È appena uscita una ristampa del memorabile Diario di uno squadrista toscano di Mario Piazzesi. Un resoconto nato come documento privato, non destinato alla distribuzione di massa. Per questo motivo, l’opera rappresenta più di ogni altra una garanzia di genuinità di fronte a quel fenomeno straordinario che fu lo squadrismo. Un contributo fondamentale che implementa la trattazione saggistica, la quale per sua natura, spesso, sottrae alla storia la sua caratteristica fondamentale: l’essere stata fatta dagli uomini.
E uomini sono gli squadristi che in quegli anni insanguinati e terribili (eppure così fecondi per il futuro dell’Italia e dell’Europa) seppero rappresentare la linfa vitale di una nazione in rinnovamento, uscita da una prova suprema alla quale la migliore gioventù italiana aveva donato tutta sé stessa, e che adesso reclamava il diritto a segnare il destino del Paese.
Uomini, dicevamo, ma animati da una straordinaria forza mistica, capace di trasformare la massa in popolo, il gruppo in squadra. Soldati politici di uno spessore ben più profondo di quello che la storiografia scolastica descrive, quando attribuisce loro il riduttivo ruolo di «bassa manovalanza» del «fascismo politico».
Abbiamo intervistato Adriano Scianca, Responsabile Cultura di CasaPound Italia e autore della consistente prefazione al libro.
Abbiamo intervistato Adriano Scianca, Responsabile Cultura di CasaPound Italia e autore della consistente prefazione al libro.
Perché ristampare Diario di uno Squadrista Toscano?
Semplice: il Diario era stato pubblicato per la prima e unica volta molti anni fa, da una casa editrice «ufficiale» ma di nicchia. Negli ultimi anni era praticamente introvabile e le poche copie che ancora circolavano erano generalmente malridotte a causa della pessima rilegatura della vecchia edizione. Ripubblicarlo, quindi, è stato innanzitutto un gesto doveroso dal punto di vista culturale: è stato rimesso in circolazione un documento di inestimabile valore per la conoscenza di prima mano del fascismo (e non foss’altro che per questo bisognerebbe dire mille volte grazie alla Seb). Ma questa nuova edizione ha anche un valore politico. Significa indicare il nord, mostrare l’esempio in tutta la sua sfolgorante potenza. Noi non ci esauriamo in noi stessi, non facciamo politica per onanismo, non passiamo il tempo a specchiarci. Noi abbiamo degli archetipi, sappiamo che c’è qualcosa di più grande, qualcosa di normativo. Il Diario ci aiuta a ricordarcene.
Piazzesi descrive una Firenze nel caos, nella quale morti e feriti sono all’ordine del giorno. Secondo gli standard del pensiero omologato questa sarebbe la prova dell’intrinseca malvagità dei cosiddetti «etremismi». Come rispondere?
La parola «estremismo» non l’ho mai capita, è uno di quei termini vuoti, buoni solo per la polemica spicciola. Giolitti – tanto per fare il nome dell’esponente più noto dell’italietta liberale e pre-fascista – non era forse estremamente vile, corrotto, incapace? Anche questo è un estremismo, in fondo...
Pensi che esistano differenze sostanziali fra il diario di Piazzesi e le innumerevoli «memorie» prodotte dall’antifascismo antemarcia e post-8 Settembre nel corso di questi anni?
Ogni libro di memorie dice qualcosa. L’imbecillità dell’estensore, al limite. Il pregio del Diario di Piazzesi è di saper catturare la temperie di un’epoca come in un affresco generazionale, pregio che lo stesso De Felice riconobbe. Il fatto di essere stato scritto per uso privato ha pesato in senso positivo. Le memorie antifasciste, essendo stato l’antifascismo vincitore, sono troppo spesso poco più che curriculum gonfiati da chi voleva far carriera sulle macerie di una guerra civile. Gonfiandoli bene si può anche diventare un Giorgio Bocca, per dire...
Domanda senza retorica, come piace a noi: erano violenti questi squadristi?
Risposta senza retorica: sì. Erano violenti in un’epoca in cui la violenza era moneta corrente. Da parte di tutte le parti in causa. Al riguardo basti ricordare le parole degli storici (antifascisti) che ho citato nella prefazione. Per Emilio Gentile, ad esempio, il «biennio rosso» fu costituito da «un’ondata di conflitti di classe senza precedenti nella storia del paese, condotti in gran parte dal partito socialista massimalista all’insegna di una imminente rivoluzione per instaurare anche in Italia, con la violenza, la dittatura del proletariato, come annunciava il nuovo statuto che il Partito socialista aveva adottato nel 1919». Oppure leggiamo Mimmo Franzinelli: «Il fenomeno squadrista è più complesso e sfaccettato di quanto non lo si sia rappresentato. E porta con sé alcuni miti da sfatare. Non è vero che a sinistra ci fossero solo vittime inermi, come pure non risponde a realtà che la violenza fosse patrimonio di una parte sola: i “sovversivi” si difesero e agirono con puntuali offensive, per quanto armi, tecniche e condizioni lo consentissero. È infondato sostenere che i fascisti aggredissero a freddo e muovessero all’attacco in dieci contro uno: diversi di loro morirono per i colpi di franchi tiratori».
Tra i legionari di Fiume, gli squadristi del ’19 e le Brigate Nere del ’43 c’è, secondo me, un filo conduttore poetico e romantico; concordi?
Più che «poetico e romantico» direi politico ed esistenziale. È quel misto di goliardia, intransigenza, mistica, volontà, coraggio e gioia di vivere. È il demone della giovinezza. È la bellezza sovrumana del fascismo universale.
Leggendo il libro si può notare quanta importanza dava Piazzesi alla sua squadra, è chiaro il rapporto di stretto legame tra i camerati di una stessa squadra: pensi sia stato un fattore determinante per la rivoluzione? Pensi che questo sentimento di forte comunitarismo sia poi stato trasmesso a tutta l’Italia Fascista?
Certo, il cameratismo, la fratellanza, costituiscono l’ossatura dello squadrismo. Ernst Von Salomon diceva che «il cameratismo si regge su di un vincolo di servizio, un patto in funzione di un terzo elemento: una persona straordinaria, un’idea, un compito eccezionale – forse, nell’ipotesi più attenuata, un comune universo di simboli». È per questo che «camerata» è più che «amico». Ovviamente questo tipo di legame è in sé tipico delle avanguardie, magari vastissime, ma pur sempre avanguardie. È tuttavia certamente vero che il senso del fascismo fosse quello di fare della nazione intera una «comunità organica di destino».
Nella prefazione sostieni che lo squadrismo avesse un marcato risvolto spirituale; spiegaci cosa intendi.
Il senso iniziatico dell’ingresso nella squadra, il culto dei morti, la sacralità del gagliardetto, il rito del «Presente!», lo spirito di sacrificio, la possibilità sempre incombente della morte fanno dello squadrismo il primo momento di quella che in seguito sarà chiamata «mistica fascista». Questa consapevolezza era molto marcata già negli squadristi stessi. Pensa a Piazzesi quando di tanto in tanto torna nella buona società fiorentina da cui proveniva: trova un mondo di morti. Lui ormai è un iniziato, non può più trovare posto tra «gli altri». Pensa anche a quel che dico nell’introduzione circa i soprannomi: è assai verosimile che l’uso di affibbiare nomignoli ai nuovi arrivati non fosse solo un gioco goliardico ma avesse anche il senso di una sorta di rinascita, di assunzione di una identità superiore e più consapevole. Questa usanza di inventarsi soprannomi, peraltro, mi ricorda qualcosa...
Nel diario Piazzesi critica, in modo neanche troppo velato la dirigenza del Fascismo, i «rammoliti di Milano»; nel ’43 si dichiara pronto a dare la vita per Mussolini e per il Fascismo. Alla fine dei conti, l’operato dei rammoliti di Milano soddisfece anche un intransigente fiorentino?
Piazzesi era un giovane uomo d’azione, Mussolini era un uomo d’azione ma anche un politico di razza, con tutto quel che ne consegue in termini di pragmatismo e intelligenza tattica. Che in alcuni momenti ci potessero essere delle divergenze è naturale. Ma alla fine contano i fatti. È grazie a Mussolini che la lotta di Piazzesi acquisisce un senso. Cosa che l’ex squadrista fiorentino capirà perfettamente, dimostrando la sua consapevolezza politica. E anche dopo la sua messa da parte, in cui ebbe un ruolo Pavolini, Piazzesi perse gli incarichi ma non la fede, tanto da farsi trovare pronto a tornare in gioco nella Rsi, dove di certo non fu un problema per lui trovarsi al fianco del gerarca con cui aveva avuto dei problemi in passato. Mi sembra una lezione da tener presente, soprattutto da parte di chi oggi subordina la fede all’ego. Ce ne sono molti in giro di tipi così, purtroppo...
Cosa c’è dello squadrismo anni ’20 in CasaPound Italia?
Il contesto è radicalmente mutato e certo i metodi necessari allora, durante la guerra civile, non possono essere riproposti oggi, questo sia detto con la massima chiarezza. Resta, tuttavia, uno stile che va al di là delle contingenze e che permane identico in guerra come in pace. La goliardia e la mistica, la filosofia del «me ne frego», il sacrificio con il sorriso sulle labbra, la volontà di «donare questa vita come getteresti un fiore», il gusto della beffa e della sfida, il senso della comunità: tutto questo sicuramente ci appartiene. Ma il senso di questo rapporto va chiarito: non basta individuare il proprio modello storico per essere uguale a quest’ultimo e appuntarsi di conseguenza medaglie di pongo sul petto. Al contrario: ci si sceglie un esempio per autosuperarsi nello sforzo di raggiungerlo, per trascendere se stessi, per migliorarsi. Per mantenere, infine, l’umiltà. Quando guardo ai politici che vengono dal neofascismo mi accorgo che i pochissimi che mantengono riferimenti «militanti» hanno comunque in mente solo la loro esperienza, nel loro gruppo, nella loro città, nel loro tempo. Gente per cui l’alfa e l’omega del fascismo è il Fronte della gioventù (sia detto con il rispetto del caso, ovviamente). E questi sono i migliori, dato che gli altri hanno scelto il carrierismo fine a se stesso. Ecco, in un ambiente così CasaPound è rivoluzionaria perché non cessa di meditare sull’Origine, non cessa di succhiarne linfa vitale e ispirazione. Noi siamo i figli di qualcosa di più grande, noi siamo fedeli a qualcosa che viene prima di noi, è sopra di noi e andrà oltre noi. Questo ci aiuta a guardare al mondo e a noi stessi con le dovute proporzioni.
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