aveva senso non saper raffinare la benzina. Ecco allora la SuperCortemaggiore, “la potente benzina Italiana”, ecco le aree di servizio con hotel e servizi, una novità assoluta nel panorama dell’epoca. Insieme al petrolio, poi, il gas. Ricostruire era la parola d’ordine, le industrie avevano bisogno di energia».

«Poteva bastare l’energia a smuovere la fiducia?».
«No, serviva anche lavoro. Nel corso degli anni abbiamo dato occupazione a milioni di persone tra Eni, l’indotto e tutte le aziende che ripartirono o aprirono ex novo grazie all’energia di cui potevano disporre, senza razionamenti e senza rubinetti chiusi a discrezione di qualche grassoccio amministratore delegato con la poltrona ben salda di là dell’Atlantico. Prenda ad esempio la Sicilia, dove siamo appena stati. Chi mai sarebbe andato sull’isola a trivellare? L’abbiamo fatto, abbiamo trovato petrolio e gas e ora programmiamo non meno di diecimila assunzioni. Diecimila, si rende conto? Pozzi, una raffineria che progettiamo la più grande d’Europa e progetti di sviluppo ben aldilà dell’esaurimento delle vene del sottosuolo».
«In molti criticarono il suo approccio all’oro blu».
«Mi dicevano che era una risorsa inutile. Io mi limitavo al primo termine: risorsa, quindi strumento. Non ho ascoltato divagazioni accademiche, giostrai politici, veleni di chi non ha mai messo piede in un sito di estrazione, e l’ho usato e indirizzato agli scopi che mi prefiggevo. Avevamo quello, nessuna altra scelta. L’abbiamo fatto diventare il nostro petrolio. Necessità virtù, e ora ci ritroviamo con una invidiabile rete di gasdotti, che siamo in grado di riempire di materia prima e che sostiene il nostro sviluppo, garantendo energia a prezzi accessibili. In questo modo le industrie, che sarebbero dovute andare alla ricerca di fonti alternative o comunque non nostre ad alto prezzo, possono invece veicolate le proprie risorse in altri investimenti».

«Mi pare un po’ forzata come interpretazione. Fa a pugni con la teoria economica».
«La teoria economica può stare sui libri. Io studio sul campo, lungo le strade, nelle case di chi deve ancora andare nei boschi a far legna per scaldarsi e nei capannoni dove stanno i lavoratori Italiani che nel primissimo dopoguerra potevano lavorare solo qualche ora al giorno, causa il razionamento deciso dal comando alleato. Mi chiedono energia, che posso dirgli? Che non abbiamo petrolio e dobbiamo andarlo a comprare da chi fissa il prezzo sulla base di quel che gli passa per la testa in quel momento? Questo non sta scritto sui manuali universitari, eppure blocca opportunità di sviluppo».

«Dicono che i suoi metodi di posa della rete non sempre furono metodi ortodossi».
«Dicono bene. Per una posa avrei dovuto attendere anni tra consigli comunali retrogradi incapaci di capire il minimo esistenziale, valutazioni d’impatto fatte sul nulla spinto, autorizzazioni che sarebbero arrivate con il contagocce, prefetti impegnati in cercarsi uno spazio personale tra le pieghe della nuova Italia e così via. Hai parlato con Boldrini?»
«Il suo vice? No, perché?».
«Quando sente la parola “gasdotti” gli si illuminano gli occhi come un bambino davanti alla marmellata di prugne, e pensa sempre alle nostre bravate. Ti avrebbe raccontato di quando una notte, a Cremona, perforammo la città per stendere le nostre tubature. Nostre, poi… Siamo un’azienda di Stato e lavoriamo per la Nazione. Il giorno dopo si presentò trafelato il sindaco chiedendo spiegazioni. Io, faccia di bronzo, gli dissi che pensavo fossimo in regola con le autorizzazioni e che potessimo lavorare senza problemi. Si mise a urlare, che non era assolutamente vero e che stavo bluffando. Aveva ragione, ma fui bravo a nasconderlo. Gli dissi che avrei dato ordine di sospendere i lavori. Sospendere, s’intende, lasciando la città sventrata. Una bestemmia e via, mi intimò di finire in fretta quel che stavamo facendo e andarcene il prima possibile. Obiettivo raggiunto! L’azione è rimasta nella storia. Ho perso il conto di queste scene, ho perso il conto di quante denunce sono arrivate a me e all’Eni per lavori in clandestinità, ho perso il conto delle ordinanze violate. Ottomila? Forse anche di più. È stato divertente. Era giusto farlo».

Bertuzzi interrompe il dialogo: «Fossi stato in lei, avrei fatto lo stesso».

«Siamo uomini liberi, Irnerio. Ragioniamo senza fardelli. Centinaia e centinaia di chilometri di tubature lungo tutta la penisola, lasciando burocrati di quartiere davanti al fatto compiuto. L’azione ha sempre ragione, più di contratti, consigli di amministrazione, giunte comunali e uffici tecnici». Il sorriso smagliante e affabulatore la dice lunga sulle sue doti nel trattare e nel convincere con la meglio dialettica, uomo attraente e affascinante, misterioso allo stesso tempo per quanto in nove su dieci non erano in grado di capire quale fosse il suo obiettivo, incomprensibile ai più ma degno della più alta considerazione.

Continua per concludersi...

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(*) Aveva ragione. Precursore dei tempi di almeno 50 anni. Solo nel 2009 è infatti uscito uno studio, pubblicato dal fisico Tim Garrett, che indica una costante tra crescita e disponibilità di energia a 9.7: occorrono 9,7 milliwatts per produrre un valore economico pari a un dollaro del 1990 depurato dall’inflazione. Crescita, la base di qualsiasi processo di sviluppo, ed energia, due variabili inscindibili.

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