martedì 17 marzo 2009

Platone: l’alfiere anti-democratico




«È naturale quindi – continuai – che la tirannide non si formi da altra costituzione che la democrazia; cioè, a mio avviso, dalla somma libertà viene la schiavitù maggiore e più feroce»

(Platone, Repubblica, 564 a)


Siamo nell’Atene del IV secolo a.C., un periodo di grandi trasformazioni sociali e politiche, caratterizzato dall’individualismo e il relativismo gnoseologico dei sofisti, dalla sfrenata licenza di poter dire e di poter pensare qualsiasi cosa si voglia. E ancora dalla fine della democrazia periclea, dall’instaurarsi del regime oligarchico dei Trenta Tiranni, e di nuovo dalla restaurazione della democrazia, molto diversa dalla precedente e soprattutto colpevole dei più alti crimini, primo fra tutti quello di aver condannato a morte Socrate, l’uomo giusto per eccellenza, il prototipo del filosofo, l’incarnazione del Bene e della Giustizia.

È in questo periodo che opera Platone (427 – 347 a.C.), ed è da questi grandi cambiamenti che prende forma la sua ricerca filosofica. Ma soprattutto è dalla condanna e la conseguente morte del maestro che comincia la riflessione politica sulla situazione di Atene: se il governo di una città poteva commettere il più grave dei crimini, ossia condannare a morte Socrate, era chiaro che la civiltà e la prosperità esteriore della democrazia ateniese nascondevano al loro interno una malattia morale che solo la riflessione filosofica può guarire.

Platone si scaglia contro ogni tipo di individualismo e a favore del giusto reinserimento dell’individuo nella polis, della parte nel tutto. Nella filosofia platonica l’individuo viene presentato come un uomo composto da tre esseri: un mostro a più teste, un leone e un uomo. I tre esseri corrispondono alle tre componenti dell’anima di ciascuno e alle tre classi della polis ordinata secondo giustizia, in modo tale che ciascuno, inserito in una delle tre classi, possa esercitare quel compito a cui la natura l’ha meglio indirizzato. La componente più bassa dell’anima è quella desiderativa (epithymetikòn), che spinge alla soddisfazione dei desideri e al possesso dei beni strumentali. Se essa prevale nel singolo, costui apparterrà alla classe bronzea dei lavoratori, la cui virtù specifica è la temperanza, in quanto questa classe è l’unica a cui è concessa la proprietà privata. Questa classe non può partecipare al governo della polis, in quanto è interessata all’accrescimento dei propri beni.

La componente intermedia è quella animosa (thymoeidès), che volge all’impegno costante per il perseguimento di stabili obiettivi, al di là del piacere momentaneo. Se essa prevale, il singolo apparterrà alla classe argentea dei guerrieri custodi che provvedono alla difesa armata della città. La virtù che li caratterizza è il coraggio. Ad essi non è concesso avere né possessi privati né famiglia propria. Ciò corrisponde all’intento platonico di una separazione tra potere e ricchezza, la quale impedisce atteggiamenti competitivi ed egoistici a discapito dell’unità del “tutto armonico” della polis.
L’ultima componente dell’anima è quella razionale-intellettuale (loghistikòn), che è in grado, elevandosi al di là dell’opinione e passando attraverso la Scienza, di arrivare a cogliere le “idee” e le loro relazioni. Se essa prevale nel singolo, questo apparterrà alla classe aurea dei custodi governanti (àrchontes), ovvero i filosofi. La virtù propria di questa classe è la sapienza (sophìa).

Da questa breve descrizione del pensiero politico-filosofico di Platone possiamo facilmente dedurre che esso sia caratterizzato da una sottile ed incisiva critica alla democrazia, alla sua pretesa di universalità, alla stessa antropologia su cui essa si fonda. Il suo, dunque, è un pensiero anti-egualitario, anti-individualista, ferocemente collettivista, in una parola anti-democratico. La democrazia, infatti, si richiama fondamentalmente a due princìpi: libertà e uguaglianza. Platone respinge entrambi questi princìpi, mostrandone l’intrinseca problematicità. A proposito della libertà, egli osserva che essa è destinata ad autonegarsi e a sfociare nel suo opposto, la tirannide, come lo stesso Platone afferma nella Repubblica: «Un’eccessiva libertà si trasforma in un’eccessiva schiavitù, nella vita privata come in quella pubblica. Dunque la tirannide non si insedia a partire da nessun’altra costituzione se non dalla democrazia; dall’estrema libertà deriva la schiavitù maggiore e più selvaggia» (Rp. 564 a). Inoltre l’unica vera forma di libertà, alla quale possono accedere gli individui nei quali dominano le istanze irrazionali, risiede nell’accettazione del comando di coloro in cui la ragione esercita il predominio. Meglio essere governati dalla ragione che appartiene ad un altro, piuttosto che dagli istinti irrazionali che risiedono nella propria anima.

Per quanto riguarda l’uguaglianza, egli nega che essa sia un dato acquisito sul piano morale, antropologico e intellettuale: gli uomini non sono affatto uguali. Considera poi l’uguaglianza non il punto di partenza, ma l’obiettivo di una società giusta.
La prassi democratica, la quale prevede che le decisioni siano prese a maggioranza all’interno dell’Assemblea e che molte cariche siano assegnate per sorteggio, nega il principio di competenza e la connessione, indispensabile per Platone, tra Potere e Sapere. Egli ritiene invece che la maggioranza degli individui non possegga né il grado di competenza, né il livello di consapevolezza, e neppure l’attitudine etico-morale per contribuire al governo della città. Per il filosofo la politica, almeno per quanto concerne la necessità di possedere una competenza disciplinare specifica, non differisce da una qualsiasi altra tecnica, come lo stesso Platone afferma nel Gorgia attraverso l’analogia tra la politica e la medicina: come questa, infatti, la politica comporta il possesso di un sapere oggettivo e controllabile, richiede un sapere e una competenza specialistica e per questo non può essere affidata all’arbitrio dei più, i quali posseggono solo una dotazione minimale di tale competenza. Solo un numero esiguo di individui è in grado di esercitare un pieno controllo della ragione sulle istanze razionali della propria anima. Ciò significa che gli uomini non sono affatto tutti uguali, perché la maggior parte è influenzabile dagli appetiti e dalle passioni.

È importante specificare che gli argomenti platonici contro la democrazia assumono connotati antropologici, e per questo assumono una validità universale, ossia non si riferiscono solamente alla democrazia esistente ad Atene. Platone non critica solo questo o quel meccanismo istituzionale in vigore nella città democratica, ma soprattutto l’uomo democratico, i suoi valori, i princìpi stessi sui quali si fonda la democrazia. È per questo che la critica platonica può essere estesa ad ogni forma democratica, dunque anche a quella attuale.

La presunta presenza nelle opere tarde di Platone di una revisione del giudizio sulla democrazia non sembra efficace, infine, se si considera che la collocazione mediana della democrazia nella gerarchia delle forme di governo esposta nel Politico non dipende dalla presenza, nella costituzione democratica, di elementi positivi, ma dalla semplice constatazione che la democrazia e l’uomo democratico hanno una sorta di mediocrità che li rende incapaci di realizzare in forma estrema tanto il Bene quanto il Male. Inoltre la costituzione delle Leggi, anche se considerata “mista” (di elementi monarchici e democratici), è in realtà aristocratica, in quanto si fonda sull’obbedienza alle leggi, espressione del sapere e dell’intelligenza. Elementi del tutto estranei alla democrazia.

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10 commenti:

  1. Bellissimo il post su Platone, l'ho messo sul mio blog www.alessio-nello.blogspot.com. I vostri articoli sono veramente utili a che pensa che la politica debba esser aiutata e sostenuta dalla cultura.
    Complimenti e auguri
    Nello Alessio

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  2. Scua ma non comprendo...

    ferocemente collettivista Platone?

    anti-individualista Platone?

    In altri termini (non rigorosi )invece, proprio per il fatto che ognuno sararebbe là dove dovrebbe, ci sarebbe un vero individualismo e proprio perché così gerarchizzata la Civiltà dispone l'essere comunità, più che l'essere collettività, quest'ultima egualitaria per forza di cose.


    saluti

    D.

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  3. Ferocemente collettivista Platone? Sì, la proprietà privata, ad eccezione della classe dei lavoratori, è abolita. Per questo si è parlato e ancora si parla di "Comunismo platonico". Platone voleva addirittura mettere in comune le donne e i figli. Più collettivista di così...

    Anti-individualista Platone? Assolutamente sì. L'individuo raggiunge la propria perfetta affermazione all'interno delle gerarchie della polis (che non sono però statiche), alla quale è subordinato, e nella quale si armonizza.

    I tuoi termini sono in effetti "non rigorosi", e si trovano in contrasto con tutti gli studi scientifici su Platone. Definire egualitarista Platone, poi, è quasi una bestemmia... :)

    Saluti

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  4. In effetti Platone non è ne individualista ne collettivista_ due termini questi, peraltro totalmente desunti dalla moderna terminologia storiografica_ sarebbe molto più semplice, per sottolineare l'anti-individualismo platonico, rimarcare il carattere Organico del suo pensiero. Molto utile sarebbe per i partecipanti a questo blog approfondire quello che, dal punto di vista Tradizionale, si intende per visione Organica dello Stato e della Comunità Politica. Ad esempio letture del tipo: Rivolta contro il Moderno di Julius Evole oppure Il regno della Quantità ed il segno dei Tempi di Renè Guenon, faciliterebbero lo scambio di opinioni e l'approfondimentosu questi temi.

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  5. Sì, anonimo. hai ragione, la terminologia non è proprio esatta in quanto di "sapore" moderno. Tuttavia a volte è necessario semplificare, visto che ci rivolgiamo a un pubblico, nonostante tutto, abbastanza eterogeneo.
    Sicuramente avremo modo di parlare di Evola e Guenon e, perché no?, anche di Freda e delle sue teorie su Platone. Il blog è ancora giovane, la strada ancora lunga, le tematiche sterminate... :)

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  6. bello, semplice, scorrevole...

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  7. Io scirvo che, per forza di cose, ciò che è collettivo è ugualitario.
    Se non c'è proprietà privata, ma proprietà collettiva, lì c'è schiavismo ed oppressione.
    Comunità è diverso da collettività.

    Per questo sottolineo che Platone sia super individualista e super comunistarista.

    Se ogni individuo è nel posto in cui deve, che è per forza di cose il posto che vuole e desidera, questo è realizzare un individualismo a giovamento dell'individuo, ed al contempo è agevolare la comunità, rimanendo alle leggi della comunità.
    Ma queste leggi non sono né leggi umane, né leggi limitate.Sono leggi universali.

    La prprietà privata non è bandita in Platone poiché ciò determina schiavitù.
    Essa è semmai non scelta, poiché ad essa si rinuncia.
    Ma non c'è una proprietà pubblica.
    E non essendoci, non ha senso lo scrivere "mettere in comune i figli o le donne"
    perché ciò presuppone una proprietà.
    Chi è proprietario dispone...e se al posto della proprietà privata c'è quella pubblica, c'è solo schiavismo.

    Io Platone non lo consdiero schiavista,sarò forse io.Se però Platone è quello che appare così, è meglio evitarlo.

    La visione organica dello stato e della comunità politica di cui scrive l'anonimo è la mancanza di coercizione e l'unità Tradizionale.
    Quella visione è proprio una non visione perché fluisce da sé, senza nessun dirigente...
    e ciò pone in contrasto la Tradizione ed ogni qual si voglia idea di stato e modernità.

    D.

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  8. Allora...ti rispondiamo x punti:

    - La collettività non presuppone necessariamente l'ugualglianza, anche perché, secondo la visione platonica della "Repubblica", la classe dei custodi, pur mantenendo un regime comunitario con la classe dei filosofi (che ricordiamo essere la classe dirigente), rimane comunque subordinata a questa. Tutto ciò in virtù anche della tripartizione platonica dell'anima, per cui la componenente "animosa", pur partecipando della natura irrazionale dell'anima, è l'unica che la ragione può utilizzare per un fine superiore.

    - L'accettazione del proprio ruolo nella GERARCHIA sociale non è il risultato di una scelta da parte dell'individuo, ma il risultato di un percorso educativo che, sviluppando le proprie inclinazioni dominanti, COLLOCA (e, dunque, non SI colloca) all'interno della struttura sociale.

    - La costituzione della "Repubblica" non ammette leggi positive, cosa che accade invece nel suo ultimo dialogo (le "Leggi" appunto). Le uniche leggi universali in Platone sono quelle che regolano i rapporti tra le idee, esplicabili soltanto attraverso la dialettica.

    - Non c'è una rinuncia vera e propria alla proprietà privata, ma soltanto un suo utilizzo, in quanto strettamente "necessaria" soltanto all'ultima classe dello Stato platonico, dedita alle attività produttive.

    - Se intendi per "proprietà pubblica" quella di stampo sovietico, allora sei fuori strada. Platone presuppone un tipo di comunità fondata su un comune sistema di valori, relativo a una condizione etica e non strettamente giuridica della società.
    Quanto afferma Platone è motivato dall'analisi della società a lui contemporanea, in cui dominavano personaggi che si affacciavano alla scena politica soltanto per perseguire il proprio interesse, incluso quello di incrementare il proprio patrimonio personale. Pertanto Platone elimina ogni presupposto ad una possibile accumulazione da parte della classe dirigente (non molto diversamente dalla figura del "monarca" dantesco).

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  9. -Va bene, ciò che tu chiami collettività io chiamo comunità poiché quel termine mi dà l'orticaria.
    Collettivo è somma di individui.Comunità è qualcos'altro, non so dire, e per questo mi piace di più.Io leggo colettività e penso a massa.
    Mi scuso per l'incomprensione.

    il punto due è errato.Poiché sarebbe un'imposizione mentre la natura stessa degli individui vuole , venendo direzionata da chi ha le capacità indubbiamente, essere la dove necessita, la dove trova godimento, la dove è utile a sé ed agli altri, là dove ha bisogno.
    NOn può esserci messa, e non può mettersici.Essa va, da sola e per via del giudizio di chi può, dati entrambi come spontanei e ciò è la comunità e la forza della tradizione, che non impone nulla e lascia Libertà assoluta, altrimenti sarebbe coercizione e menzogna.

    -Le leggi universali non credo possano determinarsi engativamente o positivamente come nel diritto.
    Esse sono vere ed incontrovertibili.Queste leggi sono i Principi stessi e le Idee, e la conoscenza delle cose per quel che sono, che quidi non variano.Dicevamo forse la medesima cosa.

    -Grazie, lo ignoravo.Ciò è chiaro proprio per come ponevate il discorso di aristocrazia.I migliori, per forza di cose, fanno delle rinunce.

    -Il concetto di proprietà è qualcosa di arduo.Poichè ogni aristocratico ha una missione non certo un arbitrio sul popolo ed è per questo che egli è per il bene comune.
    Ciò decreta che non può opprimere , pena scadere e riconoscersi non più migliore.

    E' per questo che lo stato coercitivio moderno, e la monarchia coercitiva passata, sono esempi di società degenerate.
    roprio perché esse non collimano con ciò che Platone afferma, con quell'etica che ognuno di noi ha in sé nei cuori.

    cordiali saluti

    Grazie dello spazio.

    D.

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  10. Da un’analisi anche sommaria della filosofia platonica credo debba risultare come il pessimismo, per così dire, antropologico del filosofo ateniese fosse tanto radicato da rendere impossibile, e impensabile che – nonostante qualunque sforzo educativo – tutti i componenti del corpo civico accettassero liberamente di svolgere il proprio ruolo all’interno della comunità. Del resto la sua stessa concezione della giustizia era eminentemente gerarchica, fondandosi su una distribuzione diseguale dei ruoli di comando; con ogni probabilità, il massimo di accettazione all’interno del corpo sociale che ci si potesse attendere consisteva in un diffuso consenso a questa disuguaglianza di ruoli, accettata perché posta al servizio dei comuni interessi e della comune felicità.

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