mercoledì 24 febbraio 2010

Intervista a Federico Magi



Federico Magi, alias Léon, classe 1973, è scrittore, critico letterario, critico cinematografico, giornalista ed educatore. Tra gli animatori di «Lankelot», penna anticonformista e tagliente, è tra i più grandi esperti di cinema e letteratura in Italia, oltre che noto polemista politico.



Quali sono i mi
ti, gli autori, le esperienze che consideri parte integrante del tuo bagaglio culturale?

Intanto grazie per questa nuova ospitalità, dopo aver condiviso con i vostri lettori i miei pezzi su Militia e Sudditi. Vi leggo sempre, e devo dire che i vostri articoli sono ricchi di interessanti approfondimenti, oltre che ben curati nella forma. Detto ciò, passiamo al domandone iniziale. Non voglio tediarvi col mio lungo ed eterogeneo percorso formativo, pertanto vi darò qualche cenno in ordine più o meno temporale. Sono sostanzialmente un autodidatta da quando ero bambino; ho avuto un pessimo rapporto con l’istituzione scolastica fin dalle elementari, culminato nell’allontanamento da almeno un paio di istituti tra medie e superiori. L’università è andata un po’ meglio, ma devo dire anche qui che la mia formazione è stata molto personale (spesso, per alcune materie umanistiche, sceglievo testi non menzionati dai professori) e in un certo modo antiaccademica (ho fatto anche esami di teologia, in cui ho citato Guénon, nella totale ignoranza di chi mi ascoltava), fino a concludere il mio percorso formativo «istituzionale» con una tesi da me fortemente voluta e sconsigliata da tutti, prendendo la mia relatrice per sfinimento, sulla vita le opere e il metodo educativo di Rudolf Steiner. È stata una profonda soddisfazione discuterla davanti a un uditorio che mal conosceva o detestava il fondatore dell’antroposofia. Ma passiamo alla formazione spontanea e naturale, lontana da scuole e accademie, cominciata nella primissima adolescenza con un libro che m’ha aperto un mondo, che è quello con cui sostanzialmente ancora oggi – nonostante i 36 anni suonati – guardo le cose sensibili e sopransensibili, fisiche e metafisiche. Sto parlando de La storia infinita, la notissima fiaba di Ende, trasposta anche sullo schermo, che oppone la fantasia al nulla filtrando questa grande battaglia – che è poi la vera grande battaglia per noi tutti: l’essere contro il nulla – attraverso gli occhi di un bambino che legge le gesta ed entra a sua volta nella storia di un guerriero bambino, fino a cavalcare nei cieli con lui sopra il fortunadrago. La storia di Atreju e di Bastian mi ha modellato interiormente, mi ha aiutato a crescere. Poi c’è stata la grande letteratura, dai 18 anni in avanti: Demian e Peter Camezind di Herman Hesse, Delitto e castigo e I fratelli Karamazov di Dostoevskij, I dolori del giovane Werther, Le affinità elettive e il Faust (all’interno del quale c’è uno dei concetti più belli e pregnanti sull’adolescenza che abbia mai letto) di Goethe. In seguito Mishima, di cui mi piace ricordare almeno tre capolavori: Confessioni di una maschera, Il padiglione d’oro, Cavalli in fuga. Ultimo ma non ultimo, il grande amore per Céline, per il suo spirito anarchico e la sua vena dissacrante: Viaggio al termine della notte è uno dei libri fondamentali per capire il Novecento. Successivamente è stato il tempo dell’impegno politico, nel Fronte della Gioventù, e l’avvicinamento ad autori quali Evola, Guénon, Jünger, Léon Degrelle, più un lunghissimo approfondimento sull’opera omnia di Nietszche, che considero il più grande pensatore degli ultimi due secoli. Ultimo elemento decisivo, per la mia formazione culturale, è stata sicuramente la scoperta, intorno ai 25 anni, delle metafisiche orientali, grazie ai testi di Evola e Guénon, ma solamente come appassionato in cerca di nuove fonti di conoscenza, rifuggendo le mode legate al commercio della spiritualità. Anche qui mi si è aperto un mondo, che non è il caso di approfondire in questa sede. Poi vabbe’ c’è la poesia, la musica, e la mia grande passione, il cinema, ma di questo avremo modo di parlarne più avanti.


Conosci molto bene il mondo dell’informazione. Cosa ne pensi del giornalismo italiano odierno? Marco Travaglio è secondo te un esempio di professionista libero ed indipendente?

Qui posso risponderti con un minimo di deformazione professionale. Ne penso tutto il male possibile, ma non solo per quel che riguarda il giornalismo italiano, parlo del «giornalismo democratico» del dopoguerra a qualsiasi latitudine. Partiamo dal presupposto che il giornalista è «servo» per definizione, che risponde a un editore e che ha sempre o quasi sempre non solo il limite delle battute, ma anche quello di dover tenere il cervello più spento possibile. Un mestieraccio, insomma, che come tante cose della mia vita mi ritrovo a fare per una serie di eventi da me non calcolati. Io sono principalmente un critico, musicale letterario e cinematografico, ma ho fatto anche l’addetto stampa per la politica. Posso assicurarti, se mai ce ne fosse bisogno, che l’indipendenza del giornalista non esiste, che la libertà di stampa è una burla con cui prendere per il culo le masse. L’unica libertà è quella che puoi crearti facendoti un nome: in quel caso sei tu l’editore di te stesso, o scrivendo in rete, come puntualmente faccio non soltanto su «Lankelot». Apprezzo molto Massimo Fini, proprio per questo, perché è l’unico grande giornalista veramente libero che c’è in Italia. Su Marco Travaglio stenderei un velo pietoso, non vale un’unghia di Massimo Fini. A prescindere dalla mia avversione ai moralisti di professione, quale Travaglio è, lo considero né più e né meno dei tanti paraculi del settore che hanno scoperto una buona via remunerativa: nel suo caso il gossip giudiziario. Ovviamente non è né libero né indipendente, questo dopo la premessa che ho fatto mi pare scontato. Se penso che c’è ancora chi ci fa lunghi pistolotti sulla libertà di stampa, mi verrebbe veramente da sorridere, se in questo non ci fosse un elemento tragico. La tragedia sta nel fatto che non solo non esiste la libertà di stampa, ma che l’informazione è drogata dal gossip e dall’inessenziale, e che la maggioranza dei giornalisti ha una preparazione culturale davvero scarsa. L’ignoranza regna sovrana, basta leggere la carta stampata.


Cosa ne pensi di Beppe Grillo, da più parti presentato come geniale oppositore alla «politica ufficiale»?

Qui la ricca risata me la faccio tutta. E non perché Grillo sia un gran comico, non mi faceva ridere neanche quando si proponeva nella veste in cui tutti l’abbiamo conosciuto, ma perché se per qualcuno il giullare ligure era realmente un’alternativa politica credibile vuol dire proprio che siamo arrivati alla frutta. È stato e resta un qualunquista della peggior specie, con alle spalle però interessi fortissimi che lo pongono a distanze siderali dalla posizione di sbandierata indipendenza. La vera e propria schifezza che ha fatto nei confronti di CasaPound lo sta a dimostrare, se mai ce ne fosse bisogno. Ma vogliamo sprecare tempo a parlare di uno come Grillo? Lasciamo stare, passiamo avanti; la migliore risposta, in questi casi, è l’indifferenza.


Tangentopoli fu veramente l’azione purificatrice della magistratura indipendente contro la classe politica corrotta? Perché il Pci-Pds non fu praticamente colpito dalle indagini? E cosa è cambiato nel mondo politico rispetto ad allora?

Restiamo nel campo delle favole dell’Italia repubblicana. Tangentopoli è evidentemente una di queste. Certo poteva essere qualcosa che nei fatti non è stato, per una serie di motivi che vedono questa volta non tanto la politica come responsabile principale, bensì la magistratura, che ha incontestabilmente abusato del suo potere, ancora una volta (come nei dolorosi anni Settanta) a senso unico, ancorché il bersaglio non fossero più i «pericolosi fascisti». Che l’Italia del compromesso storico fosse arrivata a livelli di corruzione non più sopportale è un fatto, come è un fatto che l’opinione pubblica cominciò a provare ribrezzo per i partiti che hanno governato la così detta «Prima Repubblica», fino a cancellarli dalla vita politica (è il caso del PSI), o a far crollare i sottili equilibri di potere interni (è il caso della divisione degli ex DC in più partiti d’ispirazione cattolica). C’era un disegno per far governare il PDS di Occhetto, questo oggi lo sanno tutti, e c’erano sicuramente forti pressioni per un ribaltamento del sistema provenienti da oltre il confine nazionale. Certo poi arrivò Berlusconi a rompere le uova nel paniere un po’ a tutti, e qui cominciò tutta un’altra storia, certamente imprevista da chi aveva fatto tanta fatica per creare la corsia preferenziale all’ex PCI, che purtroppo condiziona ancora pesantemente in negativo la politica attuale. Rispetto ad allora, dopo una fase di iniziale entusiasmo, non è cambiato granché. Semmai le cose sono anche peggiorate, perché la corruzione non è certo diminuita e nel frattempo c’è stato l’ingresso traumatico nell’Euro e la crisi economica, con tutti gli annessi e connessi del caso. Ma le reali questioni che dovremmo porci sono altre, perché è naturale che una politica mondiale imperniata su finanza, grandi banche e grandi capitali partorisca una burocrazia corrotta, oltreché inefficiente. Bisogna guardare ai modelli di sviluppo, la corruzione è la pagliuzza, la trave è altrove. Ma questo è un discorso troppo lungo, e ci porterebbe lontano dal tema della domanda.


Che cosa ne pensi dell’opera politica di Bettino Craxi?

Della controversa opera politica di Bettino Craxi ho tutto sommato un’opinione positiva. E vi spiego perché, nonostante la sua figura resti sostanzialmente lontana dalla mia formazione politica. Craxi ha avuto il merito di immaginare un’alternativa a sinistra rispetto al PCI, vista l’allora assoluta egemonia dei comunisti sulla sinistra politica italiana. Ma non soltanto, egli è stato l’unico statista italiano a opporsi allo strapotere degli americani sul nostro suolo, e mi riferisco ovviamente a Sigonella. In più Craxi va ricordato per la lungimirante politica estera sul Mediterraneo, e per l’equilibrio nei rapporti col Medio Oriente. Certo restano gli anni bui della corruzione, la quale peraltro, come oggi è a tutti chiaro, era estesa a tutti partiti della Prima Repubblica, se si eccettua il Movimento Sociale Italiano. Considero la corruzione, ahimé, insita nei meccanismi dei sistemi democratico-parlamentari. Più che cambiare gli uomini e le piccole politiche contingenti e nazionali, come ripeto, andrebbe rivisto il modello di sviluppo e i sistemi che ci governano dal dopoguerra. Gli uomini politici vanno e vengono, e sono soltanto ingranaggi di questo meccanismo perverso. Li considero accessori al sistema, certo con qualche lodevole eccezione che comunque non cambia la sostanza del mio discorso.


Berlusconi è un leader carismatico, un mafioso-pidduista che sta distruggendo il paese o una via di mezzo?

Il tema Berlusconi è veramente stucchevole, vista l’assoluta centralità della sua figura nella politica degli ultimi 15-16 anni. Tutto è ruotato intorno a Berlusconi sì/Berlusconi no. E ti giuro che se c’è una questione che non m’appassiona, politicamente parlando, è proprio questa. Non mi piace parlarne perché lo ritengo un falso problema, dietro il quale si nascondono gli interrogativi e le urgenze di cui parlavo nelle risposte precedenti. Non credo sia un mafioso ma non è questo il punto. Berlusconi è lo specchio dei tempi in cui viviamo, un uomo popolare mediaticamente che è riuscito a dominare – per questa sua peculiarità – la scena politica. Non ho mai pensato che influenzasse in modo decisivo il voto attraverso le sue tv, più che altro è la pessima tv in sé che alimenta miti e modelli di sviluppo deteriori. Credo che in Italia Berlusconi rappresenti una lobby potente come ce ne sono altre, e che non sia nemmeno la più potente. Non vado oltre, perché chi ha un minimo di cultura e conoscenza della storia dell’Italia contemporanea sa bene a chi e cosa mi riferisco, basta guardare il background delle così dette «élites culturali» del Belpaese, sovente forgiato negli appelli all’annientamento politico e addirittura fisico degli antagonisti ideologici del tempo che fu. Ogni riferimento agli ex Lotta Continua, che oggi ci fanno la morale in tv e dagli scranni del parlamento, è puramente voluto.


Di Pietro è veramente il leader dell’unico partito serio ed onesto della Seconda Repubblica?

Mi permettete un’altra risata? Ma sì che me la permettete. Per Di Pietro vale più o meno lo stesso discorso fatto per Grillo e Travaglio, con l’aggravante che l’ex magistrato ha gestito la cosa pubblica ed è il leader di un partito becero e giustizialista. Disprezzo il giustizialismo per principio, ma ancor più quello esercitato in cattiva fede e per scopi meramente politici e di parte. Di Pietro è anche rozzo e ignorante, è quanto di più lontano dallo statista politico e meno che mai vicino a un possibile modello edificante in cui le giovani generazioni possano identificarsi. E c’è un’ulteriore aggravante: predica bene e razzola male. Davvero uno dei peggiori politici italiani, ma non credo che possa durare a lungo o generare consensi oltre la soglia del cieco antiberlusconismo. Per fortuna.


Passiamo alla storia. Che cosa è stato secondo te sinteticamente il Fascismo? Alcune sue intuizioni e proposte possono essere valide ancora oggi?

Premetto che vengo da una famiglia missina, con un padre appassionato di storia che si iscrisse 15enne, nei primi anni Cinquanta, al MSI. Le figure di Mussolini, Napoleone, Giulio Cesare e Nerone vivono nei miei ricordi fin dalla primissima infanzia, vista l’enorme mole di libri a tema che possedeva mio padre. Non potevo che farmi una precoce cultura sul Fascismo e sulla storia contemporanea, e questa è stata davvero una fortuna. Una fortuna perché ho potuto leggere e studiare il fenomeno senza pregiudizi, e con uno spirito critico raramente riscontrabile nei miei coetanei, anche grazie al mio personale approccio a fatti, idee e personaggi della cultura e della storia. Sono uno spirito critico, che ha fatto suo l’insegnamento di Heidegger incentrato sul dubbio metodico e sull’importanza delle domande, piuttosto che nel voler trovare a tutti i costi le risposte. Questa premessa per dire che pur ammirando Mussolini e condividendo molte cose dell’esperienza del Ventennio fascista, non sono mai stato neofascista, né dal punto di vista ideologico né tanto meno da quello antropologico. Mi sono divertito a definirmi fascista quando ho incontrato ciechi oppositori: come insegnava Jünger, il bello della vita è nella forte e dolorosa tensione dei contrasti. Dirò una cosa che magari farà arrabbiare qualcuno, ma sono convinto che il Fascismo sia durato troppo poco. E mi spiego. Come è a tutti lampante, gli italiani sono un popolo con tanti pregi ma anche con atavici, evidentissimi difetti, primo tra tutti un’identità comunitaria o patriottica quasi del tutto assente o notevolmente frammentata. Senza dilungarci sui motivi di ciò, è chiaro come il Fascismo tentò, nell’immaginare una sorta di dottrina laica ispirata alla grandezza dell’Antica Roma, di intervenire proprio su questo punto nodale, vista l’eredità della grigia èra giolittiana che lasciava pesantissime questioni identitarie aperte sul campo. Come ad esempio quella delle così dette «terre irredente». Questa fu la base empatica e ideologica da restituire al popolo, ma il Fascismo da questo assunto ideale fece scaturire fatti incontrovertibili, imperniati su una politica sociale che assurse all’attenzione di tutti i grandi Stati d’Occidente. Il Fascismo si proponeva, e per un lungo periodo ci riuscì anche, di trovare un’equa sintesi tra capitale e lavoro. Anche sul piano artistico culturale e architettonico il Fascismo fu all’avanguardia, tanto che se guardiamo a una città come Roma troviamo le tracce dell’epoca papalina, di quella fascista e niente di memorabile in quella repubblicana. A meno che non si vogliano ritenere grandi opere il Corviale, Laurentino 38 e compagnia. Fuori dalle risoluzioni della storia e dall’adattamento della stessa alla dottrina dei vincitori, il Fascismo fu preso a modello di efficienza e di sviluppo sociale dagli Stati Uniti come dalla Gran Bretagna, tanto che dopo la pesante crisi di Wall Street Roosevelt prese importanti decisioni politiche – come la nazionalizzazione delle banche – che guardavano inequivocabilmente all’italico modello di sviluppo. Certo poi ci fu la guerra, le differenti alleanze e la dolorosa sconfitta, arrivata dopo la vergognosa resa dell’8 settembre. Il Fascismo fu certo un regime di fatto dittatoriale, fondato su modello gerarchico e su un partito unico, ma prima dell’ingresso nel conflitto ebbe incontestabilmente un consenso popolare reale che nessuna nazione poteva vantare al tempo. Questi sono fatti, questa è storia, e chi non la conosce è bene che si informi. E poi c’è la malafede, l’egemonia culturale dei vincitori che perdura. Il Fascismo va restituito alla storia, con maggiore serenità di giudizio. Verrà il tempo, ne sono certo, anche per una più corretta rilettura di questo periodo storico.


Sono esistite una parte «giusta» ed una «sbagliata» nel secondo conflitto mondiale?

Questo è un discorso molto complesso, perché da che storia è storia esistono vincitori e vinti, idee che confliggono e che culminano nel sangue. È la storia dell’evoluzione umana, e così sempre sarà. Ho sempre rifiutato la logica del buono e del cattivo, del giusto e dello sbagliato, privilegiando l’analisi della contingenza storica e dei delicati equilibri geopolitici. La Seconda Guerra Mondiale non sfugge a queste dinamiche, e chi aderì all’alleanza sconfitta lo fece anche per ideali nobili ed emergenze legate al territorio in cui viveva. Emblematica, a questo proposito, la parabola del condottiere belga Léon Degrelle, figura a cui sono legatissimo dopo che mi capitò tra le mani lo struggente e poetico Militia. Léon vedeva in Hitler l’unica speranza per evitare quello che poi, puntualmente, a guerra finita si verificò: l’egemonia politica dei due blocchi (USA e URSS) sull’Europa. Egli combatté fino allo stremo sul fronte orientale, e quando tornò in Patria (il Belgio) trovò ad attenderlo una sentenza di morte come traditore. Riuscì a fuggire e visse ancora per lungo tempo, in un malinconico esilio spagnolo. Ma c’è anche chi fu meno fortunato di Léon Degrelle, per usare un eufemismo, che pur dovette subire umiliazioni prigionia e violenze psicofisiche, chi è caduto orgogliosamente senza lasciare tracce nella memoria della storia e degli uomini.


Che significato hanno avuto le azioni e le opere di Léon Degrelle per la tua formazione, culturale e spirituale?

Neanche a farlo apposta, questa domanda arriva giusto a rimorchio della precedente. L’esperienza e gli scritti di Léon Degrelle mi hanno segnato profondamente, sia per la statura di uomo e di condottiere, sia per le bellissime parole che ci ha lasciato a testimonianza della sua dolorosa ed esaltante esperienza. «Che il destino ci trovi sempre forti e degni», diceva Léon, che con questa frase riuscì a sintetizzare ciò che realmente conta del nostro tragitto terreno. La dignità prima di tutto, soprattutto verso se stessi: Léon resta come un esempio di autodisciplina finalizzata a un grande scopo, al superamento delle umane paure e debolezze per fortificare l’anima attraverso le gesta. E le gesta restano come esempio, come monito, come testimonianza di ciò che siamo. Inequivocabilmente. Militia è colmo di pensieri maestosi che fanno bene allo spirito. Quando mi sento perso, in difficoltà, vittima delle mie infinite contraddizioni, torno sempre alle sue bellissime pagine, per ridestarmi dal torpore di una contingenza che spesso annebbia lo spirito facendoci scegliere le vie più facili, le scorciatoie. È una sorta di manuale per un’ascesi superiore, o quanto meno così l’ho sempre interpretato. E, come saprete, Léon fu un fervente cattolico, mentre io non sono affatto religioso.


Drieu, Céline, Brasillach. Cosa ci lascia il connubio francese tra politica e letteratura nella prima metà del ’900?

Lascia moltissimo, ancorché la loro diffusione, soprattutto per quel che riguarda Brasillach e in parte Drieu La Rochelle, non sia assolutamente estesa quanto dovrebbe. Diverso è il discorso per Céline, i cui romanzi pre-sconfessione del comunismo restano ancora nelle biblioteche di parecchi sinistrorsi del tempo che fu. E mi riferisco a Morte a credito e Viaggio al termine della notte. Tutto cambia da Mea Culpa in poi, in cui il letterato francese sparò a zero sul comunismo dopo un viaggio in Unione Sovietica. L’anatema definitivo contro Céline arrivò poco dopo, in conseguenza del feroce scritto antiebraico Bagatelle per un massacro. Parecchi dei suoi testi successivi sono ancora censurati o fortemente ostracizzati. Come avrete inteso, dei tre adoro Céline, ma ho amato molto anche la figura tragica e titanica del grande Drieu, che conobbi leggendo il coinvolgente Fuoco Fatuo. Estendendo la domanda che mi avete posto, mi piace citare, per evidenti affinità, altri due grandi letterati come Knut Hamsun ed Ezra Pound, che hanno subìto l’identico oblio culturale per lunghissimo tempo, e che fortunatamente da qualche anno cominciano ad essere riscoperti da un pubblico più vasto e meno ideologizzato. C’è un approfondito saggio, che vorrei consigliare, sull’importante esperienza e il lascito di questi grandi letterati eretici, che risponde al titolo La tentazione fascista, del finlandese Tarmo Kunnas, nel quale vengono messi in evidenza i nessi tra gli autori in questione, accomunati da una concezione tragica ed eroica dell’esistenza.


Julius Evola è una figura molto dibattuta. Quali sono secondo te i punti di forza e di debolezza che traspaiono dalle opere del filosofo della Tradizione?

I libri di Evola sono stati per me uno dei più importanti elementi di formazione, prima esistenziale che politica. Anche perché, come ben saprete, nella sterminata opera di Evola c’è molto poco che riguardi la prassi politica, se si eccettua Gli uomini e le rovine. È buffo il modo con cui ho approcciato questo autore, che volli leggere assolutamente appena 18enne quando incominciai a sentir circolare il suo nome negli ambienti della militanza politica. Scorrendo i suoi titoli, e non sapendo assolutamente nulla su di lui, ordinai alla mia libreria di fiducia L’uomo come potenza, convinto dal roboante titolo. Immaginate la sorpresa mista a sconcerto quando, sfogliando le pagine del corposo volume, scoprii che si trattava di un saggio sul tantrismo, che al tempo non sapevo nemmeno cosa fosse, naturalmente. Ore ed ore su quelle pagine senza cavarne assolutamente nulla. «È questo il tanto celebrato Evola?», mi domandai. Per fortuna non mi sono abbattuto, e mi lasciai consigliare da chi aveva un percorso politico culturale molto più vasto del mio, vista l’età. Ecco che arrivarono ai miei occhi avidi di conoscenza, più o meno in quest’ordine, Gli uomini e le rovine, Cavalcare la tigre e Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo. Ma la vera sfida fu Rivolta contro il mondo moderno, un testo unico nel suo genere, che ampliava i discorsi accennati da René Guénon in Crisi del mondo moderno, ma con una forma e dei contenuti più incisivi e meglio interiorizzabili. Negli anni ho letto quasi tutto del filosofo della Tradizione, appassionandomi anche ai saggi sulle metafisiche orientali, come La dottrina del risveglio e Lo Yoga della potenza, che era un ampliamento dei contenuti presenti ne L’uomo come potenza. Per arrivare al cuore del pensiero evoliano ho riletto i suoi testi cardine più volte negli anni, interiorizzando ogni volta qualcosa in più, grazie alla mia disposizione all’analisi e a sempre nuove conoscenze che crescevano col crescere delle letture e dell’età. Considero Evola l’autore ostracizzato per eccellenza, qui in Italia, uno dei più citati ma meno letti anche a destra. Il suo pensiero è stato sovente frainteso anche dagli appassionati, i così detti «evolomani», e volutamente mal interpretato dai suoi detrattori, che come spesso accade ne scrivevano senza averlo letto. I suoi testi imprescindibili, per la mia sensibilità (ma anche per il suo unico, vero esegeta: Adriano Romualdi), sono sicuramente Rivolta, Cavalcare la tigre e Il cammino del cinabro, una sorta di autobiografia spirituale. Le considerazioni contenute in Cavalcare la tigre, partendo dal concetto fondamentale di «uomo differenziato», pongono il pensiero evoliano su un piano più che mai attuale. Nel mio piccolo ho cercato di diffondere la sua opera in tutti i contesti ricettivi, e spero vivamente che il suo nome, depurato dall’ignoranza e dall’arroganza della larga schiera di intellettuali suoi detrattori, cominci finalmente a circolare tra le nuove generazioni.


I cosiddetti «anni di piombo» sono stati una delle pagine più violente ed oscure della storia italiana. Chi furono secondo te i maggiori protagonisti, noti e meno noti? Furono veramente coinvolti anche i servizi segreti, sia italiani che stranieri?

Gli anni di piombo, per chi come me ha militato a destra, sono in primo luogo tanti nomi di ragazzi caduti per un ideale. E voglio ricordare – e mi scuso se non faccio tutti i nomi – quelli che, in conseguenza della loro dolorosa parabola, mi sono rimasti dentro come fratelli che non ho mai conosciuto e che vivono nel mio percorso ideale, animico, spirituale. Sergio Ramelli, Nanni De Angelis e Paolo Di Nella. La vicenda di Sergio Ramelli, in particolare, mi strazia ogni volta che ci ripenso. Come diceva Céline in Mea Culpa, «c’è ancora qualche motivo di odio che mi manca. Sono sicuro che esiste». Be’ questo motivo di odio mancante l’ho trovato e provato nei confronti dei responsabili politici di quell’orrore, e mi riferisco, in particolare, non tanto a chi ha materialmente compiuto quei delitti, ma agli intellettuali che li hanno alimentati, giustificati, suffragati, ai giornali come «Lotta Continua» dalle cui colonne si invitava a uccidere i fascisti perché, in fondo, non era reato. E non dimentico chi come i vari Franca Rame e Dario e Jacopo Fo hanno fatto appelli in favore degli assassini di Primavalle, fino a mistificare indecentemente la tragica vicenda. Ma l’odio si estende anche a quell’Italia democristiana dei Cossiga e degli Andreotti, alla magistratura compiacente con gli assassini rossi, ai docenti e ai professori criminali (come dimostra la triste vicenda del povero Sergio Ramelli), e a un’informazione mai tanto faziosa e delinquente come lo fu nei caldi anni di piombo. Non ho mai fatto mia l’apologia di quegli anni, come a qualche irresponsabile ancora piace fare, e mi incazzo pesantemente con i giovani ragazzi di destra quando scelgono come modello di militanza ideale «Giusva» Fioravanti e i NAR. Come al solito in questo c’è la colpa di adulti nostalgici di un tempo di cui non si deve proprio avere nostalgia, se non per un impegno ancora basato sugli ideali, a differenza di adesso. Sui servizi segreti, che dirvi? Mi pare logico siano stati responsabili anch’essi, essendo un parte fondamentale dello Stato, che scelse come evidente di stare a guardare, mentre i ragazzi morivano, decisamente più a destra che a sinistra. Ne aveva tutti gli interessi, come si è capito in seguito.


Quanto c’è di vero nella ricostruzione storica che vuole biechi tramaroli neofascisti impegnati in primo piano nelle stragi per impedire l’avanzata del Pci?

Questa è un’altra favola metropolitana, o per meglio dire italiota. Quali sarebbero queste pericolose trame neofasciste? Che qualcuno porti fatti e prove concrete, che evidentemente non esistono. E che non mi si porti come prova la risibile condanna dei vertici dei NAR per la strage di Bologna, che l’evidenza dei fatti ha decretato essere una palese sentenza politica e al contempo un modo per trovare un capro espiatorio. Oramai non lo negano neppure a sinistra. Come ripeto, gli anni Settanta hanno visto il neofascismo italiano come vittima e non come carnefice, se si eccettua la sconclusionata parabola dei NAR, che peraltro agirono soprattutto per reazione, come ha sempre affermato lo stesso Fioravanti, e che erano strutturati in pochissime unità, rispetto al terrorismo rosso. A meno che non si intenda per neofascista chiunque o quasi: nelle invettive dei compagni ciecamente ideologizzati fascisti erano anche la polizia e i servizi segreti. Fascista era chiunque non la pensasse come loro, in ossequio alla triste e sanguinosa eredità dei partigiani comunisti. Logico che vedessero complotti fascisti ovunque. Suvvia, non alimentiamo uno sterile dibattito su queste tesi risibili con ulteriori parole, torniamo a questioni più serie.


È corretto parlare di egemonia della sinistra nel mondo della cultura e dell’informazione?

Sì, è corretto, soprattutto in Italia. E la colpa è soprattutto dei democristiani, che lasciarono campo libero al PCI perché convinti che il potere reale si esercitasse altrove. Fu un errore colossale, perché niente come la cultura orienta i gusti, le tendenze e le scelte di un popolo. Una sciagurata leggerezza, perché – come tutti sappiamo – è dura cambiare concetti e convinzioni radicate nel comune sentire di una nazione. Mi riferisco in particolare ai settori artistici, che hanno prodotto élites pseudo-intellettuali minate dal dogma marxista, che come sappiamo è di un’ortodossia senza pari. Conseguenza di ciò fu che nei campi dell’arte più diffusa e popolare, come il cinema, la musica e la letteratura, difficilmente si trovava lavoro se non si aveva la tessera del PCI o della CGIL. A parte Pasolini, che era un marxista davvero atipico, non c’è nulla di memorabile che è derivato da questa egemonia, non c’è nessuno che ha saputo costruire un’arte libera da vincoli ideologici più o meno sentiti. Molti artisti, in effetti, sono stati comunisti perché conveniva esserlo. Altri ci sono nati e cresciuti nelle «chiese marxiste», tanto che hanno trasportato quel modo di rapportarsi all’avversario politico anche quando sono stati folgorati sulla via di Damasco da Berlusconi, come l’ex Lotta Continua Liguori o l’attuale ministro della cultura Bondi. Ti dico una cosa da appassionato di cinema, tanto per darti un’idea di quanto ancora sia dominante questo tipo di cultura. Quest’anno sono stati presentati a Venezia film palesemente ideologici come Cosmonauta, Il grande sogno, Le ombre rosse e Baaria. Un paio di mesi dopo è uscito La prima linea, pellicola dai toni «romantici» su quei giovani compagni che pur sbagliarono ma che erano pieni di bellissimi ideali. A parte Baaria, che è un’epopea lirica e nostalgica, pur se ricca di fastidiosi stereotipi, diretta da un ottimo regista che ha il senso del cinema ad ampio respiro come Tornatore, le altre opere sono destinate a sprofondare nell’oblio della memoria degli spettatori.


Sei un grande esperto ed appassionato di cinema. Dovendo scegliere, quali sono secondo te i tre film che hanno segnato la storia? Quali invece i tre a cui sei più legato?

Tre nomi? Complicatissimo rispondere per un innamorato della settima arte come me. E poi non c’è un criterio universale per stabilire i più grandi film della storia. Certo un appassionato, un esperto, deve conoscere e aver visto un po’ di tutto, prima di lanciarsi in giudizi comunque molto personali. Per farti un esempio, non si può amare il cinema e non aver visto un film di Orson Welles, di Ingmar Bergman, di Charlie Chaplin, di François Truffaut, di John Ford, di Alfred Hitchcook, di David Lynch, solo per farti alcuni nomi. Premesso ciò, rispondo alla tua domanda, con un minimo di motivazioni a supporto. Per ciò che riguarda i film che hanno segnato la storia, ti dico Quarto potere (1941), di Orson Welles, perché è tristemente profetico su quella che sarebbe stata la potenza e l’invadenza dei media sul mondo contemporaneo. In più è un’opera girata e recitata divinamente. Il secondo è senza dubbio Il Settimo Sigillo (1957), di Ingmar Bergman, regista che ha dato vita al cinema che più amo. È una profonda e beffarda riflessione sulla morte, sulla fede e sul senso dell’esistenza, che culmina con un’emblematica partita a scacchi tra un cavaliere di ritorno dalle crociate e la Morte stessa. Credo che Il Settimo Sigillo sia il film che ha ispirato più registi e artisti in assoluto, unitamente a 8 ½ di Fellini, altra pellicola che non stonerebbe affatto in una ideale classifica degli imperdibili. Un capolavoro universale. Il terzo è forse quello che vi sorprenderà di più. E mi riferisco a Guerre Stellari (1977) di George Lucas, perché ha rivoluzionato il modo di fare fantascienza, sia a livello visivo che per ciò che riguarda la complessità narrativa. La figura del guerriero Jedi, un misto tra un monaco e un samurai, resta nell’immaginario di più generazioni. I tre film a cui sono più legato sono, in ordine temporale, Profondo Rosso (1975) di Dario Argento, Fanny & Alexander (1982) di Ingmar Bergman e Big Fish (2003) di Tim Burton. Profondo Rosso è il film che ho visto più di tutti in assoluto – non ti dico il numero di volte perché è impressionante –, che ha segnato il mio passaggio dall’infanzia all’adolescenza, attraverso la rielaborazione catartica degli incubi infantili proposti dal geniale regista romano. Fanny & Alexander è la pellicola della vita, una saga familiare che è una profonda riflessione sull’arte e sui fantasmi dell’infanzia. Big Fish lo dico in omaggio a Tim Burton e al suo mondo gotico e fiabesco, ma avrei anche potuto dire Edward mani di forbice, dello stesso autore. Due film splendidi, in cui centrali sono i percorsi iniziatici-immaginifici e l’elogio della diversità. Come avrai notato, ci sono elementi comuni ai film che mi hanno più segnato, ovvero i riti di passaggio tra infanzia e adolescenza, i percorsi iniziatici, e i mostri e gli incubi come elementi catartici.


In che stato si trova il cinema italiano odierno?

In uno stato pessimo, basta notare che il grande degli incassi lo fanno i cinepanettoni e i film di Pieraccioni. Ma al di là dei pessimi incassi, ci sono problemi atavici, come quello del finanziamento statale dato a opere di scarsa qualità e di pressoché nullo interesse, come il già citato Le ombre rosse di Maselli, ad esempio. C’è anche una preoccupante e prolungata crisi creativa, che si riflette in sceneggiature senza nerbo e senza respiro, di un provincialismo sconfortante. E non lasciatevi ingannare dai consensi di critica ottenuti un paio d’anni or sono da pellicole come Gomorra e Il Divo, film a conti fatti trascurabili e sempre concepiti in ossequio a una visione provinciale del cinema e dell’arte. Abbiamo esportato Muccino in America, mi direte, appena tornato per straziarci coi baci e i dilemmi dei suoi 30enni cresciuti. Io vi dico, da amante della settima arte, che non c’era tutta questa urgenza che tornasse dal dorato esilio. La speranza è legata a giovani che, pur tra mille difficoltà, sono riusciti ad autofinanziarsi e dunque a fare opere libere da vincoli ideologici e di mercato. È il caso del bravo Marco Chiarini e del suo incantevole L’uomo fiammifero, che ha fatto un piccolo capolavoro senza un euro di aiuto statale.


Chiudiamo tornando alla politica. Sei stato più volte a CasaPound. Che cosa ne pensi dell’operato dei ragazzi di Via Napoleone III?

Ne penso tutto il bene possibile, e lo dico sinceramente. Oramai un po’ mi conoscete, e sapete che non vi dico ciò perché mi state intervistando. Credo che CasaPound sia un’oasi di libertà di idee e di brillanti fervori culturali, avendo assistito più volte ai vostri incontri su autori e tematiche sempre di grande interesse o di scottante attualità. Prima di conoscervi sentivo parlare abbastanza male di CasaPound, a destra come a sinistra. Ma io non mi curo di ciò che dice la gente, e quando ne ho avuto l’opportunità sono venuto a verificare di persona, restando piacevolmente sorpreso. Dico di più, CasaPound è un modello che deve essere esportato e che deve trovare interlocutori politici credibili anche nei migliori e più ricettivi ambienti della destra istituzionale, così da estendere la sua vitalità politica e culturale in un territorio ancora più vasto. Mi rendo conto che ciò è complicato, per una serie di motivi inutili da elencare in questa sede e che voi tutti ben conoscete. Per quel che mi riguarda, oramai sono idealmente dei vostri, il mio sostegno alla causa, per piccolo che sia, non verrà mai meno. Un saluto a voi Augusti, e a tutti gli amici di CasaPound. Vi ringrazio dell’intervista, e mi scuso per l’eccessiva lunghezza delle mie risposte.

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