L’articolo è stato pubblicato in «Occidentale», gennaio 2013.
È stata recentemente pubblicata l’ultima opera dello storico Emilio Gentile, E fu subito regime: il fascismo e la marcia su Roma (Laterza, pp. 336, € 18). Gentile, uno dei massimi storici del fascismo, affronta così una vicenda su cui sono stati versati fiumi d’inchiostro e su cui permangono tuttora molti lati oscuri, specialmente riguardo a quelle ore febbrili che vanno dal 27 al 30 ottobre allorché Mussolini, con un’abilità politica senza pari, «fece fessi tutti» – come dichiarò il suo attendente Cesare Rossi – e riuscì a coronare di successo l’insurrezione armata delle squadre d’azione.
Tuttavia – ci duole dirlo – questo libro non sembra francamente aggiungere nulla a quel che già si sapeva sugli eventi, e non contribuisce minimamente a far luce sulle notizie insicure e contraddittorie delle fonti e delle testimonianze a nostra disposizione. Anche la tesi centrale e pretesamente originale dell’opera, che verte sulla questione del «regime», è tanto discutibile quanto già sentita, visto che è stata di recente rispolverata da Giulia Albanese (precisamente nel 2006, peraltro proprio per Laterza!). Se De Felice infatti sostenne che la conquista del potere da parte dei fascisti non coincise con un vero e proprio rivolgimento istituzionale ma piuttosto con la creazione di un gabinetto di compromesso, rimandando al 3 gennaio 1925 la trasformazione del governo Mussolini in regime, Gentile afferma sostanzialmente che la data della fondazione del regime fascista sarebbe viceversa da anticipare proprio al 28 ottobre del ’22.
In questo Gentile ha ragione allorché argomenta che le modalità e la natura stessa del colpo di Stato costituirono allora un fatto senza precedenti, ossia un partito-milizia che conquista il potere tramite un’insurrezione armata con il dichiarato intento di smantellare lo Stato liberale, laddove De Felice si mostrava più cauto sui propositi «sovversivi» di Mussolini. D’altro lato, però, ci sembra azzardato parlare di un autentico trapasso di «regime» basandosi solamente – come fa Gentile – sui semplici desiderata di un capo rivoluzionario e, per esempio, sulla creazione del Gran Consiglio del fascismo! Quest’ultimo in particolare, creato il 15 dicembre del ’22, era un organo del Pnf e non un istituto dello Stato (lo sarebbe diventato il 9 dicembre del 1928): se la sua fondazione rappresentò senz’altro uno smacco, ma pur sempre relativo, nei confronti dello Stato liberale, esso tuttavia era ancora un organo ufficioso e informale: un po’ poco per parlare di regime!
Decisamente deludente, poi, l’analisi di Gentile in relazione ai rapporti di forza militare e alla questione dello stato d’assedio. L’interpretazione di De Felice è qui seguita alla lettera, dando ampio credito alle tesi del generale Emanuele Pugliese, comandante della guarnigione preposta alla difesa della capitale, il quale fornì la sua versione dei fatti nel dopoguerra in risposta alle accuse infamanti rivoltegli da Emilio Lussu, un decorato della Grande Guerra che si attestò poi su posizioni radicalmente antifasciste. Pugliese ha indicato cifre quanto meno sospette riguardo alla sua guarnigione, non mancando di rilasciare dichiarazioni da gradasso del tipo «sarebbero bastati pochi colpi di cannone a salve, per disperdere e disarmare quelle torme». Le «torme» di cui parla con disprezzo Pugliese sarebbero le colonne di squadristi accampate ai confini di Roma, formate da circa 30.000 armati. Nel resto del centro-nord i fascisti, che avevano mobilitato 300.000 camicie nere, avevano già occupati quasi tutti i centri nevralgici della principali città, spesso aiutati dai militari, entrando in possesso di fucili, mitragliatrici e, addirittura, pezzi d’artiglieria. Sebbene la loro organizzazione non fosse irreprensibile (come valutava il quadrumviro De Bono), si deve pur sempre calcolare che le squadre erano per la maggior parte formate da ex combattenti e decorati al valore. Quindi gli esiti di un eventuale scontro, per lo meno in quel frangente, erano tutt’altro che scontati.
Tant’è che Vittorio Emanuele, interrogando lo Stato Maggiore, si sentì rispondere che l’esercito era «troppo simpatizzante col fascismo da poterlo arrischiare in un conflitto» e che la guarnigione di Pugliese «disponeva di 5-6.000 uomini in tutto. Si trattava di reparti raccogliticci e non sicuri al cento per cento». Al re, in sostanza, fu detto: «l’esercito farà il suo dovere, però sarebbe bene non metterlo alla prova». Insomma, le cose sono molto più complesse e intricate di quanto non lascino intendere Gentile e l’auto-apologia di Pugliese.
Se dovessimo però cercare un pregio dell’opera di Gentile, questo è senz’altro da rintracciare nella demolizione di una delle più grottesche e insistenti interpretazioni antifasciste della marcia su Roma, e cioè che essa non sia stata altro che «una goffa kermesse» (A. Repaci) o «poco più che una trascurabile adunata di utili idioti» (D. Sassoon). Gentile, infatti, ben evidenzia l’assoluta gravità della situazione, rimarcando il pericolo reale ed effettivo di un partito-milizia di massa che minacciava apertamente le istituzioni democratiche dello Stato liberale. Chiosa giustamente l’autore: «il sarcasmo storiografico lascia senza risposta, ripetendo così l’errore di incomprensione commesso a suo tempo dalla maggior parte degli antifascisti, che non presero sul serio il fascismo e la “marcia su Roma”. Poi, sconfitti e messi al bando dal fascismo, si consolarono ridicolizzando la “marcia su Roma” come una messa in scena, e proiettarono questa immagine su tutta la successiva esperienza del regime totalitario: e non capivano che, in tal modo, essi ridicolizzavano se stessi, perché si erano lasciati travolgere dai commedianti di un’opera buffa, i quali rimasero al potere per un ventennio, e furono detronizzati soltanto dopo essere stati sopraffatti e disfatti dagli eserciti stranieri in una seconda guerra mondiale».
In conclusione, quest’opera di Gentile lascia perplessi, anche riguardo ai toni, allorché emerge implicitamente una sua interpretazione antifascista moderata e liberale della marcia su Roma. Proprio perché in finale, più che Luigi Salvatorelli (le cui tesi sono apprezzate da Gentile), fu all’epoca Richard Child, l’ambasciatore degli Stati Uniti a Roma, a cogliere l’essenziale dell’evento: «Qui stiamo assistendo a una bella rivoluzione di giovani (…) ricca di colore e di entusiasmo». Gioventù, colore, entusiasmo. Questo è fascismo.
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