lunedì 2 febbraio 2009

In viaggio con i Karen


Articolo di Alberto Palladino, pubblicato sul giornalino del Blocco Studentesco (Autunno 2008), in cui Zippo ci racconta del suo viaggio in Birmania, avvenuto lestate scorsa, per aiutare letnia Karen assieme ai volontari di Popoli.

Il riverbero del sole al tramonto sembra incendiare le creste degli alberi nella foresta birmana. Come se si ribellasse a quella dipartita forzata, il sole guarda il mondo con la sua ultima occhiata rovente. Poi una collina lo copre, poi un monte, ed è già il focolare a crepitare nelle capanne di legno e foglie. I vapori della cottura, la luce tremolante di candele e fuochi, il ronzio sommesso del generatore danno all’atmosfera un’aria mistica che rapisce la mente.

Tutto intorno, quello che di giorno è un inaccessibile intrico di piante, liane, sentieri e risaie risuona ora delle voci di mille animali, prede in fuga o predatori in attesa, tutti solidi anelli della catena alimentare che li lega.

Nella casa di legno, con noi c’è un uomo sulla quarantina: ha una voce bassa, regolare, educata, la sua “beretta 92 fs” è appesa ad un chiodo dietro di lui, abbastanza lontano da non turbare la cena degli ospiti, ma infinitamente vicina e pronta per qualsiasi evenienza, i suoi neri occhi a mandorla sono rivolti ora al piatto ora ai suoi interlocutori fuggendo solo per qualche istante, come per andare a recuperare un ricordo smarrito nella memoria. Ed è proprio di ricordi che ci parla questo uomo, il suo nome è NERDAH MYA (in foto), comandante dell’Esercito Karen di Liberazione Nazionale.

Ci racconta di una gioventù passata nei college negli States dove suo padre, l’eroe nazionale BHO MYA, era riuscito a far studiare, lontano dalla guerra, parla delle notizie frammentarie che gli arrivavano allora, di fratelli morti, di città conquistate o perse, di amici che hanno tradito.

Racconta della decisione di tornare in una patria che non esiste neanche sulle più dettagliate mappe geografiche, che è una terra di nessuno, ma è la terra dove lui è nato.

È infatti dalla fine della seconda guerra mondiale che i Karen, etnia d’origine mongola stanziatasi in Myanmar circa 2.800 anni fa, combattono ininterrottamente contro la giunta militare marxista che si è installata nella capitale, Rangoon, a seguito di un colpo di Stato.
Questa non è la guerra a cui siamo abituati nell’Occidente “civilizzato” delle bombe intelligenti, questa è una guerra portata avanti da un governo di narcotrafficanti proclamatisi generali del nulla, contro chiunque si metta di traverso nei traffici di armi, droga ed esseri umani che fruttano ingenti introiti, spesi ovviamente, non per sollevare la popolazione dal fango in cui vive, ma per comprare nuovi arsenali da paesi civilizzati, ben lieti di aiutare una nazione che, di fatto, gestisce una grossa fetta degli affari del triangolo d’oro della droga.

Dal Bangladesh, ad ovest, alla Thailandia ad est, dal confine cinese alla Malaysia, la Birmania è una confederazione di Stati diversi abitati da diverse etnie spesso con lingua e tradizioni molto differenti. I Karen vivono soprattutto nella zona orientale della Birmania, al confine con la Thailandia, nello Stato Karen, nello Stato Kayah, nel sud dello Stato Shan, nella divisione dell’Irrawaddy e nel Tenasserim. Il numero totale dei Karen è difficile da stimare. L’ultimo censimento in Birmania fu fatto nel 1983 ma si crede che in Myanmar oggi siano circa 4 milioni più 400.000 in Thailandia. Da sempre a contatto con la guerra, la pulizia etnica e la necessità di difendersi e/o nascondersi, i Karen vivono in villaggi di modeste dimensioni, spesso sorti attorno alle cliniche che le poche organizzazioni umanitarie, che si interessano della sorte di questo popolo, costruiscono e dove addestrano personale locale per continuare il servizio sanitario. Opera che, spesso, portano avanti in situazioni di semi-clandestinità, a fronte di ristrettezze economiche, risolvendo, con volontà incrollabile, gli ostacoli dovuti all’approvvigionamento dei medicinali, indumenti e cibo indispensabili per una popolazione che vive in un continuo stato di necessità.

Nel villaggio dove siamo ospiti incontriamo i volontari di una delle associazioni, o “comunità” come preferiscono farsi chiamare, più attive sul fronte degli aiuti ai Karen. Già impegnati in Afganistan, il personale della Comunità Solidarista Popoli quaggiù fornisce un servizio di training per “medics” locali oltre a compiere numerosi viaggi nei villaggi per visitare la popolazione. «Qui il clima favorisce lo sviluppo di malattie come la malaria, la popolazione spesso incorre in disturbi fisici dovuti alla mal nutrizione o alla dissenteria; abbiamo fornito molti villaggi di provviste d’acqua potabile e da qualche anno abbiamo costruito cliniche in zone di guerra proprio per dare il necessario soccorso medico», così ci descrive la situazione uno dei chirurghi che partecipano alla missione. «Noi in occidente non ci rendiamo conto – aggiunge un infermiere – qua spesso una banale ernia può causare problemi enormi. Le malattie sono curate in maniera inefficiente, il lavoro che svolgiamo ha effettivamente migliorato la capacità delle persone di difendersi e di curarsi in maniera adeguata le ferite». Villaggio dopo villaggio, casa dopo casa, i visi di centinaia di persone ti guardano, curiosi, grati. Per quelli che possiamo considerare i pellerossa del terzo millennio, i reclusi, gli indomabili, a coloro non va mai la solidarietà internazionale dei big, degli show di costume, non servono i programmi americani di “deportazione” controllata, non servono dibattiti sulla memoria storica, serve la coscienza e la informazione, la consapevolezza e il saper guardare oltre al bel teatro che i media propongono.

In Birmania c’è una guerra, una guerra di stragi e pulizie etniche, una guerra di campi minati e mutilazioni, dove il bambino impara ad essere uomo e l’uomo rinnega se stesso coltivando l’odio e la crudeltà, forse la guerra più lunga della storia, forse la guerra più giusta della storia, combattuta in silenzio e con dignità infinita da un popolo che ha detto «no» a chi vuole metterlo nelle riserve, ha detto «no» a chi coltiva la droga e produce anfetamine, a chi gli propone di vendere le tradizioni di una vita per un futuro da manovale di fabbrica in qualche piccolo centro dell’Occidente, il «no» dei pochi contro i molti, il romanticismo contro il profitto, il «no» di chi afferma che «Un giorno potrò forse mostrare a mio figlio che è ancora possibile voltare le spalle alle schiere chiassose dei mercanti, ricordando, con orgoglio, di appartenere, da sempre, a un’altra stirpe».

Il canto degli uccelli celebra il trionfo del nuovo sole sulle tenebre, la foresta rivive e la luce che filtra tra le foglie del tetto strappandoti al sonno sembra volerti dire «in piedi, uomo, io esisto ed il sole risorgerà sempre».


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