martedì 28 aprile 2009

Cos’è stato il ‘68?




Lunedì 20 aprile 2009. Circolo futurista Casal Bertone. Si è tenuta una conferenza per presentare il nuovo libro di Mario Michele Merlino: E venne valle Giulia. Un ragazzaccio in camicia nera racconta.

La conferenza, che ha visto come relatori un ispirato Ugo Maria Tassinari, Adriano Scianca, Gabriele Adinolfi e, ovviamente, l’autore del libro Mario M. Merlino (in foto), appare fin dall’inizio un insieme di considerazioni sul 68 in un’ottica tutt’altro che meramente storica, ma a spiccare maggiormente è stato il lato analitico in quanto ognuno ha dato un proprio senso e una propria interpretazione di ciò che il fenomeno in questione ha rappresentato: scintille di rivoluzione, risveglio pagano, ricerca e scoperta del sesso come risposta/reazione ai puritani moralismi imperanti nella repubblica della D.C. Epoque, metafora di una bellezza precocemente appassita, fallimento annunciato, fine di qualcosa più che punto di inizio.

Entrando più nello specifico, inizio la mia trattazione usando le parole che Merlino ha utilizzato nel suo libro: cosa fu il ‘68? Fu «[...] quella generazione che visse, un po’ stonata e con qualche sgrammaticatura di eccesso, la poesia del XX secolo, a cui, nonostante tutto, è rimasta fedele... in quei giorni i ragazzi scoprirono la gioia di ridere. Anche questa, dono inaspettato, frattura con insulse e mediocri interpretazioni d’un Fascismo cupo e funereo».
Scegliendo Brasillach come guida (anche se l’autore lo considera più come un fratello), Merlino vede il ‘68 come lunione della rivolta generazionale con la volontà politica aldilà delle ideologie. Segno particolare è il sorriso, sorriso che illumina una moltitudine di giovani volti; sorriso che nasce come spontanea risposta alla fatidica domanda che tutti noi ci siamo posti, che tutti noi ci porremo: cosa faremo da grandi? È questo, secondo me, il senso, fortemente estetico, che Merlino vuol dare al suo personale racconto. Le proteste giovanili divengono la caratterizzazione della bellezza: sono i sorrisi, è la gioventù, è la volontà creatrice che, unitisi alla speranza che “da grande farò” quello per cui oggi mi sono battuto, hanno fatto vivere quei 15 giorni di marzo. Il bello come forza vitale dunque, il sorriso come volontà di costruire un futuro che da quello stesso sorriso tragga radiosità, la gioventù come caratteristica dell’aggregazione sono però tutte metafore che nel giro di due anni perderanno la loro forza fino a scomparire. L’appassimento di questa bellezza coinciderà col radicalizzarsi delle ideologie politiche. Dopo il 16 marzo – data simbolo della spaccatura del movimento e conseguente fine dell’unione generazionale dovuta all’attacco perpetrato dalle forze reazionarie del M.S.I. guidate da Almirante e Caradonna contro gli studenti nella facoltà di Lettere – i volti dei ragazzi, fino ad allora così felici nella consapevolezza di perseguire una battaglia comune che andava oltre i confini sanciti dall’ideologia, divennero via via più spenti. L’unica rivoluzione che si compì fu quella che vide il trionfare delle logiche di una politica che di lì a poco portò all’estremizzazione delle divisioni destra/sinistra i cui esiti, purtroppo, conosciamo tutti. L’unione generazionale, così compatta nel combattere i simboli di un sistema nel quale non si riconosceva in quel 1° marzo 1968, nell’avvenimento che prenderà il nome di “battaglia di valle Giulia”, si sgretolò e nel giro di due anni gettò quella stessa generazione e quella successiva nella stagione grigio piombo dove «la spranga fu sostituita dalla p-38».

Osservando il ‘68 da questa angolazione, risulta più corretto percepire tale fenomeno come “fine di qualcosa” e, in questo senso, l’intervento di Gabriele Adinolfi è chiarissimo: la data che segnò il ‘68 come fine fu, ancora, quel 16 marzo di cui sopra. Da li in poi, infatti, il movimento fu guidato dai partiti politici che fino ad allora erano stati, per volontà degli stessi manifestanti, messi ai margini della protesta. Quello che fu un risveglio pagano caratterizzato dal rifiuto del moralismo di puritani, stalinisti e clericali, e dal tentativo di «unire la pelle col sole» fallisce. Il movimento si spaccò in tante particelle e gruppuscoli («chiesette» le ha definite Adinolfi), inserendosi in una situazione che fece ripiombare l’Italia in una sorta di guerra civile che gettò nel ghetto le realtà politiche che tale guerra intrapresero.

Per concludere riporto l’intervento di Ugo M. Tassinari.
Dopo aver confermato che lo spirito del ‘68 fu quello dell’aggregazione generazionale aldilà delle ideologie, Tassinari ha raccontato che in quel periodo ci fu un’apertura degli uni verso gli altri, apertura testimoniata dal fatto che culture di destra e sinistra si influenzarono a vicenda. Lui stesso ammette, per esempio, che nel movimento operaista veniva letto ed apprezzato Carl Schmitt, o che i film di Sam Peckinpah, considerato da Tassinari un anarco-fascista, esaltavano ed appassionavano i “compagni”. Anche sul versante-destra avvenne lo stesso tipo di apertura: Jack Kerouac e lo stile di vita on the road diviene fonte di ispirazione per parte dei ragazzi di destra, Merlino in primis; e lo stesso dicasi per il taglio dei capelli, per la lunghezza della barba e per l’indossare l’eskimo.
Ma ciò che realmente si ricercava dalla contestazione del ‘68 era, per Tassinari, la totale libertà sessuale, tant’è vero che finirà per dire che sì, il ‘68 è stato tutto sommato un bel periodo, ma lui ha preferito di gran lunga il 69... :-)

Condividi

Nessun commento:

Posta un commento