Nell’immediato dopoguerra, quando il mondo comincia ad assumere l’assetto deciso a Jalta dai cosiddetti “grandi” (Roosevelt, Stalin e il proclamatore dell’inizio delle belligeranze, Churchill) i principali modelli di democrazia diventano quello occidentale, di stampo parlamentare, e quello popolare, proprio dei regimi ad est della cortina di ferro.
Ovviamente i rappresentanti dei due modelli rivendicano ognuno la legittimità del definirsi “democratico”.
Le democrazie occidentaliI paesi cosiddetti
occidentali, sotto la
leadership militare, economica e politica degli
Usa, sono tutti fautori di quelle che comunemente vengono definite democrazie
parlamentari. Questi paesi ponevano e pongono tutt’ora come concetto cardine della loro democrazia le
libertà individuali e la loro difesa in tutti i campi. In questa concezione la massima espressione di libertà è il
voto per decidere i propri
rappresentanti in parlamento e negli organi di governo territoriale.

Tuttavia il principio fondante di quella che dovrebbe essere una democrazia nel vero senso della parola, ossia “governo del popolo”, viene del tutto a mancare: la partecipazione stessa del popolo al governo e alla vita politica. La partecipazione attiva dei cittadini alla sfera politica nasce e si esaurisce all’interno delle urne nella scelta dei rappresentanti. Da quel momento in poi quella che dovrebbe essere
res publica torna di fatto ad essere
sfera privata degli eletti a “
rappresentanti del popolo”. Se si va ad analizzare a fondo la realtà concreta, infatti, è evidente che solo una piccolissima percentuale della popolazione ha a che fare con la gestione effettiva della politica, e si prospetta una visione che sembra sempre più quella di una
oligarchia, piuttosto che quella di una democrazia – visione che diviene sempre più accentuata man mano che i cosiddetti rappresentanti diventano sempre più legati alle
lobbies economico-finanziarie.
Altro fattore che faceva degli Stati occidentali delle democrazie solo a parole è il fatto che (altro cardine del mondo occidentale) a vincere sia la cosiddetta
maggioranza.
Nei paesi con una moltitudine di partiti nella scena politica, questo, di fatto, sta a significare che al governo, tranne in casi eccezionali, non vada affatto la rappresentanza della maggioranza dei cittadini, ma semplicemente i
rappresentanti della minoranza più grande. Nei paesi a
sistema proporzionale è poi necessario che queste “grandi minoranze” debbano allearsi con partiti teoricamente più vicini ideologicamente per raggiungere e mantenere il governo. Questo crea altri scenari paradossali con partiti che di fatto sono rappresentanti di una minima parte di cittadinanza che hanno il potere di ricatto politico verso i più grandi, e che possono in questo modo andare al governo a discapito di partiti ben più rappresentativi che si trovano però fuori dalla coalizione vincente.
L’unico caso in cui ad andare al governo è effettivamente la maggioranza, ossia chi si accaparra almeno un voto in più del 50% dei votanti, è quello dei
sistemi bipolari in cui di fatto sono presenti solo due partiti ma, fuori dagli
Usa, un terzo conta sempre qualcosa, come accade in Germania o Inghilterra. Ma anche qui il paradosso è enorme, in quanto
la totalità della popolazione deve per forza riconoscersi in uno dei due schieramenti.
In tutti i casi, comunque, chi raggiunge la cosiddetta maggioranza, sia essa relativa o assoluta, lascia di fatto
esclusa dal governo una fetta enorme della popolazione, rendendo il termine “governo del popolo” del tutto
inadatto a descrivere il sistema di governo occidentale.
Le democrazie popolariParadossalmente gli Stati che durante la guerra fredda si avvicinavano di più al concetto vero di democrazia erano proprio gli Stati sotto
influenza sovietica, i quali avevano dalla loro le cosiddette
democrazie popolari.

Facendo propria la considerazione di
J. J. Rousseau (1712 – 1778), secondo cui la volontà di tutti (
volonté générale) non coincide affatto con la somma delle singole volontà, queste democrazie cercarono di scardinare il sistema atomista, secondo cui ognuno deve promuovere i propri interessi a discapito di quelli dell’avversario sperando di andare al governo (o di esservi rappresentato) per veder così attuato il proprio programma personale o quello della propria fazione. Promossero pertanto un sistema che vedeva tutta la popolazione rappresentata da un
unico partito: quello
comunista.
In quest’ottica si cercò di reintrodurre il concetto di
partecipazione attiva della popolazione alla politica, rendendo
obbligatoria l’iscrizione al partito, vietando il più possibile la proprietà privata e rendendo, di conseguenza,
tutto proprietà dello Stato, facendo sì che ogni lavoratore e ogni fabbrica lavorassero solo ed unicamente per il partito, in un’ottica che vedeva l’
economia del tutto assoggettata al volere degli alti gradi del
polit bureau che rappresentavano l’intera collettività.
Sebbene però questo sistema fosse, dal punto di vista teorico, più vicino al concetto di “governo del popolo” rispetto alla controparte occidentale, di fatto anche qui il popolo era del tutto
estraneo non solo alle decisioni ma anche ai vantaggi del proprio lavoro. Essendo praticamente annullata la sfera individuale a discapito di quella collettiva, la politica economica attuata tramite i cosiddetti “piani quinquennali” non era affatto finalizzata al benessere economico e sociale dei lavoratori, ma piuttosto al benessere – appunto – dell’intera collettività, che – di fatto – era rappresentata dal partito e dallo Stato.
I paradossi dei due mondi
Abbiamo già visto il paradosso secondo cui sarebbe stato più corretto chiamare democrazie quelle popolari piuttosto che quelle occidentali.
Ma ci sono altri e ben più grandi paradossi nei due sistemi.
Nell’ottica sovietica appena trattata, secondo la quale l’individuo è annullato nella collettività, il lavoratore diventa un ingranaggio per il benessere dello Stato e non per se stesso, facendo un lavoro di cui non vedrà mai personalmente i frutti, economici o politici, andando a ricostruire esattamente lo scenario criticato dallo stesso
Marx, e facendo dell’economia dei paesi sovietici praticamente un
capitalismo di Stato.
Ma il paradosso più grande forse riguarda proprio il mondo occidentale. La volontà esplicita di liberare l’economia e la finanza dal controllo dello Stato favorì non solo l’
assoggettarsi delle politiche nazionali alle logiche di mercato, ma soprattutto favorì la creazione e il proliferare di una
classe finanziaria internazionale che cercò e riuscì a gestire le politiche nazionali per i propri fini. Questo fece sì che
lobbies sovra e inter-nazionali potessero controllare i governi, e che Stati con assai poca sovranità nazionale potessero essere governati di fatto da rappresentanti di
aziende o multinazionali straniere. A conti fatti, il mondo occidentale risultò quindi attuare perfettamente il concetto di
internazionalismo che il comunismo russo invece aveva abbandonato fin dai tempi in cui
Stalin estromise a picconate
Trotsky, attuando invece un gigantesco
nazionalismo al servizio della
Grande Russia.
Il terrore come mezzo di auto-sostentamento dei due modelliIl clima di
guerra fredda che iniziò fin dalla fine della guerra mondiale di certo aiutò il consolidarsi dei due modelli, che furono comunque contrastati per una ventina d’anni dai paesi non-allineati, i quali facevano riferimento a
leaders popolari e nazionali come l’egiziano
Nasser e l’argentino
Perón.

A est della cortina di ferro qualunque contatto con il mondo occidentale era vietato o fortemente “sconsigliato” per la difesa dell’utopia sovietica. Qualunque corrente non conforme a quella dominante di volta in volta nel
politburo di Mosca era purgata con
esecuzioni od
omicidi politici, tacciata d’essere “
reazionaria” o comunque “
nemica del popolo”. Qualunque tentativo di indipendenza dall’influenza moscovita, o qualunque tentativo di riforma della classe politica anche solo verso il socialismo o la socialdemocrazia, era
repressa nel sangue, come nei casi ben noti di
Praga,
Budapest o in
Polonia.
Ma anche in Occidente si fece largo uso del terrore per mantenere lo
status quo deciso a Jalta. Con il
piano Marshall – di fatto – tutti i paesi europei divennero talmente legati alla politica statunitense, tanto da divenirne praticamente
schiavi. Il quotidiano timore per l’imminente scoppio del conflitto nucleare costrinse gli Stati occidentali a fare quadrato dietro agli Usa, e ciò impedì di fatto qualunque forma di ricerca (o di ritorno) di una
terza via, tanto politica quanto economica.

Non è un caso poi che le nazioni in cui si permise di avere fortissimi partiti comunisti fossero proprio i paesi più pericolosi per l’ottica che voleva l’Europa assoggettata politicamente ed economicamente: tolte la Germania divisa e l’Inghilterra, che si era già demolita con Churchill fin dagli anni ‘30, si permise ai partiti comunisti di divenire potentissimi in
Italia, chiave del mediterraneo e a cui si doveva impedire di tornare ad avere una politica da protagonista, e in
Francia, dove una tradizione di
grandeur e di senso dello Stato poteva intaccare quel senso di internazionalismo anti-Stato. Di fatto questa politica riuscì solo in Italia, in cui il
PCI e i suoi alleati riuscirono ad abbattere tanto l’
auto-sostentamento militare che quello
energetico con la battaglia antinucleare e con la guerra ai sostenitori della politica mediterranea e filo-araba (si pensi al delitto
Moro, alla guerra a
Craxi e alla collusione tanto di dirigenti che di terroristi rossi con
lobbies israeliane come
Terracini,
Bertoli,
Israel “
il rosso”, ecc.).
Gli stessi Usa, paladini della libertà, usarono l’arma del terrore durante l’epoca
McCarthy e
soffocarono nel sangue i tentativi di liberazione dalla loro influenza dai paesi dell’
America Latina.
Di fatto il clima di continua tensione, certamente aiutato dall’
impotenza politica dell’
Onu che prevedeva diritto di veto tanto dagli Usa che dai sovietici, non fece altro che aiutare i due grandi colossi a reggersi in piedi nel dominio delle rispettive sfere d’influenza. Tensione che i due colossi fecero ben attenzione a non far mai esplodere e far andare fuori controllo, come dimostrano il sospetto assassinio del presidente
Kennedy e il contemporaneo improvviso
golpe contro il presidente
Kruscev, proprio i due uomini politici che rischiarono di dar inizio alla guerra nell’episodio della crisi missilistica di
Cuba.