mercoledì 2 marzo 2011

In picchiata su Linate: gli ultimi minuti di vita di Enrico Mattei (2)

La prima parte: leggi qui.



McHale riprende: «E sulla distribuzione ci siamo. Manca però l’approvvigionamento. Se in Italia si trovavano solo ‘pozzanghere’, come avete fatto a rendere stabili e costanti le forniture?».
«Alcuni suoi illustri connazionali mi etichettarono a dovere: “petroliere senza petrolio”. Erano i primi mesi all’Agip, ingenuamente andai alla ricerca di petrolio e gas da chi bramava mettere le mani su ciò che non avevo la benché minima intenzione di smantellare. Fu una riunione molto rapida, appena mi resi conto della loro altezzosità che non avrebbe mai prestato ascolto a chi gli aveva rovinato la torta, mi alzai, salutai cortesemente e ripresi l’aereo verso casa. Decisi, testone come sono, a fare tutto da solo».
«Eppure, non avevate di tecnologie per portare avanti un’attività di questo tipo».
«Avevano il coraggio e la volontà. Ora posso dire che ci sono bastati».
«Lei ha sfidato il potere di compagnie che muovono il mondo».
«È per questo che ora stiamo volteggiando in aria, non crede? Le soprannominai ‘Sette Sorelle’, una famiglia di rapporti incestuosi. Potenti, potentissime. I capi di Stato e di governo si inchinavano in loro presenza. Sfruttai questo loro punto di forza».
«È quindi giusto dire che le ha sfidate?».
«In realtà no. Non sfido, non vado di reazione. Io agisco. Mi resi conto che in quel rapporto di superiorità rispetto alla politica potevo trovare lo spiraglio per inserire l’Eni».

McHale è confuso: «E come?».
«Mi sono impegnato nel dare un volto a contesti che, nella crisi che li attanagliava dagli anni ’50, potevano trovare un’occasione di riscatto e diventare forze storiche. Vede, le grandi compagnie offrivano percentuali ridicole sui ricavi grazie alle pressioni politiche. Io, che non potevo puntare sulla spinta di appoggi politici dello stesso calibro, decisi di agire sullo sviluppo sociale ed economico di quei paesi. Se le sette sorelle offrivano il cinquanta e cinquanta, perché non offrire il venticinque percento in più? Tre quarti a loro, ne avevano il diritto. Il resto a noi e niente intermediari. Abbiamo bisogno di idrocarburi e abbiamo l’Eni: ce lo andiamo a prendere senza elementi che si frappongano a parassitare percentuali sui contratti. Lineare, no? È un ragionamento cinico, lo so ma allo stesso tempo di giustizia, di sovranità di entrambe le parti e che spiazzò l’architettura su cui il sistema si reggeva . L’Italia ha una posizione geopolitica di prim’ordine che ci chiedeva di essere sfruttata, mentre i paesi con cui interloquivamo disponevano di risorse che servivano a noi quanto a loro. Ci si capiva in un batter d’occhi perché, nonostante la decolonizzazione, non potevano dirsi ancora liberi e neanche noi lo eravamo. C’era una solidarietà di fondo tra loro e l’Italia, un’affinità che nasceva da una simile situazione di partenza. Il vantaggio era reciproco e il mio sistema delle quote ha fatto scuola, tanto che due anni fa i paesi produttori si sono consorziati per spuntare contratti sempre migliori. È stata una reazione a catena che mi vanto di aver avviato. Un domino devastante perché minò alle fondamenta l’intera impalcatura del cartello».

«A questo si devono i vostri successi nell’ottenimento delle forniture?».
«Principalmente sì, al rispetto che ho per le persone e per i paesi, più che per il petrolio o per il denaro in sé. Anche su questo eravamo in sintonia. Inoltre, accettavamo di accollarci l’intero onere del rischio. Il contratto sarebbe stato siglato alle condizioni che le ho detto solo dopo che l’Eni avesse portato a compimento – a nostre spese e, possibilmente, con successo – le operazioni di trivellazione di ricerca. Conto sulle dita di una mano gli accordi, sottobanco o alla luce del sole, che non siamo stati in grado di portare a conclusione. Un miracolo visto che potevamo fare affidamento su noi stessi e basta».

«Si comincia con l’Iran».
«E proseguimmo con Giordania, Tunisia, Libia, Libano, Algeria e Marocco».
«L’Unione Sovietica…».
«Anche. Ricordo ancora le reazioni scomposte: chi mi accusava di apertura al demonio, chi di non seguire la dottrina. Il tramite dell’operazione fu Luigi Longo, segretario del Partito Comunista che mi diede l’opportunità di incontrare Nikita Chruščëv. Lo conobbi durante la resistenza e, nonostante il divario a livello – tra molte virgolette – “ideale” che ci separava allora come oggi, mi aiutò di buon grado. Della dottrina non mi interessava. L’Italia aveva bisogno di petrolio, l’Unione Sovietica di tecnologie estrattive e di trasporto. Era fatta: a loro 100 milioni di dollari di forniture industriali da aziende Italiane, a noi 100 milioni di dollari di petrolio, più di un terzo del fabbisogno nazionale dell’epoca. Viste le cifre, avremmo ribassato delle grasse percentuali sui prezzi di cartello delle sette sorelle con vantaggi incalcolabili per le Finanze dello Stato e le tasche dei cittadini. Solo dei fessi non avrebbero consentito l’accordo che è stato siglato, ma dopo oggi dubito potrà avere un futuro all’altezza delle aspettative».
«Perché?».
«Perché non è una accordo commerciale. Il mondo a Yalta è stato diviso in due zone d’influenza, con l’Europa smembrata e lasciata terra di conquista. L’Italia si sta ponendo al centro e Fanfani sta lavorando – per quel poco che gli è concesso – ad una posizione di mediazione che tenti di distendere il probabile conflitto e, nel mentre, cercare di far emergere sullo scacchiere il nostro paese. Non può fare tutto da solo e infatti ha, o meglio: aveva, me».
«Pensa che la tela tessuta sin ora possa disgregarsi?».
«L’aereo in fiamme è un ottimo avvertimento. Non sarà l’unico».

«Proseguiamo sulle forniture: l’Egitto».
«Uno dei nostri migliori interlocutori. Nasser è realmente un uomo libero, di giustizia, che non si fece alcun problema a nazionalizzare l’asset più importante del suo paese: il canale di Suez».
«Condusse il suo paese in guerra».
«Era necessaria».
«Alcuni hanno notato una rassomiglianza tra voi».
«C’era. L’ho capito quando mi resi conto che bastava uno sguardo per intenderci».
McHale fa un mezzo sorriso: «Giordania, Egitto, eccetera… di quell’area manca però un paese».
«Quale?».
«Israele».
«Ha petrolio?».
«Poche riserve».
Mattei strizza l’occhio: «bene, allora non ci interessa. Chiusa qui».

«Torniamo in Italia?»
«Meglio».
«Torniamo all’Eni».
«Meglio ancora».
«Perché, dopo aver preso in mano l’Agip e averla ri-fondata, non ha deciso di vendere? D’altra parte era il suo compito, forse modificato dagli eventi ma pur sempre la ragione per cui è stato messo al timone dell’azienda pubblica».
«Dice bene: azienda pubblica».
«Quindi?».
«Azienda, pubblica. In primis: azienda, che ho condotto, salvato e sviluppato. L’azienda pubblica, prima di essere pubblica, è azienda e non un ente di beneficenza. In primis, quindi, rigore di bilancio e di gestione. Dopo un primo periodo in cui elemosinavo prestiti e li garantivo con le mie proprietà industriali e personali, sono poi riuscito a fare un ottimo lavoro. In secundis: pubblica. Azienda pubblica, le suona meglio adesso? Se non avesse un compito ben oltre la contabilità, sarebbe una società anonima o una società per azioni, siamo d’accordo? Invece siamo di fronte a qualcosa che va oltre il bilancio da chiudere il 31 dicembre».
«Temo di non capire».
«Vedo lontano chilometri che la sua formazione è lontana da tutto questo. Si metta tranquillo, non siamo in un regime di socialdemocrazia assistenzialista. L’azienda pubblica non è un ospizio di carità, come ebbe a dire il presidente Einaudi. Nemmeno è un’azienda che deve staccare dividendi per far contento qualche ricco annoiato che decide di scommettere sul corso dei suoi titoli. Se l’economia è politica, l’azienda pubblica è uno strumento della politica. Se la politica deve tradursi in sovranità ed indipendenza, come nella mia concezione, l’Eni ha alcune chiavi nel percorrere questo sentiero. Senza Eni, senza l’industria pubblica, la politica resterebbe sul ramo legislativo senza aver alcun grimaldello per intervenire nella società, nelle relazioni industriali, in quelle diplomatiche».
«Sta dando ragione a chi indica nel consiglio di amministrazione dell’Eni un governo ombra».
«Ma quale governo ombra! Io lavoro per il governo Italiano, sono a tutti gli effetti un loro dipendente e, per quel che faccio e rischio, non prendo neanche chissà che stipendio. Ho certo una forte autonomia, ma sta a Palazzo Chigi staccare l’assegno a fine mese. Sono un funzionario come altri, con una testa dura e un’idea di Stato diversa da quella che possono avere i membri del Consiglio dei Ministri».
«Di privatizzazione quindi non se ne parla?».
«Quando se ne parlerà vorrà dire che chi di dovere avrà fatto il suo sporco gioco e si dovrà ricostruire da zero la sovranità e l’indipendenza dell’Italia».
«Parla come se fosse il ministro degli esteri».
«Me lo chiedo anche io ogni tanto. Sarà che, forse, sotto sotto, la politica estera dell’Italia la facciamo a Metanopoli e non di fianco lo stadio Olimpico?».

«Sovranità è una parola ricorrente. Che significa?».
«Avere la possibilità di scegliere in autonomia la strada verso il proprio futuro. Il futuro non appartiene a chi lo decide, il futuro va preso e creato dall’oggi: la sovranità è uno stato della mente prima che una prassi politica. La sovranità è ciò che tiene unite le membra e costituisce il fondamento dello Stato, di ogni Stato. Sul lato pratico, un ruolo-chiave è assegnato al settore dell’energia che stavo faticosamente cercando di ricostruire».
«In che modo?».
«Centralizzando. Provi a riflettere: Eni, ente nazionale idrocarburi; si riferisce ad un solo ambito. Provi a riflettere su questa altra sigla: Ene, ente nazionale energia. Un organismo unitario, a completo controllo pubblico, cui è riservata la produzione e la distribuzione dell’energia elettrica, del gas, del petrolio e a cui è assegnato il monopolio sui carburanti. In quest’ottica si inquadrano anche gli investimenti che stiamo operando nel nucleare, la fonte con la F maiuscola, il futuro per decenni a venire: e non esagero. In Italia vi è una crescente domanda di energia, la centralizzazione può essere l’unico modo sia per soddisfarla che per veicolare uno sviluppo armonico e uniforme dell’intero paese, a prezzi accessibili per tutti».
«Se si oppone alla privatizzazione, chiude la porta anche alla liberalizzazione del settore?».
«In economia gli ‘assoluti’ sono rari e, tra questi, uno è il monopolio naturale. Viste le infrastrutture necessarie, le pare che tanti e troppi operatori sarebbero in grado di sostenere le immani spese d’investimento e di gestione? Le opzioni sono due: si delega ad un unico operatore privato, straniero magari, lasciandolo libero di fare il bello e il cattivo tempo; o si assegna il controllo allo Stato. Non uno Stato qualunque ma uno Stato il cui governo e i cui dirigenti abbiano ben presenti le priorità del momento storico. Uno Stato in cui i compiti sono assegnati ad élites in grado di interpretare le necessità».
«Intende uno Stato etico?».
«Lo chiami come vuole. A me non interessano le definizioni, interessano gli obbiettivi e i risultati».
«Se prospettassi una situazione simile negli Stati Uniti mi prenderebbero per un bolscevico e rischierei l’internamento».
«Perché voi siete un paese sovrano, il vostro esercito e la vostra ragnatela diplomatica vi coprono le spalle. Noi no e abbiamo bisogno delle armi contrattuali, dell’industria pubblica, della garanzia di accesso a beni che stanno diventando di largo consumo e basilari per lo sviluppo economico».

«Si è fatto molti nemici?».
«Guardi lei, il nostro aereo è appena esploso».
«L’ultimo, in ordine di tempo?».
«Qualche mese fa Indro Montanelli, dietro pressione di qualcuno che gli ha passato documenti interni, ha avviato una campagna di stampa contro l’Eni, facendo leva sulle leggi infrante e così via. Da un punto di vista giuridico ha tutte le ragioni del mondo, ma penso non abbia ancora intuito per chi e per cosa stiamo lavorando».
«Anche lei ha un giornale, poteva rispondere».
«Si, ho fondato e sostenuto “Il Giorno” con distrazioni dal bilancio dell’Eni. La sua funzione voleva essere di propaganda, non dell’Eni ma di fiducia e per informare gli Italiani di quanto si stava facendo. Mi sono trovato costretto a usarlo ad arma difensiva, visti gli attacchi che provenivano da tutte le parti».

«A proposito di distrazioni dal bilancio, quanto c’è di vero sul finanziamento ai partiti?».
«Non sono dogmatico e mi posso permettere di considerare i partiti, se disponibili ad aiutarmi dal PCI al Movimento Sociale, come dei taxi. Salgo, pago la corsa e scendo. Senza pregiudiziali ideologiche. Lei forse, prima di prendere un taxi, chiede se l’autista ha votato Democratico o Repubblicano?».
«No, certo che no».
«Per l’appunto».
«Certo che la differenza tra un partito ed un taxi è abissale».
«In cosa? Siamo in una democrazia delegata, gli uomini di partito altro non sono che dei veicoli».
«Se ha una così bassa considerazione degli istituti politici Italiani, perché li finanzia?».
«Perché sono purtroppo gli unici che possono, anzi potevano – visto lo schianto che stiamo per fare – finanziare – a livello politico s’intende – il mio progetto che ha nell’Italia e non in qualche gruppo esterno la sua centralità strategica».
«Sarà realizzato?».
«Fanfani ha in serbo qualcosa, ma fa il vago. Tempo qui ad un mese giocherà l’asso. Ne sono convinto, mi fido di lui vista la scuola dalla quale proviene».
Bertuzzi sorride, compiaciuto: «qualche anno fa, diciamo una ventina non avresti detto lo stesso».
«Forse, ma sono abile a cambiare idea quando serve», gli risponde Mattei con l’ironia e la simpatica spietatezza che lo contraddistinguono.

McHale riprende: «Ha mai avuto paura, per lei e per la sua famiglia?».
«Ancora? Il nostro aereo è appena esploso».
«Quindi ne ha avuta».
«Non si trattava di paura. La paura e la fobia sono per i deboli di spirito, io al contrario ero convinto della strada intrapresa e sapevo di essere nel giusto. Allo stesso tempo ero conscio che avrei potuto finire male. Avevo ragione e ne vado fiero: significa che ho lavorato bene».

L’effetto della decompressione sta svanendo.
«Siamo arrivati alla fine?», chiede adombrato McHale, forse rattristato dal dover chiudere la più importante e bella conversazione della sua vita.
«Penso di sì», rispondono insieme Mattei e Bertuzzi.
«Chi la sta uccidendo?»
«“Tutti” le va bene come risposta? Ho pestato i piedi a troppe persone, ho una memoria di ferro per ricordarmi le offese subite e sono sempre riuscito a presentare il conto. Mi creda, passeranno anni prima che dicano chiaramente che ci hanno fatto saltare. Tempo qui a pochi mesi gli atti giudiziari parleranno di un banale guasto allo spinterogeno o qualcosa di simile, e archivieranno il tutto come un problema di manutenzione. Qualcuno, probabilmente innocente o con un ruolo non più che marginale, sarà condannato e vivranno tutti felici e contenti».
«Chi sono i personaggi peggiori che lei ha incontrato o scontrato?».
«In ordine?».
«Classifica, fa sempre numero».
«Cefis».
McHale lo interrompe: «c’è anche lui dietro?».
«Può essere, è probabile ma ormai non mi interessa. Che sia stato lui a mettere l’esplosivo, che sia il mandante, che sia assolutamente estraneo e abbia magari cercato di avvisarmi, rimane il peggio nella storia dell’Eni e penso, in prospettiva, anche dell’Italia. Il mio più grande errore: visto da dove proveniva e vista la formazione di scuola atlantica, non avrei mai dovuto assumerlo. Dal rumore di queste lamiere che si contorcono sento che sarà lui, appena gli sarà possibile, a prendere il mio posto. Farà carriera perché ha potenzialità ed entrature politiche, finanziarie e culturali, ma sarà il requiem dell’Eni per come l’ho voluta costruire».

«Qualcuno intravede dietro Cefis l’ombra di Fanfani».
«Balle e complottismo d’accatto. Si frequentano, come posso frequentare io l’ambasciata Americana e allo stesso tempo quella Sovietica. Vista la carica di dirigente pubblico sarebbe strano il contrario.
Al secondo posto Sturzo, da quando ho scelto di non privatizzare l’Agip se l’è legata al dito. Non parliamo poi delle Officine Pignone! Non statalismo, interclassimo, comunismo bianco e marxismo spurio blabla… Dopo il loro salvataggio divennero un polo d’eccellenza nel settore delle tecnologie estrattive e dell’impiantistica petrolifera. Nel mentre, abbiamo salvato migliaia di posti e migliaia di famiglie dalla miseria. Chi ha avuto ragione?».
«Lei e La Pira».
«Sbagliato: ha avuto ragione il lavoro, ha sempre ragione perché mobilita per uno scopo. I miei uomini ne erano consapevoli».
Bertuzzi applaude, il giornalista è sbalordito e cerca in un attimo di recuperarsi: «Montanelli?».
«È un’antipatica zanzara estiva che ronza attorno la mia testa. Non provo rancore per chi non comprende. Che Travaglio di persona…».

«Per inciso: il futuro dell’Eni?».
«Non dipende da me. Non dipende nemmeno da una qualche volontà divina. Dipende dagli uomini, gli unici deputati a scrivere il suo – e il loro proprio – destino. Su Cefis stendiamo un velo pietoso. Siamo fortunati: non è immortale e l’Eni gli sopravvivrà in qualche modo, nonostante tutto quel che sarà in grado di dis-fare.
Con noi l’Italia ha in parte rotto la condizione di nanismo geografico e politico in cui era stata confinata dopo la sconfitta nella guerra. Prima o dopo, forse ci vorranno decenni, qualcuno se ne accorgerà e allora l’Eni tornerà ad essere uno dei motori della nostra affermazione e della ricerca di uno spazio vitale per il paese».

«Torniamo in tuffo tra i personaggi. I migliori?».
«Nasser, già gliene ho parlato. Fanfani, equilibrista tra gli interessi imposti dal vostro paese e volontà più o meno nascosta di assecondarmi. S’inventò pure il termine “neoatlantismo” a dire che il suo non era uno sganciamento ma un ripensamento della nostra posizione; bella operazione di trucco e parrucco, da morir dal ridere.
Giorgio la Pira, amico e artefice dello sviluppo delle Pignone nonché graditissimo consulente. Idealista nell’animo e allo stesso tempo pragmatico nella prassi, fu il primo a spronarmi a volgere lo sguardo verso il Medio Oriente.
A livello ideale, chiunque abbia a cuore la sovranità. Mi sono sempre trovato a mio agio con gli uomini indipendenti e al di sopra dei miseri giochi. Puoi fare affari con loro senza pensare che possano tradirti quando gli dai le spalle. Se sono liberi, e lo sono e lo restano, sono uomini di parola. Possono controbattere, tessere nell’oscurità, accordarsi sottobanco: è la politica, non riconoscerlo è porsi fuori gioco da soli, soprattutto quando hai a che fare con chi in queste bassezze fonda il suo imperio. Non divagheranno però, mai! Non ti daranno mezze risposte. Uomini che hanno fatto la guerra, volontari e consci dei rischi messi in gioco, aldilà della parte con cui erano schierati. Sinceri fino in fondo».

Il silenzio alla fine di queste parole. I volti sono rasserenati dal chiaro di luna sopra la tempesta. Mattei sorride, si scosta e raggiunge il frigobar del Morane Saulnier su cui sono ancora in volo: «gradite un Martini?».
«For sure!», risponde McHale.
«Aggiudicato – fa eco Bertuzzi ancora al suo posto di comando – ghiaccio e limone».
«Vada per un brindisi allora. All’Italia. All’Eni, alla Sovranità!».
«A Enrico Mattei!».
«A Noi!».

Nei pochi istanti prima della fine, McHale ha un pensiero per quell’uomo con cui ha condiviso il suo ultimo viaggio. Ha riunito l’Italia all’Eni: Fascisti, volontari della Repubblica Sociale, democristiani e partigiani. Un esperimento di organicità su piccola scala, ardito quanto di successo. La sua dinastia, il suo coraggio e la sua volontà finiranno con lui, pensa. Lascerà un grande rimpianto nei cuori di chi lo ha amato e in quelli di chi ha lavorato per lui. Un filare di pioppi piegato, gli occhi di pochi contadini poi ridotti al silenzio, fiamme che squarciano il buio. L’Italia lo rimpiangerà, forse già tra pochi anni quando l’esplosione dell’aereo sarà ripetuta nelle piazze, nelle stazioni, sui treni, nelle banche. Il cherosene avrà l’odore delle pietre della corona della regina, dei limoni della sponda est del Mediterraneo, di lembi di tessuto a stelle e strisce. L’Italia si ritroverà terra di nessuno. Sarà la triste sorte di gloria degli inattuali.

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