di FRANCESCO POLACCHI & AVGVSTO
L’annata 2009-2010 ha registrato risultati assai positivi per il Blocco Studentesco, alcuni dei quali addirittura storici. Non potrebbero essere altrimenti considerati il raggiungimento – inedito nella storia repubblicana – dello status di primo movimento studentesco a Roma e l’elezione di un senatore all’università romana di Tor Vergata (con tanto di esclusione dei collettivi antifascisti), a cui si devono aggiungere la presidenza della Consulta provinciale degli studenti a Fermo, Ascoli, Latina, Aosta e l’entrata di un nostro candidato nel CdF di Lettere e Filosofia a Roma Tre, antico baluardo della sinistra antagonista che, da parte sua, ha subìto un drastico e – per lei – catastrofico ridimensionamento. Un altro dato sorprendente, del tutto imprevisto e che fa ben sperare in prospettiva, è stato raccolto a «La Sapienza», con i 314 voti «politici» ottenuti per l’elezione del CNSU nel più grande ateneo italiano, senza una benché minima propaganda elettorale.
Altro e non meno importante motivo di soddisfazione è rappresentato dalla forte crescita dei nuclei non-romani di tutta Italia, tra cui è da segnalarsi l’ottimo exploit conseguito nell’ateneo palermitano, con ben sette candidati del Blocco eletti in diverse facoltà. Risultati, questi, tanto più preziosi in quanto chiaro sentore del superamento dell’atavico tarlo del romano-centrismo e in quanto conseguente radicamento del movimento su scala nazionale.
Al di là tuttavia dei meri dati numerici, ciò che più ha positivamente colpito è stata l’assenza di ottuse pregiudiziali riscontrata in molti studenti liceali e universitari: sintomo inequivocabile del progressivo abbandono, da parte dei giovani, di sterili contrapposizioni ideologiche e di una auspicabile ripresa di un sano spirito «corporativo» studentesco. Interloquendo con numerosi studenti, sono infatti emersi apprezzabili attestati di stima nei confronti del Blocco Studentesco e della sua politica «sindacale», piattaforma di partenza per un futuro allargamento di consensi trasversali e antipregiudiziali.
A fronte di questi incoraggianti risultati, sarebbe però un fatale errore lasciarsi assalire da un ingiustificato senso di appagamento, e appare più che necessario rammentare che la vera battaglia deve ancora cominciare: più la forza di un movimento aumenta, infatti, e più conseguentemente aumentano le sue responsabilità. Responsabilità che non possono essere assolutamente eluse o sottovalutate, giacché è precisamente dalla capacità di tener fede ai propri proponimenti e al proprio spirito di trincea che verrà deciso il destino del Blocco Studentesco.
Prescindendo però dai prosaici traguardi elettorali, è ben altro ciò che ci interessa: perché il Blocco cresce? Per la profferta di prospettive carrieristiche agli aspiranti militanti? Per l’offerta di facili benefici ai potenziali elettori di scuole e università? Ovviamente no: non è certo questo il modus operandi del Blocco, e lasciamo ben volentieri queste squallide «imprese» alle altre associazioni studentesche, infarcite di saltimbanchi della politica e di commissari di partito.
Detto ciò, è necessario ricercare altrove i motivi dell’affermazione del movimento, e innanzitutto nel contesto storico in cui esso è nato e agisce.
Il primo decennio del Terzo millennio, infatti, ha assistito a una netta accelerazione di quel processo di destrutturazione delle categorie della «vecchia» politica (già avviato negli anni ’90 a seguito del decesso dell’Unione Sovietica), proiettando le masse nella cosiddetta «èra post-ideologica». Tralasciando una più dettagliata disamina di questo complesso fenomeno, possiamo però rilevarne alcuni più vistosi effetti, ossia l’affermarsi di sentimenti diffusi di «antipolitica», uno scetticismo sterile e parolaio verso le istituzioni, un rumoroso quanto inconcludente qualunquismo alla Beppe Grillo.
Nonostante le élites globaliste si affannino a porre il concetto di «democrazia» in termini di larga partecipazione del cittadino alla gestione della cosa pubblica, assistiamo al contrario a una sempre più profonda rottura e disaffezione delle masse nei confronti della politica. E il problema di fondo, forse, nasce dal fatto che, affossando le ideologie, si sono uccise anche le idee.
È proprio in un contesto siffatto che si inserisce l’azione del Blocco Studentesco, che intende riportare la politica verso il popolo e, soprattutto, riguadagnare il popolo alla politica, conscio del fatto che, senza popolo, non esiste partecipazione, e, senza partecipazione, non può esistere una «comunità di destino».
Di qui la natura movimentistica dinamica e duttile del Blocco (e di CasaPound), ben lontana dalla rigidità della struttura/partito. Una natura movimentistica che non è però antipartitica, bensì aperta e costruttiva, partecipativa e «trans-partitica», e che si pone quindi come «terza via» tra il trasformismo «istituzionale» e l’adolescenziale e onanistico extraparlamentarismo o antagonismo auto-ghettizzante. Un movimento, dunque, totalmente sganciato dalle imposizioni di padroni e padrini, che privilegia l’azione concreta «sindacale» e trasversale, non egoista ed egocentrica, e che ha come unico obiettivo il bene comune degli studenti (in particolare) e della Nazione (più in generale).
Ovviamente, al fine di rendere praticabile questo progetto, risulta indispensabile un programma pragmatico e rivoluzionario, capace di sorpassare sia le ricette oligarchiche delle istituzioni sia il nulla strepitante dell’antipolitica istrionica e velleitaria. Ma, assieme e alla base dei programmi (vedi qui: 1, 2, 3 e 4), deve esistere un modello culturale ed esistenziale in grado di realizzare una vera e propria rivoluzione antropologica, e di opporre, di conseguenza, un «Uomo nuovo» (essenzialmente politico) al «fantoccio-consumatore» globalizzato e all’«individuo-codice a barre» alienato e dis-sociato.
In particolare a giovani e studenti, dimenticati e sviliti – al di là della facile demagogia – dai politicanti di turno, il messaggio del Blocco Studentesco offre risposte concrete ed entusiasmanti, riassumibili in una lotta disinteressata, su tutti i fronti, per riappropriarsi dell’avvenire che è stato loro rubato. Nell’epoca del precariato e delle caste/cricche dei vecchi oligarchi, allorché sembra smarrita ogni bussola e ogni coordinata, il Blocco chiama a raccolta i giovani dicendo loro che è possibile, se lo si vuole, tornare a essere i protagonisti della Storia, che è possibile, attraverso la volontà e il sacrificio, riprendersi il proprio destino, «riprendersi tutto».
Tutto ciò trova il suo fondamento nel recupero/attualizzazione di miti viventi e volontaristici fortemente mobilitanti, quali ad esempio il futurismo, lo squadrismo, l’impresa fiumana, i pirati della Tortuga, il sindacalismo rivoluzionario e, ultimamente con maggior enfasi, il garibaldinismo. Miti mobilitanti – si diceva – capaci di (ri)creare un immaginario affascinante e più largamente comunitario, che esaltano una visione eroica della vita fatta di valore, coraggio, solidarietà, generosità, gerarchia, libertà e sacrificio. Sicché non è difficile comprendere il fascino esercitato sugli studenti da motti incisivi e ardenti come «Giovinezza al potere», «assalta il futuro» e «17 anni per tutta la vita», i quali celebrano l’entusiasmo genuino e il furore scanzonato propri della gioventù, l’unica, quest’ultima, capace – come recita una recente e immaginifica canzone degli ZetaZeroAlfa – di «donare questa vita come getteresti un fiore».
C’è di più: il Blocco Studentesco (e CasaPound più in generale) ha ormai anche un suo «mito fondativo», che mette ben in luce, oltre alle ovvie ed evidenti filiazioni storiche, la sua natura innovativa, irriducibile e originale (nonché originaria), tanto che luoghi come il Cutty Sark e il nr. 8 di Via Napoleone III sono diventati spazi metafisici di pratica comunitaria e metapolitica, in grado di suscitare inoltre meraviglia e curiosità quasi ‘mistica’ in simpatizzanti ed estimatori. Il Blocco e CasaPound, quindi, non si configurano più, o – meglio – non solo come l’eredità di un’esperienza storica e umana, ma piuttosto come l’inizio, la fondazione, la tracciatura di un solco nella Storia e nel Destino.
E «tracciare un solco» vuol dire, come intendevano i nostri padri, fondare la civitas, la polis, simbolo di una nuova politica che torna ad essere creazione di volontà e sacrificio.
Su un altro punto vorremmo poi porre l’attenzione: per decenni quasi tutti i gruppi «antagonisti» hanno agito e atteso il momento opportuno per «fare la rivoluzione». Ebbene, noi non abbiamo bisogno di aspettare alcuna «saturazione del mercato» o alcuna fine di qualsivoglia Kali Yuga per fare la rivoluzione, perché noi, la rivoluzione, la stiamo già facendo. È una rivoluzione che parte anzitutto da se stessi: è il continuo miglioramento di sé, l’annullamento del proprio ego, del proprio egoismo, del proprio egocentrismo, del proprio narcisismo, per la (ri)nascita nel noi. È pertanto una rivoluzione severa e impietosa, una «rivoluzione permanente», una «palestra dell’anima».
Anche l’affermazione «stiamo facendo la rivoluzione», tuttavia, rischierebbe di essere inesatta. Perché noi, sostanzialmente, non facciamo la rivoluzione: siamo noi stessi la rivoluzione. Noi non facciamo i rivoluzionari, non giochiamo a fare i rivoluzionari: noi siamo rivoluzionari.
E questa rivoluzione, in definitiva, non può che essere realizzata dai giovani. I nostri nonni e i nostri padri ci hanno infatti consegnato un mondo di rovine e macerie, fatto di odio politico, disagio sociale, bancarotta morale (prima ancora che materiale), opportunismo, individualismo e corruzione. Hanno deluso: adesso è il nostro momento! Una volta qualcuno disse che «nei momenti felici la gioventù di una nazione riceve gli esempi, nei momenti difficili li dà». È proprio questo l’obiettivo dei ragazzi del Blocco: dare esempi a chi, per viltà o per inadeguatezza, ha tradito le nostre speranze, il nostro entusiasmo e la nostra gioia di vivere, dicendoci magari che «va tutto bene». E tutto ciò lo facciamo e lo faremo perché i giovani hanno sempre ragione, anche quando hanno torto. Perché abbiamo stabilito che il futuro ci appartiene, e dunque veniamo a riprenderci tutto, noi che siamo – come avrebbe detto Marinetti – «gli ultimi studenti ribelli di questo mondo troppo saggio».
Come realizziamo e realizzeremo questa rivoluzione? Con amore, con un «disperato amore» temprato e sublimato dal combattimento nelle scuole e nelle università, lasciando la facile e inutile indignazione ai frustrati e ai pantofolai.
Irrazionale voglia di vivere, interventismo rivoluzionario, adesione entusiastica e dionisiaca alla vita, goliardia dirompente, visione eroica e volontaristica dell’esistenza, etica epica estetica: questi gli ideali e il messaggio che il Blocco Studentesco propone e offre ai giovani, gli «architetti del domani». Questa la «visione del mondo» di una gioventù che alla discoteca ha preferito il rito comunitario, che alla passività della speranza ha preferito l’energia attiva della volontà, che alla vita comoda e alla rassegnazione ha preferito la trincea.
Altro e non meno importante motivo di soddisfazione è rappresentato dalla forte crescita dei nuclei non-romani di tutta Italia, tra cui è da segnalarsi l’ottimo exploit conseguito nell’ateneo palermitano, con ben sette candidati del Blocco eletti in diverse facoltà. Risultati, questi, tanto più preziosi in quanto chiaro sentore del superamento dell’atavico tarlo del romano-centrismo e in quanto conseguente radicamento del movimento su scala nazionale.
Al di là tuttavia dei meri dati numerici, ciò che più ha positivamente colpito è stata l’assenza di ottuse pregiudiziali riscontrata in molti studenti liceali e universitari: sintomo inequivocabile del progressivo abbandono, da parte dei giovani, di sterili contrapposizioni ideologiche e di una auspicabile ripresa di un sano spirito «corporativo» studentesco. Interloquendo con numerosi studenti, sono infatti emersi apprezzabili attestati di stima nei confronti del Blocco Studentesco e della sua politica «sindacale», piattaforma di partenza per un futuro allargamento di consensi trasversali e antipregiudiziali.
A fronte di questi incoraggianti risultati, sarebbe però un fatale errore lasciarsi assalire da un ingiustificato senso di appagamento, e appare più che necessario rammentare che la vera battaglia deve ancora cominciare: più la forza di un movimento aumenta, infatti, e più conseguentemente aumentano le sue responsabilità. Responsabilità che non possono essere assolutamente eluse o sottovalutate, giacché è precisamente dalla capacità di tener fede ai propri proponimenti e al proprio spirito di trincea che verrà deciso il destino del Blocco Studentesco.
Prescindendo però dai prosaici traguardi elettorali, è ben altro ciò che ci interessa: perché il Blocco cresce? Per la profferta di prospettive carrieristiche agli aspiranti militanti? Per l’offerta di facili benefici ai potenziali elettori di scuole e università? Ovviamente no: non è certo questo il modus operandi del Blocco, e lasciamo ben volentieri queste squallide «imprese» alle altre associazioni studentesche, infarcite di saltimbanchi della politica e di commissari di partito.
Detto ciò, è necessario ricercare altrove i motivi dell’affermazione del movimento, e innanzitutto nel contesto storico in cui esso è nato e agisce.
Il primo decennio del Terzo millennio, infatti, ha assistito a una netta accelerazione di quel processo di destrutturazione delle categorie della «vecchia» politica (già avviato negli anni ’90 a seguito del decesso dell’Unione Sovietica), proiettando le masse nella cosiddetta «èra post-ideologica». Tralasciando una più dettagliata disamina di questo complesso fenomeno, possiamo però rilevarne alcuni più vistosi effetti, ossia l’affermarsi di sentimenti diffusi di «antipolitica», uno scetticismo sterile e parolaio verso le istituzioni, un rumoroso quanto inconcludente qualunquismo alla Beppe Grillo.
Nonostante le élites globaliste si affannino a porre il concetto di «democrazia» in termini di larga partecipazione del cittadino alla gestione della cosa pubblica, assistiamo al contrario a una sempre più profonda rottura e disaffezione delle masse nei confronti della politica. E il problema di fondo, forse, nasce dal fatto che, affossando le ideologie, si sono uccise anche le idee.
È proprio in un contesto siffatto che si inserisce l’azione del Blocco Studentesco, che intende riportare la politica verso il popolo e, soprattutto, riguadagnare il popolo alla politica, conscio del fatto che, senza popolo, non esiste partecipazione, e, senza partecipazione, non può esistere una «comunità di destino».
Di qui la natura movimentistica dinamica e duttile del Blocco (e di CasaPound), ben lontana dalla rigidità della struttura/partito. Una natura movimentistica che non è però antipartitica, bensì aperta e costruttiva, partecipativa e «trans-partitica», e che si pone quindi come «terza via» tra il trasformismo «istituzionale» e l’adolescenziale e onanistico extraparlamentarismo o antagonismo auto-ghettizzante. Un movimento, dunque, totalmente sganciato dalle imposizioni di padroni e padrini, che privilegia l’azione concreta «sindacale» e trasversale, non egoista ed egocentrica, e che ha come unico obiettivo il bene comune degli studenti (in particolare) e della Nazione (più in generale).
Ovviamente, al fine di rendere praticabile questo progetto, risulta indispensabile un programma pragmatico e rivoluzionario, capace di sorpassare sia le ricette oligarchiche delle istituzioni sia il nulla strepitante dell’antipolitica istrionica e velleitaria. Ma, assieme e alla base dei programmi (vedi qui: 1, 2, 3 e 4), deve esistere un modello culturale ed esistenziale in grado di realizzare una vera e propria rivoluzione antropologica, e di opporre, di conseguenza, un «Uomo nuovo» (essenzialmente politico) al «fantoccio-consumatore» globalizzato e all’«individuo-codice a barre» alienato e dis-sociato.
In particolare a giovani e studenti, dimenticati e sviliti – al di là della facile demagogia – dai politicanti di turno, il messaggio del Blocco Studentesco offre risposte concrete ed entusiasmanti, riassumibili in una lotta disinteressata, su tutti i fronti, per riappropriarsi dell’avvenire che è stato loro rubato. Nell’epoca del precariato e delle caste/cricche dei vecchi oligarchi, allorché sembra smarrita ogni bussola e ogni coordinata, il Blocco chiama a raccolta i giovani dicendo loro che è possibile, se lo si vuole, tornare a essere i protagonisti della Storia, che è possibile, attraverso la volontà e il sacrificio, riprendersi il proprio destino, «riprendersi tutto».
Tutto ciò trova il suo fondamento nel recupero/attualizzazione di miti viventi e volontaristici fortemente mobilitanti, quali ad esempio il futurismo, lo squadrismo, l’impresa fiumana, i pirati della Tortuga, il sindacalismo rivoluzionario e, ultimamente con maggior enfasi, il garibaldinismo. Miti mobilitanti – si diceva – capaci di (ri)creare un immaginario affascinante e più largamente comunitario, che esaltano una visione eroica della vita fatta di valore, coraggio, solidarietà, generosità, gerarchia, libertà e sacrificio. Sicché non è difficile comprendere il fascino esercitato sugli studenti da motti incisivi e ardenti come «Giovinezza al potere», «assalta il futuro» e «17 anni per tutta la vita», i quali celebrano l’entusiasmo genuino e il furore scanzonato propri della gioventù, l’unica, quest’ultima, capace – come recita una recente e immaginifica canzone degli ZetaZeroAlfa – di «donare questa vita come getteresti un fiore».
C’è di più: il Blocco Studentesco (e CasaPound più in generale) ha ormai anche un suo «mito fondativo», che mette ben in luce, oltre alle ovvie ed evidenti filiazioni storiche, la sua natura innovativa, irriducibile e originale (nonché originaria), tanto che luoghi come il Cutty Sark e il nr. 8 di Via Napoleone III sono diventati spazi metafisici di pratica comunitaria e metapolitica, in grado di suscitare inoltre meraviglia e curiosità quasi ‘mistica’ in simpatizzanti ed estimatori. Il Blocco e CasaPound, quindi, non si configurano più, o – meglio – non solo come l’eredità di un’esperienza storica e umana, ma piuttosto come l’inizio, la fondazione, la tracciatura di un solco nella Storia e nel Destino.
E «tracciare un solco» vuol dire, come intendevano i nostri padri, fondare la civitas, la polis, simbolo di una nuova politica che torna ad essere creazione di volontà e sacrificio.
Su un altro punto vorremmo poi porre l’attenzione: per decenni quasi tutti i gruppi «antagonisti» hanno agito e atteso il momento opportuno per «fare la rivoluzione». Ebbene, noi non abbiamo bisogno di aspettare alcuna «saturazione del mercato» o alcuna fine di qualsivoglia Kali Yuga per fare la rivoluzione, perché noi, la rivoluzione, la stiamo già facendo. È una rivoluzione che parte anzitutto da se stessi: è il continuo miglioramento di sé, l’annullamento del proprio ego, del proprio egoismo, del proprio egocentrismo, del proprio narcisismo, per la (ri)nascita nel noi. È pertanto una rivoluzione severa e impietosa, una «rivoluzione permanente», una «palestra dell’anima».
Anche l’affermazione «stiamo facendo la rivoluzione», tuttavia, rischierebbe di essere inesatta. Perché noi, sostanzialmente, non facciamo la rivoluzione: siamo noi stessi la rivoluzione. Noi non facciamo i rivoluzionari, non giochiamo a fare i rivoluzionari: noi siamo rivoluzionari.
E questa rivoluzione, in definitiva, non può che essere realizzata dai giovani. I nostri nonni e i nostri padri ci hanno infatti consegnato un mondo di rovine e macerie, fatto di odio politico, disagio sociale, bancarotta morale (prima ancora che materiale), opportunismo, individualismo e corruzione. Hanno deluso: adesso è il nostro momento! Una volta qualcuno disse che «nei momenti felici la gioventù di una nazione riceve gli esempi, nei momenti difficili li dà». È proprio questo l’obiettivo dei ragazzi del Blocco: dare esempi a chi, per viltà o per inadeguatezza, ha tradito le nostre speranze, il nostro entusiasmo e la nostra gioia di vivere, dicendoci magari che «va tutto bene». E tutto ciò lo facciamo e lo faremo perché i giovani hanno sempre ragione, anche quando hanno torto. Perché abbiamo stabilito che il futuro ci appartiene, e dunque veniamo a riprenderci tutto, noi che siamo – come avrebbe detto Marinetti – «gli ultimi studenti ribelli di questo mondo troppo saggio».
Come realizziamo e realizzeremo questa rivoluzione? Con amore, con un «disperato amore» temprato e sublimato dal combattimento nelle scuole e nelle università, lasciando la facile e inutile indignazione ai frustrati e ai pantofolai.
Irrazionale voglia di vivere, interventismo rivoluzionario, adesione entusiastica e dionisiaca alla vita, goliardia dirompente, visione eroica e volontaristica dell’esistenza, etica epica estetica: questi gli ideali e il messaggio che il Blocco Studentesco propone e offre ai giovani, gli «architetti del domani». Questa la «visione del mondo» di una gioventù che alla discoteca ha preferito il rito comunitario, che alla passività della speranza ha preferito l’energia attiva della volontà, che alla vita comoda e alla rassegnazione ha preferito la trincea.
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