In molti atenei italiani vi saranno a breve le elezioni accademiche, sicché torna a farsi attuale il dibattito sui programmi delle varie liste che intendono cambiare l’Università. Già da questo semplice enunciato emergono due interrogativi: ma perché solo quando ci sono le elezioni si comincia a parlare di programmi? Ma i vari soggetti politici la vogliono cambiare per davvero questa Università?
È noto d’altronde che l’elettorato studentesco universitario è particolarmente abulico e indifferente, soprattutto se si tratta di parlare di riforme che possano migliorare il nostro sistema accademico: infatti lo studente medio si iscrive, studia, fa gli esami e non vede l’ora di avere il pezzo di carta per poi potersi gettare a capo fitto nel mondo del lavoro. Vanno bene le battaglie per ottenere la mensa di facoltà o per attrezzare una navicella che ci porti comodamente in sede ma, per quanto riguarda lo studio, «volete cambiare le cose? Basta che non mi scombinate le carte in tavola e che mi lasciate laureare in pace». Legittimo per carità… Ma allora dov’è la democrazia? Dov’è la tanto sbandierata coscienza civile degli studenti-cittadini? Dov’è la partecipazione? Mistero: miracoli della democrazia delegata…
Ma a parte la stragrande maggioranza degli studenti (circa il 90%, se non il 99,9), alla quale stanno a cuore solamente taluni aspetti burocratici (priva cioè di una visione ad ampio respiro), coloro che si occupano di politica nelle università ci sono. Senza perderci in complicate divisioni e suddivisioni, possiamo osservare che le posizioni principali sono essenzialmente due: gli uni avversano l’entrata dei privati (sotto qualsiasi forma) negli atenei, gli altri si battono invece contro lo strapotere dei «baroni». Posizioni entrambe condivisibili, benché con alcune riserve.
Entrambe, tuttavia, nascondono il rovescio della medaglia. I primi infatti contribuiscono all’isolamento delle università italiane, sganciate pressoché totalmente dal mondo del lavoro, e divenute oramai meri stipendifici. Sicché i «baroni» non possono che rallegrarsi di questi fidi custodi (consapevoli?) dei loro privilegi, a cui non mancano conseguentemente di offrire il proprio appoggio. I secondi, al contrario, folgorati dal sistema universitario-aziendale statunitense, invocano giustamente la meritocrazia, senza preoccuparsi tuttavia della calata dei barbari privatizzatori, dell’arrivo cioè di nuove lobbies che andranno a scontrarsi con le oligarchie dominanti in una guerra senza quartiere, la posta in palio della quale non è certamente il bene supremo: la «salute» dell’Università.
Ma giacché noi pensiamo che la salus publica (o universitaria) sia suprema lex, non ci curiamo né degli interessi dei «baroni», né di quelli dei privati rampanti. Ben vengano allora i finanziamenti esterni, purché scrupolosamente disciplinati e subordinati al bene comune (cioè dell’Università, cioè nostro), e ben vengano anche l’autonomia e la libertà di ricerca degli atenei, purché non più facili prede della tirannia «baronale».
Al di là però di questi delicatissimi temi, esiste un problema fondamentale, che precede gerarchicamente tutti gli altri. Ossia l’idea che noi abbiamo di Università, il ruolo cioè che essa deve rivestire nel destino di una nazione.
Il Blocco Studentesco, volendo superare le vetuste contrapposizioni e rianimando un sano «Sindacalismo universitario», propone essenzialmente due punti imprescindibili: la partecipazione attiva ed effettiva degli studenti alla politica accademica; una rivoluzione culturale.
La presenza degli studenti nei vari organi consiliari universitari infatti, sic stantibus rebus, altro non è che il contentino gentilmente elargito dalle alte gerarchie accademiche agli indomiti (?) giovani. Qualche formale chiacchierata in sede di assemblea, e gli arcigni (?) ragazzotti investiti del potere (?) si illudono di contare qualcosa. Senza un’adeguata presenza studentesca nei vari organi universitari, infatti, è inutile e offensivo venirci a parlare di «democrazia», «partecipazione», «potere degli studenti» e amenità varie, dal momento che, al massimo, fungiamo da innocui soprammobili in sede assembleare. Al contrario l’insediamento del 50% di studenti eletti in ogni organo d’ateneo, dal Senato al Consiglio d’Amministrazione (importantissimo!), unito al diritto di veto in merito ai provvedimenti fondamentali, rappresenta la condicio sine qua non per poter almeno tentare di realizzare i nostri programmi, e sicuramente per poter incidere maggiormente nella politica d’Ateneo.
«Neoterocrazia», dunque, la Giovinezza al Potere. Il primo punto è proprio questo: è da noi giovani che deve (ri)cominciare la nostra azione (l’indign-azione la lasciamo ai piagnoni), senza padri putativi e padrini, senza deleghe e santi crismi.
Il secondo punto è, invece, la già accennata rivoluzione culturale. Progetto troppo ambizioso? Termine eccessivamente roboante? Forse. Ma noi non abbiamo paura di nulla, neanche delle parole. E certamente non abbiamo timore nel concepire un’Università nuova, rinnovata, che sia l’avanguardia della futura Europa politicamente libera e sovrana, finalmente padrona del proprio destino. Ed è dall’Italia, come ieri, come sempre, che divamperà il salutare incendio della rivoluzione, poiché – come noto – il fuoco, oltre a distruggere, purifica.
Il 4° punto del programma del Blocco Studentesco Università, il cosiddetto «Progetto Piattaforma», infatti, contiene in sé i germogli di un «Nuovo Umanesimo». Vediamo perché.
Ogni materia consta solitamente di un corso istituzionale – il quale prevede l’apprendimento del relativo manuale, e che intende quindi fornire allo studente le conoscenze di base della materia stessa –, di un corso monografico e di un corso specialistico (quest’ultimo di norma riservato agli studenti delle Lauree Magistrali). Il corso monografico e quello specialistico rappresentano (o meglio: dovrebbero rappresentare) l’autentico e più genuino livello superiore di insegnamento universitario. Con grande amarezza, tuttavia, ci rendiamo presto conto che, nella stragrande maggioranza dei casi (non mancano però virtuose eccezioni), questi corsi risultano essere dei meri «prolungamenti» o «riproposizioni» del modulo istituzionale, benché affrontino uno specifico tema in maniera più circostanziata.
Il problema non risiede però – come un’analisi affrettata potrebbe suggerire – nei programmi, bensì nel METODO di insegnamento. In effetti, se ci fate caso, le modalità attraverso le quali tali corsi vengono svolti non differiscono poi molto da quelle dei «corsi-base»: il professore, di fronte a una platea più o meno vasta, spiega – spesso ininterrottamente – per una o due ore l’argomento del giorno, magari riservando le domande e le delucidazioni alla fine della lezione; egli fornirà poi una o più opere monografiche di riferimento e il gioco è finito. E noi studenti? Che cosa abbiamo ottenuto? Abbiamo imparato qualcosa di nuovo, certo. Ma altrettanto certamente abbiamo «subìto» la lezione in maniera passiva, con la consapevolezza magari che parte di quanto abbiamo appreso sbiadirà lentamente col tempo (è inevitabile). E allora, che cosa ci rimane? Nozioni, per quanto importanti e fondamentali, ma nient’altro che nozioni. E purtroppo non abbiamo invece imparato un METODO, una forma mentis realmente scientifica, la quale dovrebbe essere il vero fine dell’insegnamento universitario. Infatti una nozione può sbiadire, ma un metodo – se ben acquisito – rimane per sempre.
Ebbene, il «Progetto Piattaforma» prevede, in luogo dei corsi monografici e specialistici, l’istituzione di SEMINARI, traendo ispirazione dal modello tedesco. Un’ispirazione che – si badi bene – non è però brutale «trapianto» di un sistema in un differente contesto. Tali seminari, dunque, che potranno essere divisi in due o più categorie a seconda del livello di difficoltà, saranno composti da un numero massimo di 25 studenti, seguiranno gli stessi calendari dei corsi monografici e specialistici (quindi anche per quanto riguarda la quantità di ore e l’offerta di CFU), e sarà richiesta la frequenza obbligatoria. In questi seminari gli studenti parteciperanno attivamente alle lezioni tramite relazioni (i Referate tedeschi), ricerche personali e discussioni aperte. E il professore? Di certo non scomparirà, ma diverrà un supervisore delle lezioni, con la facoltà – si capisce – di rettificare, riprendere, consigliare, ecc. gli studenti, con i quali instaurerà un continuo e proficuo rapporto dialettico da primus inter pares. Gli esami saranno preferibilmente composti da:
- una tesina di circa 10-12 pagine (ma la mole del lavoro sarà determinata dalla quantità di CFU prevista dal corso), il cui tema sarà concordato preventivamente con il docente;
- una breve parte orale (10-15 minuti) a lavoro concluso, nella quale si discuterà del proprio elaborato.
Il ristretto numero di studenti partecipanti a un singolo seminario, inoltre, darà la possibilità di organizzare più corsi per materia, che dovranno essere affidati alla direzione di giovani e volenterosi ricercatori, i quali, riscattati dalla loro triste condizione di «portaborse» dei professori, potranno far mostra delle loro capacità e del loro valore.
Ovviamente ogni Corso di Laurea avrà seminari ad hoc e confacenti alla propria precipua natura. Ad esempio, per quanto riguarda l’insegnamento delle scienze naturali, essi potranno essere costituiti da corsi superiori da svolgersi in laboratorio.
Tali seminari-laboratori dovranno essere infine il collegamento indispensabile tra il mondo accademico e il mondo del lavoro. Quest’ultimi, infatti, non possono assolutamente restare – come ora – due compartimenti stagni, non comunicanti tra loro.
Ai più non sarà sfuggita l’intrinseca portata rivoluzionaria di questo progetto. Una rivoluzione – come dicevamo – eminentemente culturale, poiché si tratta di scegliere tra i due concetti contrastanti di istruzione (il dispensare cioè unicamente nozioni), da una parte, e di FORMAZIONE o EDUCAZIONE, dall’altra. «Educare» significa infatti etimologicamente (dal latino e-duco) ‘condurre fuori’, suscitare ed alimentare energie, accompagnare lo studente fuori dagli angusti confini del sapere preconfezionato (il manuale o il monologo del docente) verso una superiore consapevolezza delle proprie qualità intellettuali. Significa risvegliare e potenziare il senso critico del discente, educarlo ad un METODO. È la scelta tra il soliloquio e il DIALOGO.
È dunque una rivoluzione «umanistica»: se nel Medioevo, infatti, l’auctoritas del professore era «sacra e inviolabile» (della serie ipse dixit: «è così perché l’ha detto lui»), la rivolta culturale dell’Umanesimo italiano generò invece maestri come Guarino Guarini e Vittorino da Feltre, le scuole dei quali erano luoghi di alta formazione intellettuale in cui il docente dialogava continuamente e cooperava pariteticamente con i suoi discepoli. Una formazione che non era però strettamente «umanistica» (nel senso di studia humanitatis), bensì organica e completa, grazie allo studio delle scienze naturali, giuridiche, matematiche, mediche, artistiche e grazie all’indispensabile esercizio fisico. Una formazione che era anche gioco e divertimento, tanto che alla scuola mantovana di Vittorino fu dato il significativo nome di «Zoiosa».
Si tratta quindi di un ideale universitario che si riconnette, prima ancora che al modello seminariale tedesco (che ne è invece derivazione), alla nostra tradizione nazionale e continentale. Un ideale di Rinascimento che, sorto in Italia, infiammò tutta l’Europa. E così, oltre a Leonardo, Michelangelo, Alberti e Machiavelli, avemmo Rabelais, Erasmo, Montaigne e Moro, per non dire di tanti altri.
E non è certo un caso che il meraviglioso manifesto del Blocco «L’Università che vogliamo», così come la copertina di «Idrovolante», ritragga la Scuola di Atene di Raffaello, in cui centralmente domina la figura di Platone, il filosofo della critica e del dialogo.
È dunque grazie all’esempio dei nobili padri della nostra civiltà che la nuova gioventù d’Europa si riapproprierà del suo ruolo nella Storia. È da qui che prenderà vita l’«Uomo nuovo», l’«Uomo del Terzo Millennio», il quale si appresta a tornare faber suae fortunae, ossia artefice del proprio destino.
La «Neoterocrazia» e questo «Nuovo Umanesimo» rappresentano, in definitiva, la volontà degli studenti di diventare finalmente protagonisti della vita universitaria, senza timori e complessi di inferiorità. Sono la nostra marinettiana «sfida alle stelle», ossia la riaffermazione del sacrosanto diritto e dovere di costruire il nostro futuro, attivamente, potentemente, categoricamente.
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