mercoledì 5 novembre 2008

“American psycho” di Bret Easton Ellis

Patrick Bateman è un ricco, bello e perfettamente introdotto yuppie nella New York reaganiana degli anni ‘80. Ha 26 anni e la sua vita trascorre tra lavoro (è finanziere presso la P&P, istituto di credito fondato dal padre), fidanzata che preme per il matrimonio, sniffate nei bagni delle più esclusive discoteche e cene in costosi ristoranti alla moda della grande mela.
Come tutti ha le sue manie: una vera e propria ossessione per le griffe che conosce e descrive minuziosamente, non “sgarrare” nella consegna di videocassette prese a nolo e trucidare esseri viventi (soprattutto persone...).

Questa è la trama, né più né meno. Il romanzo, dal quale ne è stato tratto un omonimo film, non è un thriller; non ci sono investigatori né piste da seguire. Ellis non lascia spazio a giudizi morali, che non si evincono mai dalla trattazione delle vicende; c’è solo descrizione, in prima persona, della vita di un serial killer alto-borghese.
Tuttavia, la critica sociale, o meglio verso un’epoca, traspare in ogni pagina. Pat Bateman è, nella sua alienazione, un perfetto e ben riuscito figlio del suo tempo e di un certo contesto che all’epoca “dominava la scena” indicando uno stile di vita che per quasi un decennio fu esempio da seguire e meta da raggiungere.

American psycho è lo spaccato di una società dove la figura del vincente la fa chi meglio ostenta beni materiali; eloquente è la scena in cui, in un locale, un gruppo di colleghi ammazza il tempo “sfidandosi” a colpi di biglietti da visita più eleganti.

Il nostro “eroe” muove la sue gesta in un mondo che, dietro una facciata di perfetto ottimismo, nasconde una dimensione caratterizzata da vuoto emotivo che egli tenta di colmare, invano, vivendo una frivola realtà fatta di lusso sfrenato, ingurgitando psicofarmaci e recitando ruoli nei quali lui per primo non si riconosce, tant’è che osserva con disprezzo se stesso e le persone con cui si relaziona.
Pur avendo una doppia personalità e vivendo due vite apparentemente distinte (a volte è sano altre è un assassino), il protagonista è sempre e comunque sedotto, pur nella sua follia, dal modus vivendi consumista tanto da arrivare ad uccidere perché piccato da un equivoco sul suo abito “Armani”.

Patrick Bateman è sì un carnefice, ma è anche e soprattutto una vittima. È vittima del materialismo e del finto ottimismo della realtà statunitense degli anni ‘80, di uno stile di vita che diventa quasi una religione, che crea un mondo a sé dove una persona va a confluire dimenticando la sua vera appartenenza, i suoi veri valori, le sue radici. Risultato di questo: la follia!

Chiaramente nel libro personalità e fatti sono enfatizzati ed esasperati, ma nella realtà è ciò che può accadere e spesso accade; rifugiarsi nel consumo del bene materiale non preserva serenità e lucidità, non è una soluzione aggregante, ma al contrario disgrega l’integrità spirituale riducendo l’uomo a strumento di un sistema malato che produce “figli del vuoto.

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