martedì 7 aprile 2009

Democrazia e guerra fredda: anatomia di un paradosso



di Carlomanno Adinolfi


Con la fine della guerra mondiale “democrazia” sembra diventare la parola d’ordine per tutti gli Stati protagonisti della scena globale. “Democrazia” diventa il baluardo della modernità e dei popoli contro le “dittature” sconfitte con le armi dall’alleanza finanza-comunismo. Eppure “democrazia” diventa sempre di più una parola astratta a cui ognuno dà diversi significati a seconda talvolta della convenienza, talvolta della matrice culturale in cui essa nasce.
Nell’immediato dopoguerra, quando il mondo comincia ad assumere l’assetto deciso a Jalta dai cosiddetti “grandi” (Roosevelt, Stalin e il proclamatore dell’inizio delle belligeranze, Churchill) i principali modelli di democrazia diventano quello occidentale, di stampo parlamentare, e quello popolare, proprio dei regimi ad est della cortina di ferro.
Ovviamente i rappresentanti dei due modelli rivendicano ognuno la legittimità del definirsi “democratico”.

Le democrazie occidentali

I paesi cosiddetti occidentali, sotto la leadership militare, economica e politica degli Usa, sono tutti fautori di quelle che comunemente vengono definite democrazie parlamentari. Questi paesi ponevano e pongono tutt’ora come concetto cardine della loro democrazia le libertà individuali e la loro difesa in tutti i campi. In questa concezione la massima espressione di libertà è il voto per decidere i propri rappresentanti in parlamento e negli organi di governo territoriale.

Tuttavia il principio fondante di quella che dovrebbe essere una democrazia nel vero senso della parola, ossia “governo del popolo”, viene del tutto a mancare: la partecipazione stessa del popolo al governo e alla vita politica. La partecipazione attiva dei cittadini alla sfera politica nasce e si esaurisce all’interno delle urne nella scelta dei rappresentanti. Da quel momento in poi quella che dovrebbe essere res publica torna di fatto ad essere sfera privata degli eletti a “rappresentanti del popolo”. Se si va ad analizzare a fondo la realtà concreta, infatti, è evidente che solo una piccolissima percentuale della popolazione ha a che fare con la gestione effettiva della politica, e si prospetta una visione che sembra sempre più quella di una oligarchia, piuttosto che quella di una democrazia – visione che diviene sempre più accentuata man mano che i cosiddetti rappresentanti diventano sempre più legati alle lobbies economico-finanziarie.

Altro fattore che faceva degli Stati occidentali delle democrazie solo a parole è il fatto che (altro cardine del mondo occidentale) a vincere sia la cosiddetta maggioranza.
Nei paesi con una moltitudine di partiti nella scena politica, questo, di fatto, sta a significare che al governo, tranne in casi eccezionali, non vada affatto la rappresentanza della maggioranza dei cittadini, ma semplicemente i rappresentanti della minoranza più grande. Nei paesi a sistema proporzionale è poi necessario che queste “grandi minoranze” debbano allearsi con partiti teoricamente più vicini ideologicamente per raggiungere e mantenere il governo. Questo crea altri scenari paradossali con partiti che di fatto sono rappresentanti di una minima parte di cittadinanza che hanno il potere di ricatto politico verso i più grandi, e che possono in questo modo andare al governo a discapito di partiti ben più rappresentativi che si trovano però fuori dalla coalizione vincente.

L’unico caso in cui ad andare al governo è effettivamente la maggioranza, ossia chi si accaparra almeno un voto in più del 50% dei votanti, è quello dei sistemi bipolari in cui di fatto sono presenti solo due partiti ma, fuori dagli Usa, un terzo conta sempre qualcosa, come accade in Germania o Inghilterra. Ma anche qui il paradosso è enorme, in quanto la totalità della popolazione deve per forza riconoscersi in uno dei due schieramenti.
In tutti i casi, comunque, chi raggiunge la cosiddetta maggioranza, sia essa relativa o assoluta, lascia di fatto esclusa dal governo una fetta enorme della popolazione, rendendo il termine “governo del popolo” del tutto inadatto a descrivere il sistema di governo occidentale.

Le democrazie popolari

Paradossalmente gli Stati che durante la guerra fredda si avvicinavano di più al concetto vero di democrazia erano proprio gli Stati sotto influenza sovietica, i quali avevano dalla loro le cosiddette democrazie popolari.

Facendo propria la considerazione di J. J. Rousseau (1712 – 1778), secondo cui la volontà di tutti (volonté générale) non coincide affatto con la somma delle singole volontà, queste democrazie cercarono di scardinare il sistema atomista, secondo cui ognuno deve promuovere i propri interessi a discapito di quelli dell’avversario sperando di andare al governo (o di esservi rappresentato) per veder così attuato il proprio programma personale o quello della propria fazione. Promossero pertanto un sistema che vedeva tutta la popolazione rappresentata da un unico partito: quello comunista.
In quest’ottica si cercò di reintrodurre il concetto di partecipazione attiva della popolazione alla politica, rendendo obbligatoria l’iscrizione al partito, vietando il più possibile la proprietà privata e rendendo, di conseguenza, tutto proprietà dello Stato, facendo sì che ogni lavoratore e ogni fabbrica lavorassero solo ed unicamente per il partito, in un’ottica che vedeva l’economia del tutto assoggettata al volere degli alti gradi del polit bureau che rappresentavano l’intera collettività.

Sebbene però questo sistema fosse, dal punto di vista teorico, più vicino al concetto di “governo del popolo” rispetto alla controparte occidentale, di fatto anche qui il popolo era del tutto estraneo non solo alle decisioni ma anche ai vantaggi del proprio lavoro. Essendo praticamente annullata la sfera individuale a discapito di quella collettiva, la politica economica attuata tramite i cosiddetti “piani quinquennali” non era affatto finalizzata al benessere economico e sociale dei lavoratori, ma piuttosto al benessere – appunto – dell’intera collettività, che – di fatto – era rappresentata dal partito e dallo Stato.

I paradossi dei due mondi

Abbiamo già visto il paradosso secondo cui sarebbe stato più corretto chiamare democrazie quelle popolari piuttosto che quelle occidentali.
Ma ci sono altri e ben più grandi paradossi nei due sistemi.
Nell’ottica sovietica appena trattata, secondo la quale l’individuo è annullato nella collettività, il lavoratore diventa un ingranaggio per il benessere dello Stato e non per se stesso, facendo un lavoro di cui non vedrà mai personalmente i frutti, economici o politici, andando a ricostruire esattamente lo scenario criticato dallo stesso Marx, e facendo dell’economia dei paesi sovietici praticamente un capitalismo di Stato.

Ma il paradosso più grande forse riguarda proprio il mondo occidentale. La volontà esplicita di liberare l’economia e la finanza dal controllo dello Stato favorì non solo l’assoggettarsi delle politiche nazionali alle logiche di mercato, ma soprattutto favorì la creazione e il proliferare di una classe finanziaria internazionale che cercò e riuscì a gestire le politiche nazionali per i propri fini. Questo fece sì che lobbies sovra e inter-nazionali potessero controllare i governi, e che Stati con assai poca sovranità nazionale potessero essere governati di fatto da rappresentanti di aziende o multinazionali straniere. A conti fatti, il mondo occidentale risultò quindi attuare perfettamente il concetto di internazionalismo che il comunismo russo invece aveva abbandonato fin dai tempi in cui Stalin estromise a picconate Trotsky, attuando invece un gigantesco nazionalismo al servizio della Grande Russia.

Il terrore come mezzo di auto-sostentamento dei due modelli

Il clima di guerra fredda che iniziò fin dalla fine della guerra mondiale di certo aiutò il consolidarsi dei due modelli, che furono comunque contrastati per una ventina d’anni dai paesi non-allineati, i quali facevano riferimento a leaders popolari e nazionali come l’egiziano Nasser e l’argentino Perón.

A est della cortina di ferro qualunque contatto con il mondo occidentale era vietato o fortemente “sconsigliato” per la difesa dell’utopia sovietica. Qualunque corrente non conforme a quella dominante di volta in volta nel politburo di Mosca era purgata con esecuzioni od omicidi politici, tacciata d’essere “reazionaria” o comunque “nemica del popolo”. Qualunque tentativo di indipendenza dall’influenza moscovita, o qualunque tentativo di riforma della classe politica anche solo verso il socialismo o la socialdemocrazia, era repressa nel sangue, come nei casi ben noti di Praga, Budapest o in Polonia.

Ma anche in Occidente si fece largo uso del terrore per mantenere lo status quo deciso a Jalta. Con il piano Marshall – di fatto – tutti i paesi europei divennero talmente legati alla politica statunitense, tanto da divenirne praticamente schiavi. Il quotidiano timore per l’imminente scoppio del conflitto nucleare costrinse gli Stati occidentali a fare quadrato dietro agli Usa, e ciò impedì di fatto qualunque forma di ricerca (o di ritorno) di una terza via, tanto politica quanto economica.

Non è un caso poi che le nazioni in cui si permise di avere fortissimi partiti comunisti fossero proprio i paesi più pericolosi per l’ottica che voleva l’Europa assoggettata politicamente ed economicamente: tolte la Germania divisa e l’Inghilterra, che si era già demolita con Churchill fin dagli anni ‘30, si permise ai partiti comunisti di divenire potentissimi in Italia, chiave del mediterraneo e a cui si doveva impedire di tornare ad avere una politica da protagonista, e in Francia, dove una tradizione di grandeur e di senso dello Stato poteva intaccare quel senso di internazionalismo anti-Stato. Di fatto questa politica riuscì solo in Italia, in cui il PCI e i suoi alleati riuscirono ad abbattere tanto l’auto-sostentamento militare che quello energetico con la battaglia antinucleare e con la guerra ai sostenitori della politica mediterranea e filo-araba (si pensi al delitto Moro, alla guerra a Craxi e alla collusione tanto di dirigenti che di terroristi rossi con lobbies israeliane come Terracini, Bertoli, Israel il rosso”, ecc.).
Gli stessi Usa, paladini della libertà, usarono l’arma del terrore durante l’epoca McCarthy e soffocarono nel sangue i tentativi di liberazione dalla loro influenza dai paesi dell’America Latina.

Di fatto il clima di continua tensione, certamente aiutato dall’impotenza politica dell’Onu che prevedeva diritto di veto tanto dagli Usa che dai sovietici, non fece altro che aiutare i due grandi colossi a reggersi in piedi nel dominio delle rispettive sfere d’influenza. Tensione che i due colossi fecero ben attenzione a non far mai esplodere e far andare fuori controllo, come dimostrano il sospetto assassinio del presidente Kennedy e il contemporaneo improvviso golpe contro il presidente Kruscev, proprio i due uomini politici che rischiarono di dar inizio alla guerra nell’episodio della crisi missilistica di Cuba.

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4 commenti:

  1. C'è un errore. I regimi comunisti non resero affatto obbligatoria l'iscrizione al partito, che rimase sempre un privilegio per pochi, confermando così il carattere radicalmente elitario e anti-popolare, nel senso più profondo del termine, del dogma marxista-leninista; d'altra parte come poteva essere ammesso al partito chi, a detta dei custodi del dogma leninista, era affetto da una «falsa coscienza»? Piuttosto fu il Fascismo che fece della tessera quasi un obbligo, e questo proprio perché esso, movimento autenticamente popolare, voleva riassumere al suo interno in un quadro organico le diverse componenti della società senza che queste dovessero rinunciare alla loro identità.
    Infine diffiderei di Rousseau: quando parla di democrazia equivoca molto nel trasporre in senso della democrazia degli antichi nelle condizioni in cui si trovano a operare i moderni. In ogni modo facendo un raffronto tra i due sistemi quello «occidentale» si dimostra migliore di quello comunista sotto ogni aspetto; la sfida vera sta nel saper proporre un’alternativa autentica al dominio delle oligarchie economiche: si potrebbe cominciare col difendere le comunità reali, biologiche ed etniche, intese anche come piccole comunità, come comunità locali (si pensi che in Italia ogni paese ha, o piuttosto aveva fino a non molto tempo fa, un proprio dialetto), rinunciando una buona volta a quella prospettiva idealista e assolutistica di marca hegeliana che ha informato di sé negli ultimi due secoli tutto l’orizzonte politico (fascismi compresi purtroppo).

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  2. Grazie per la precisazione. Avrei anche voluto fare un raffronto tra la democrazia popolare sovietica e il fascismo ma avrei rischiato di andare "fuori tema" e cmq credo debba essere argomento di una discussione a parte.
    Quanto al raffronto tra i due modelli della Guerra Fredda sicuramente credo che chiunque all'epoca avrebbe preferito vivere a "occidente" piuttosto che oltre la cortina. Resta però sempre lo stesso dilemma: è peggio per un prigioniero sapere di stare in prigione o credere di essere libero dietro sbarre che non percepisce?
    Quanto all'ultima parte del commento sono d'accordo su tutto

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  3. «è peggio per un prigioniero sapere di stare in prigione o credere di essere libero dietro sbarre che non percepisce?»

    Acuto paradosso. D'altra parte nei paesi del terzo mondo la democrazia formale si accompagna in realtà al dominio dei potentati economici sovranazionali e degli usurai internazionali che hanno imposto un modello generatore di alienazione e anomia (naturalmente i satrapi che hanno copiato il modello est-europeo hanno fatto infinitamente peggio); quindi parlare di libertà in quelle situazioni è quantomeno dubbio; persone come Chavez e Morales stanno tentando di ridare dignità (premessa necessaria ma non sufficiente per la libertà) ai loro popoli; si può sperare in bene nonostante qualche influenza della prospettiva marxista a cui entrambi si rifanno potrebbe ingenerare qualche difficoltà; quanto al nostro occidente la gabbia è data proprio dal sistema, ma ritengo che le sbarre siano abbastanza ampie per cercare una via d’uscita, posto che uno riesca a vederle (cosa che non era nei paesi comunisti).

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  4. " facevano riferimento a leaders popolari e nazionali come l’egiziano Nasser e l’argentino Perón " Avete dimenticato il Maresciallo Tito! Il più nazionale e popolare tra i leader del secondo dopoguerra, nonchè l'iniziatore del movimento stesso dei non-allineati.

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