sabato 31 luglio 2010

Stasera vi porto a CasaPound



Fonte: Zentropa

 
Il freddo invernale cominciava a piegare le ginocchia di fronte agli attacchi vigorosi del sole di fine marzo. I negozi lungo la strada avevano tirato fuori i loro altoparlanti che sbraitavano ritmi hip-hop o elettronici e di cui il volume isterico faceva concorrenza ai latrati dei cani del gruppo di punk sparpagliato sul marciapiede. Marco non poté trattenere un leggero sorriso di soddisfazione vedendo tre ragazzini coi giubbotti flight seduti alla terrazza di un bar, con gli occhiali da sole appoggiati sul tavolino accanto ai sacchetti de «La Testa di Ferro» carichi di libri e magliette. Certo, erano sicuramente dei piccoli fancazzisti che si erano travestiti per il week-end, ma nonostante ciò, in mezzo alla fauna losca e deprimente che riempiva Termini, brodaglia infame di diversi residui di tribù del mondo passate sotto il rullo compressore della religione neo-consumista, la loro visione era un piacevole respiro, il sentimento fugace, e senza dubbio ingannevole, che non tutto era andato perso.

E poi, dopotutto, forse erano dei veri militanti, solidi e quadrati. Perché ricorrere sistematicamente al cinismo per soffocare la minima scintilla di entusiasmo? Forse perché Marco aveva «lasciato l’area» da più di 10 anni e che «ricominciare a credere», anche puntualmente, anche furtivamente, sarebbe ammettere di avere disertato e farebbe di lui, vista la sua attuale passività, un complice supino del sistema.

Marco conosceva tutto sull’ambiente di estrema destra. I suoi fallimenti, le sue mitomanie, le sue incoerenze, le sue ridicolezze, i suoi traffici loschi, i suoi folclori, le sue monomanie... Le sue grandezze, le sue dedizioni, le sue fedeltà, i suoi talenti e anche i suoi successi. Ma, col tempo, il suo spirito aveva cancellato uno a uno tutti gli aspetti positivi per convincersi che la sua scelta d’abbandono era non solo giustificata, ma addirittura l’unica possibilità, l’unica ragionevolmente considerabile...

Quando si ha una famiglia, un lavoro, delle responsabilità, potete ben capire, queste ragazzate, queste messe in scena, queste sciocchezze turbolente... non era proprio più possibile...

Eppure, oggi, seduto di fronte a un collega in completo H&M che gli spiegava le tecniche migliori per «rifarsi alla Borsa», fiancheggiato da una bionda slavata che commentava fervidamente i suoi ultimi acquisti di scarpe e da due gay con le canottiere fluo che litigavano come una vecchia coppia – che forse erano –, cosa non avrebbe dato per ritrovarsi alla tavola di quei tre adolescenti persi nei loro giubbotti di cuoio troppo grandi, pieni di speranza e di progetti così diversi e talvolta contradditori, ma per i quali il fine ultimo non era quello di avere accesso ad un’esistenza di star hollywoodiana?

E allora si immaginava seduto in mezzo a loro, fornendo la sua esperienza, le sue relazioni, i suoi mezzi, e loro nutrendolo in cambio con le loro energie e la loro vitalità rivoltosa. Ma sarebbe sicuramente tornato a casa, quella sera, nella sua villa periferica, senza aver fatto né detto niente.

E avrebbe osservato i suoi bambini incantati di fronte alla loro playstation, e loro non avrebbero nemmeno girato la testa al suo arrivo. Avrebbe avuto voglia di distruggere l’infetto televisore, di prendere i bambini, di baciarli vigorosamente e di spiegare loro che esiste dell’altro, che c’è un altro mondo da costruire, che bisogna credere e investirsi... Ma sapeva già che a quel punto, i quattro piccoli occhi si sarebbero piantati nei suoi per chiedergli: «E tu, papà, cosa fai?».

«Non cosa fai. Cosa facciamo. Stasera vi porto a Casapound, e ricominciamo da capo».

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