mercoledì 16 dicembre 2009

Cenni su Nicola Bombacci

Giuseppe Parlato, ex rettore dell’Università San Pio V ed autore del libro La sinistra fascista, è intervenuto pochi giorni fa a CasaPound portando il suo contributo ad una conferenza dedicata alla figura di Nicola Bombacci. Le parole del professore hanno messo impietosamente in evidenza quanto l’opinione pubblica e determinati settori culturali del paese siano in ritardo rispetto alle conquiste della storiografia sul tema del Fascismo. Quest’ultimo, ancora definito da più parti quale mera «guardia bianca della borghesia», è stato invece un fenomeno ricco di sfaccettature che attendono ancora di essere colte appieno nel loro insieme.

Nicola Bombacci si inserisce in questo contesto, risultando un personaggio tanto “fuori dagli schemi” quanto indicativo dei fermenti che hanno animato il nostro Paese nella prima parte del secolo scorso.
Romagnolo e socialista come l’amico Mussolini, fu un acceso ed importante esponente dell’ala massimalista del partito. In occasione del primo conflitto mondiale la sua strada e quella del futuro Duce si divisero: Bombacci si schierò contro l’intervento, allineandosi per una volta alle scelte ufficiali dei capi del socialismo italiano, con cui spesso era in polemica.
Al termine della guerra divenne addirittura segretario del PSI, per poi fondare il Partito Comunista dItalia nel 1921. Anche qui si distinse per le posizioni anticonformiste: prima appoggiò entusiasticamente l’occupazione dannunziana di Fiume, poi propugnò lavvicinamento del Fascismo allUrss, nel nome dell’anticapitalismo che caratterizzava entrambe le rivoluzioni.
Era un personaggio scomodo sia per i fascisti avviati alla conquista del potere, ma anche per i suoi stessi compagni di partito, da cui fu espulso nel 1927. Togliatti, dall’alto della sua cieca ortodossia, addusse quale motivazione la colpa di non essere abbastanza marxista e di volere «tutto e subito». Secondo lui un vero comunista non avrebbe dovuto affidarsi all’«azione diretta» di marca soreliana, ma creare le condizioni per lo sviluppo ed il crollo del sistema capitalista. Curioso che Togliatti non si avvedesse del fatto che l’Urss, ove lui risiedeva ed il comunismo era al potere, fosse allepoca della Rivoluzione dOttobre uno Stato post-feudale.

Comunque, sempre nel 1927, si aprirono per Bombacci nuovi spiragli politici in Italia. In quell’anno, infatti, Mussolini riconobbe ufficialmente l’Urss, primo fra i leaders europei. Questa scelta, dettata soprattutto da interessi economici, fu accolta con entusiasmo dal fondatore del Partito Comunista d’Italia, che cercò, tra molte difficoltà, di portare il suo contributo ideale all’interno del dibattito culturale italiano.
Interessanti a questo proposito le sue posizioni riguardo al corporativismo ed alla Guerra d’Etiopia. Egli riconobbe alla politica economica fascista una maggiore efficacia rispetto ai provvedimenti attuati in Urss, apprezzando i primi risultati raggiunti dal regime.
Ancor più sorprendente la sua lettura del conflitto coloniale italiano, che Bombacci descrisse come il naturale proseguimento sul piano geopolitico del conflitto tra «popoli giovani» e plutocrazie capitaliste.
Una tesi che portava alla mente le teorizzazioni del capo dei nazionalisti italiani Enrico Corradini, riassumibili nell’equazione: «proletari contro capitalisti = lotta di classe; popoli poveri contro popoli ricchi = nazionalismo», datata 1910.

Nel 1936 l’impegno di “Nicolino” (come era soprannominato dal Duce) fu finalmente riconosciuto grazie all’uscita della rivista La Verità (traduzione della Pravda sovietica), da lui diretta e punto di incontro di molti esponenti del vecchio mondo socialista. È in questo stesso periodo che Palmiro Togliatti pubblica il famoso «appello ai fratelli in camicia nera», in cui cerca un terreno d’incontro tra comunisti e fascisti sul programma di S. Sepolcro del 1919. Nel frattempo una personalità del calibro del filosofo Ugo Spirito, che vedeva di buon occhio un avvicinamento tra le due rivoluzioni, aveva dato il suo contributo elaborando la teoria della «corporazione proprietaria», auspicando il passaggio della proprietà dei mezzi di produzione alla corporazione, per la definitiva distruzione delle logiche del sistema capitalista. E poi come non menzionare il tentativo di Ivanoe Bonomi, membro storico del parlamentarismo prefascista, di fondare l’«Associazione socialista nazionale», assieme agli ex deputati Bisogni, D’Aragona e Caldara, disposti a collaborare con il regime.
Una serie di fermenti quanto mai interessanti e degni di nota, anche se allo scoppio della Guerra di Spagna i rapporti tra Italia ed Urss tornarono più che mai tesi. Pochi anni dopo, nel momento del breve idillio Stalin-Hitler, fu proprio La Verità (che continuerà ad uscire pressoché ininterrottamente fino al 1943, nonostante l’avversione degli “intransigenti” Farinacci e Starace) ad esprimersi favorevolmente a questa convergenza, in un’Italia fascista comprensibilmente disorientata. «(…) Eppure giorno verrà, in cui il sovieto, permeandosi di spirito gerarchico e la corporazione di risoluta anima rivoluzionaria, si incontreranno sopra un terreno di redenzione sociale», scrisse Walter Mocchi nel numero del 13 ottobre 1940. Ma la guerra andò in una direzione totalmente differente, fino al disastro del 1943 e la rinascita del Fascismo con la R.S.I.

Bombacci, che non ebbe mai la tessera del PNF, si schierò da subito con la decisione che lo caratterizzava: «Duce, già scrissi in La Verità nel novembre scorso – avendo avuto una prima sensazione di ciò che massoneria, plutocrazia e monarchia stavano tramando contro di Voi – sono oggi più di ieri con Voi. Il lurido tradimento del re-Badoglio, che ha trascinato purtroppo nella rovina e nel disonore l’Italia, vi ha però liberato di tutti i componenti di una destra pluto-monarchica del 22 ...», affermò perentoriamente in una lettera a Mussolini.
L’analisi sopra contenuta non era sbagliata: liberati dalle «forze della reazione» (la “destra” interna opportunista e conservatrice), i fascisti stilarono i 18 punti di Verona e diedero inizio alla socializzazione, per lasciare ai posteri il loro messaggio di civiltà. Le realizzazioni furono comprensibilmente incomplete, per ovvi motivi di tempo e l’ostilità di taluni esponenti di governo e dei tedeschi.
Inutile dire che Bombacci si batté entusiasticamente a favore delle riforme, impegnandosi non solo nelle fabbriche ma anche nelle politiche della casa. A questo proposito si impegnò per la stesura e l’attuazione del rivoluzionario punto 15 del Manifesto di Verona: «Quello della casa non è soltanto un diritto di proprietà, è un diritto alla proprietà. Il partito iscrive nel suo programma la creazione di un ente nazionale per la casa del popolo il quale, assorbendo l’istituto esistente e ampliandone al massimo l’azione, provveda a fornire in proprietà la sua casa alle famiglie dei lavoratori di ogni categoria, mediante diretta costruzione di nuove abitazioni o graduale riscatto delle esistenti. In proposito è da affermare il principio generale che l’affitto, una volta rimborsato il capitale e pagatone il giusto frutto, costituisce titolo di acquisto. Come primo compito, l’ente risolverà i problemi derivanti dalle distruzioni di guerra con requisizione e distribuzione di locali inutilizzati e con costruzioni provvisorie».

Il “canto del cigno” di Bombacci avvenne nel marzo 1945, quando a Genova tenne un comizio a cui accorsero ben trentamila operai, nonostante la fine della Repubblica Sociale fosse ormai questione di giorni. Erano ancora in tantissimi a voler ascoltare le forti e rivoluzionarie parole di questo «combattente sociale», le cui scelte furono spesso controcorrente ma mai opportunistiche. Ad ulteriore riprova basti citare il fatto che morì accanto al Duce, gridando in faccia ai suoi assassini: «viva il socialismo!». E così proprio lui, quello del «me ne frego di Bombacci/ e del sol dell’avvenire» cantato dai giovani fascisti, scelse di dare tutto al fianco di Mussolini, nel nome del riscatto sociale di una Nazione intera.

Nel dopoguerra non pochi esponenti (tra quelli rimasti, viste le vendette ed i massacri dei partigiani) di quella “sinistra fascista” che aveva avuto mirabili esempi nei sindacati e nei GUF, confluirono nel PCI, opportunisticamente alla ricerca di quadri competenti per il partito. Il MSI invece nacque tenuto ostaggio dalla “destra”, come ha più volte riportato nei suoi scritti Francesco Mancinelli. Ed infatti, in assenza di colui che aveva saputo tenere fecondamente in equilibrio le diverse tendenze durante il Ventennio, i “continuatori” del Fascismo compirono troppo spesso scelte non in linea con il loro glorioso passato. Ma questa è un’altra storia…

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