giovedì 24 dicembre 2009

Il Fascismo di Delio Cantimori

Delio Cantimori (foto) fu uno dei più grandi storici italiani del Novecento, eppure non è noto al grande pubblico, e anche fra gli addetti ai lavori, si preferisce ricordare i suoi studi di storia moderna sugli eretici italiani del ’500, o al limite è citato come «il patriarca della storiografia marxista in Italia» (R. De Felice). Tuttavia, il suo percorso politico e intellettuale fu molto più complesso, simile per certi versi a quello di Ernst Niekisch, e non si sbaglierebbe, infatti, a collocarlo tra i rari corrispettivi italiani della Rivoluzione conservatrice tedesca. Basterebbe esaminare i suoi scritti politici (D. CANTIMORI, Politica e storia contemporanea. Scritti (1927-1942), a cura di L. Mangoni, Einaudi, Torino 1991).

Delio nacque a Russi, nel cuore della Romagna rossa e mussoliniana, nel 1904. Condusse gli studi liceali a Ravenna (1919-1922) e Forlì (1922-1924), e fu influenzato dal magistero filosofico di Galvano Della Volpe. Il suo primissimo orientamento era verso l’attualismo gentiliano. A questo periodo risale l’interesse per il Rinascimento e per la cultura tedesca, specie i romantici. Tra il 1924 e il 1929 studiò Storia presso la Scuola Normale Superiore di Pisa.

Suo padre era Carlo Cantimori, d’ardente fede mazziniana, militante del partito repubblicano, corrispondente di Alceste De Ambris, co-autore della Carta del Carnaro, e di Giovanni Gentile, indeciso nel 1922 tra il fascismo e un socialismo reducista e fiumano, infine aderente al regime dal 1926 fino alla fine. Lo stesso Delio, fin da ragazzo, ebbe una forte ammirazione per l’interventismo e appoggiò fortemente l’impresa fiumana, abbonandosi al bollettino della Reggenza del Carnaro e facendo propaganda fra i suoi compagni. Riconobbe presto nel Fascismo una forza veramente rivoluzionaria, e prese infine la tessera nel 1926, ma già nel 1924, ai tempi del caso Matteotti, si dichiarava fascista, approvando l’eliminazione di quest’ultimo, quale nemico politico.

In una lettera a Croce del 19 luglio 1926, affermava esplicitamente di seguire il Fascismo e di considerarla una religione. L’anno dopo definiva con esattezza questa religione: «quella coscienza dell’uomo moderno, consapevole del suo dovere e della sua responsabilità, ma anche del suo limite nella vita della Nazione per la quale egli è quel che è e può operare utilmente, concretamente, senza lasciarsi sviare da anacronistici ritorni a forme di vita morale (e religiosa che è lo stesso), buone per le donne e per la parte femminile degli uomini, che credono che Dio si veneri battendosi il petto ad ore fisse, e via dicendo, e non lavorando e faticando» (Politica e storia contemporanea, p. 26).

Di fatto, egli univa lo Stato etico gentiliano al nazionalismo mazziniano, rimanendo contrario sia al reazionarismo clericale e neoguelfo (ma anche contro il medievalismo ghibellino alla Evola), sia allo sciovinismo francese e al nazionalismo völkisch tedesco. Ovviamente, la sua opposizione era forte anche contro il liberalismo, considerato come sorpassato dalle grandi ideologie sociali del XX secolo. Anche nella simpatia che emerge verso gli eretici, dalle sue pagine storiografiche, si deve vedere piuttosto un intenso afflato libertario, proprio del Fascismo rivoluzionario, ovvero il rifiuto di una religione dogmaticamente e teologicamente imposta.

In politica interna, egli era naturalmente sostenitore dello Stato etico e corporativo. «A organizzazione culturale delle corporazioni, dove accanto alla cultura professionale e tecnica è unita la educazione secondo la morale di ordine e disciplina che il Governo Fascista ama accentuare come propria, appare di nuovo risposta chiara e netta ai bisogni della civiltà europea» (Politica e storia contemporanea, p. 26). In politica estera, è molto interessante il fatto che egli fosse già conscio della decadenza d’Europa, e reagisse con un vigoroso europeismo a prospettiva imperiale, che anticipava già Thiriart (foto). Inoltre sosteneva che l’Italia fascista dovesse farsi forte e diffondere il suo esempio nei rapporti internazionali. «Bisogna che noi ci assuefacciamo a questi orizzonti, e che ci consideriamo appunto perché e in quanto italiani e fascisti, banditori di un’idea universale, cittadini dell’Europa e del mondo» (articolo su «Pattuglia», 2 novembre 1929).

Altrettanto degno di nota era il suo punto di vista sostanzialmente filobolscevico, per cui rifiutava le critiche reazionarie o liberali al modello sovietico e sosteneva la necessità di un’alleanza tra URSS e Italia. Contemporaneamente, Cantimori mostrava un forte interesse per gli autori della Rivoluzione conservatrice, che studiò approfonditamente, conseguendo anche una seconda laurea in letteratura tedesca. Riguardo al nazionalsocialismo, egli apprezzava le teorie minoritarie dei fratelli Strasser, ma criticava il romanticismo politico connesso all’ideologia hitleriana. Il suo pensiero politico lo portava a opporsi sia alle posizioni conservatrici di Schmitt, sia a quelle razzialiste di Rosenberg.

Nel frattempo, insegnò ai licei di Cagliari e Parma, per essere chiamato da Giovanni Gentile all’Istituto Italiano di Studi Germanici nel 1934 e ad insegnare alla Scuola Normale di Pisa nel 1940, dopo aver ottenuto la cattedra di Storia Moderna a Messina l’anno prima. In quegli anni, maturò un certo distacco dal Fascismo, a causa della delusione per il Concordato del 1929, per l’insufficienza delle leggi corporative nel 1934, e la conseguente emarginazione di Bottai, Spirito e di altri fascisti “di sinistra”, e del progressivo avvicinamento alla Germania hitleriana, con conseguente inasprimento dell’anticomunismo. Ai primi del 1936, sposò Emma Mezzomonti, militante comunista.

In ogni caso, il passaggio dal Fascismo al Comunismo fu in Cantimori non un repentino voltare gabbana, bensì un lento e progressivo perdere fiducia in un regime che percepiva come ormai troppo poco rivoluzionario e relativo avvicinarsi ad un nuovo sistema politico-ideologico. Se già nel 1938 egli era ormai più “rosso” che “nero”, ancora nel 1941 egli scriveva su «La civiltà fascista» e fu solo nel 1948 che egli prese la tessera del PCI. In quegli anni, infatti, condusse vari studi su Marx, fino a tradurre il primo libro del Capitale (1951-52). D’altronde, non doveva durare troppo a lungo: già nel 1956, in seguito all’invasione dell’Ungheria, egli uscì dal partito, dedicandosi unicamente agli studi, fino alla sua morte (1966).

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