L’articolo è stato pubblicato in «Occidentale», gennaio 2013.
Il 13 dicembre scorso è arrivato nelle sale italiane Lo Hobbit: un viaggio inaspettato (Warner Bros), il primo atto della prevista trilogia dedicata all’omonima opera di J. R. R. Tolkien. Il regista è, anche questa volta, Peter Jackson, il quale aveva già in precedenza curato la trilogia de Il signore degli anelli, il più famoso romanzo tolkieniano di cui questo Lo Hobbit costituisce il prequel.
Lo stile, sia nella sceneggiatura che nella scenografia, è lo stesso collaudato per Il signore degli anelli: ricostruzioni grandiose, ambientazioni spettacolari (le riprese sono state realizzate in Nuova Zelanda), atmosfere conturbanti. I ritmi talvolta rallentano, ma nel complesso lo svolgimento della trama è avvincente.
La storia, per il resto, è sufficientemente nota e sarebbe un peccato rivelarne anche solo degli spezzoni. La fedeltà della sceneggiatura all’opera originale è poi pressoché integra, se si fa eccezione di alcune licenze artistiche finalizzate a una migliore resa cinematografica. E il cast, infine, si rivela all’altezza del compito, con il bravo Martin Freeman nei panni del protagonista Bilbo Baggins, la conferma di Ian McKellen nel ruolo di Gandalf e la convincente prova di Richard Armitage nelle vesti del fiero e audace Thorin Scudodiquercia.
Insomma, il film è godibile e ben realizzato sotto tutti i punti di vista, riuscendo nell’impresa di restituire al meglio il capolavoro tolkieniano. Quel che invece non può esser taciuto ed evitato è un giudizio sul messaggio «politico» dell’opera, soprattutto a livello di immaginario. Non è infatti un mistero che la narrativa tolkieniana, dal dopoguerra fino ad oggi, ha esercitato un notevole influsso sugli ambienti della destra radicale, tanto che i raduni estivi della gioventù missina, più o meno dissidente nei confronti del partito, presero il significativo nome, appunto, di «campi hobbit». L’esperienza di questi campi, legati peraltro in parte alla «nuova destra» tarchiana, ha poi dato vita in alcuni suoi esponenti a un complesso fenomeno di auto-mitizzazione che non è possibile analizzare in questa sede, ma i cui effetti sono visibili ancora oggi, in particolar modo – come si diceva – a livello di immaginario.
Se da una parte è senz’altro vero che il fascismo del terzo millennio ha completamente e irrevocabilmente rivoluzionato l’immaginario destro-radicale, grazie soprattutto alla riattivazione delle radici avanguardiste e futur-ardite del sansepolcrismo, è tuttavia evidente, all’interno di questo vasto e stratificato immaginario, il permanere a livello residuale di richiami al mondo fantastico evocato da Tolkien. La questione naturalmente, sia chiaro, non è affatto artistico-letteraria, ma squisitamente politica, proprio perché in passato l’immaginario tolkieniano è stato spesso interpretato dai giovani neofascisti come un rifugio e una scappatoia: il fantasioso universo della Terra di Mezzo, popolato da nani, elfi e impavidi guerrieri, infatti, finiva più per proteggere dal mondo esterno una gioventù sotto costante attacco invece di fungere da collettore attivo e mobilitante. Le cause di questo processo erano sicuramente oggettive ma, al contempo, non si può negare una specie di resa soggettiva di fronte al tragico contesto politico da parte di alcuni militanti, i quali, magari inconsciamente, trovarono a Gondor o nella Contea ciò che sembrava loro impossibile conquistare in piazza, nelle strade, nell’ufficialità culturale e, più in generale, nella cosiddetta «società civile».
A questo punto una valutazione «politica» dell’opera tolkieniana si impone. L’autore, com’è noto, attinse a piene mani alle leggende e ai miti classici e germanici, ricreando un mondo fortemente intriso di etica eroica e princìpi aristocratici che si possono cogliere e apprezzare, ad esempio, nella figura di Aragorn, il ramingo del nord che, deciso ad essere fedele al suo destino di re, accetta stoicamente l’arduo compito di reclamare il suo trono; stesso discorso vale per Thorin Scudodiquercia, il tenace nano pronto a ogni sacrificio pur di riconquistare per sé e per il suo popolo il regno usurpato dal drago Smaug.
Nonostante ciò, tuttavia, nelle opere di Tolkien sono purtroppo presenti anche elementi riconducibili a una visione anti-eroica della vita. Gli Hobbit infatti, che svolgono un ruolo centrale nei suoi libri, rappresentano nei loro vizi e nelle loro virtù la componente «borghese» della Terra di Mezzo. Essi sono descritti come crapuloni, leggeri, pacifici, mansueti, tranquilli e bontemponi, senza una direzione d’esistenza e un destino, presi e tirati per la giacca dagli eventi che non riescono a controllare ma di cui, anzi, subiscono passivamente la tirannia. In proposito si potrebbe obiettare che Bilbo alla fine si decide per unirsi all’avventura di Thorin e Gandalf, rompendo in tal modo la ripetitiva routine della sua vita frivola e rilassata, così come Frodo accetterà di portare, tra atroci sofferenze, il «pesante fardello» per il bene comune. Gli Hobbit però, anche quando si risolvono per la lotta, non accedono mai a un’autentica dimensione tragica (e perciò eroica) dell’esistenza. Il loro compito è sempre gravoso, una scomoda e ineluttabile necessità di cui farebbero volentieri a meno, oppure, come nel caso di Bilbo, un temerario diversivo per evadere dalla monotonia borghese.
In altre parole gli Hobbit sono, nella migliore delle ipotesi, «eroi per caso», e quindi anti-eroi, proprio come tutti i borghesi, del resto. Una visione del mondo che, oltretutto, si attaglia benissimo alla concezione puritana e intrinsecamente anti-eroica dello spirito anglosassone in generale e statunitense in particolare, come hanno ben evidenziato Giorgio Locchi e Alain de Benoist ne Il male americano (LEdE, 1978), dove il guerriero è lodato solo quando difende la società dei pii e dei devoti, ma dove l’etica eroica, al contrario, è inevitabilmente condannata in quanto blasfema ed empia.
L’ambiguità dell’epica tolkieniana, quindi, risiede proprio in questo sottinteso dualismo che si compone nel lieto fine ma che lascia nondimeno irrisolto il conflitto. L’eterno conflitto, cioè, tra l’anima borghese, tiepida, timorosa e inessenziale, e lo spirito eroico, ardente, tragico, epico. Tra il borghese, che si accontenta degli agi e della «qualità» della vita, e l’eroe che accetta il suo destino di lotta e vittoria. L’eterno conflitto, insomma, tra la tragedia e la farsa.
però in Tolkien questa dicotomia ambigua non c'è.Tolkien era convertito al Tradizionalismo Cattolico e combattè la Prima Guerra Mondiale..e il suo mondo è tutto pregno di eroismo tragico.Non risulta mai un'empatia con gli Hobbit...
RispondiEliminaNon sono d'accordo con quest'analisi. Anche perché nei libri di Tolkien gli Hobbit svolgono un ruolo centrale. Sono figure inesistenti nelle saghe nordiche che Tolkien ha inserito per rappresentare proprio l'elemento "borghese" nella sua narrativa. "Borghesi" che possono fare la loro parte, che possono anche dimostrare coraggio. Ma l'obiettivo è, alla fin fine, sempre tornare alla Contea, cioè alla vita "borghese", placida e tranquilla. Non c'è una vera e completa "ascesa" interiore, tutto rimane a mezzo.
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