L’articolo sarà pubblicato in «Occidentale», novembre 2012.
Grazie agli sterminati contributi (certo per quantità ma non sempre per valore) prodotti in occasione del 150° anniversario dell’Unità, si era iniziato un più vasto processo di rilettura del Risorgimento e dei suoi protagonisti, presto cessato, però, a causa dell’evidente fastidio di parlare di un’Italia «una e indipendente» nel mentre si assisteva all’insediamento (illegittimo) di uno dei governi più antinazionali e servili che la storia del nostro disgraziato popolo ricordi. Tra oleografie istituzionali, rivendicazioni neoborboniche, rivalse padane e reazioni neoguelfe, tuttavia abbiamo anche assistito a una quanto mai opportuna riconciliazione di alcuni ambienti eredi del fascismo con il nostro moto risorgimentale, grazie principalmente a due opere di cui abbiamo già parlato qui sulle pagine di «Occidentale»: la raccolta di saggi Una Patria, una Nazione, un Popolo (Herald Editore), curata da Pietro Cappellari, e l’e-book Dell’elmo di Scipio di Sandro Consolato (Flower-ed).
Ad ogni modo, tra le opere pubblicate nel 2011 o poco prima, una in particolare è stata pressoché trascurata e lasciata sotto traccia, ossia l’ottimo Mazzini di Giovanni Belardelli (il Mulino, pp. 264, € 12). Docente di Storia del pensiero politico contemporaneo all’Università di Perugia, Belardelli si è anche distinto per il volume Il Ventennio degli intellettuali (Laterza, 2005) incentrato su aspetti notevoli della cultura fascista.
Il suo Mazzini, più in particolare, risulta quanto mai utile per comprendere sino in fondo l’apporto decisivo che il patriota genovese fornì al nostro processo di unificazione nazionale. Un contributo più spirituale, morale e culturale che non squisitamente «politico-fattuale» (si pensi all’esempio glorioso ma purtroppo effimero della Repubblica romana), che si rivelò nondimeno fondamentale per mantenere ardente la fiamma delle nostre rivendicazioni d’indipendenza e di unità, svolgendo un ruolo tutt’altro che secondario nello spronare le varie correnti patriottiche del Risorgimento.
Non fosse solo per questo (e già basterebbe!), non si può inoltre trascurare l’influenza che il suo esempio esercitò sugli intrepidi giovani che daranno vita alla rivoluzione italiana del Novecento. Ci siamo del resto già altre volte soffermati sul debito contratto dal fascismo nei confronti dell’eredità politica e culturale mazziniana, in particolare per quanto riguarda il primato della nazione sulla classe, lo spiritualismo anti-materialistico, la rivoluzione sociale tramite l’associazionismo e la collaborazione interclassista, la visione della politica come missione e pedagogia collettiva, l’identificazione di pensiero e azione, l’etica del dovere e dell’eroismo, l’approccio volontaristico alla realtà, il ruolo centrale di élites volitive e d’avanguardia, il mito della «Terza Italia» e della nuova Roma. Senza contare le numerose venature romantiche che caratterizzavano la mentalità e l’azione di sindacalisti rivoluzionari, di interventisti e di molti esponenti dello squadrismo che provenivano dalla tradizione politica repubblicana. Tanto che Emilio Gentile ha inserito Mazzini nel vasto magma ideologico da cui prese forma il movimento mussoliniano, e addirittura si è potuto parlare di un «Mazzini in “camicia nera”» (P. Benedetti).
L’Italia postbellica, viceversa, si è richiamata a Mazzini solo nella misura in cui egli rientrava nell’interpretazione ufficiale e oramai oleografica e vuotamente retorica del nostro Risorgimento, formulata dall’entourage sabaudo, il quale aveva già in larga parte depoliticizzato e depotenziato il verbo mazziniano, espungendovi i suoi caratteri rivoluzionari e anti-monarchici. Il suo abbandono nel secondo dopoguerra era perciò naturale e scontato, visto che le ardenti parole d’ordine di Mazzini, così come i suoi richiami al primato dell’Italia sulle nazioni, ben poco si attagliavano a governi e intellettuali che si erano prostituiti alla Casa Bianca o al Cremlino. Imperativi di fuoco che, oltretutto, spesso si coloravano di nero.
Un discorso a parte, inoltre, merita l’opportunità e la legittimità (non dico filologica, ma perlomeno ideale) di un «recupero» di Mazzini all’interno dell’immaginario rivoluzionario e avanguardistico, fortemente intriso di vitalismo, che è alla base del «fascismo del terzo millennio». Se per Garibaldi e il garibaldinismo non si sono presentati problemi di sorta, grazie agli elementi nazionali e sociali (ma non marxisti) che caratterizzavano l’«eroe dei due mondi», nonché agli ideali di giovinezza e spirito di sacrificio che permearono sempre il volontarismo delle camicie rosse, potrebbe invece apparire una stonatura il richiamo ideale a quel Mazzini che Carducci immortalò come «grande, austero, immoto» e dal «volto che giammai non rise». Quello stesso Mazzini che, già durante gli anni universitari, decise di vestirsi a lutto per l’oppressione della sua patria (abitudine che conservò per tutta la vita).
Eppure, accanto al Mazzini brumoso che volontariamente teneva a rappresentarsi come un profeta e un martire, quasi un «santone», è esistito e convissuto anche il Mazzini dall’intraprendenza romantica e ribelle, il quale – come ben illustra Belardelli – fu tra i primi del suo tempo a fare della giovinezza e del dato generazionale un «diretto valore politico». Uno spirito indomito, oltretutto, che si manifestò già nella sua prima esperienza politica, allorché partecipò, a neanche 17 anni, ai moti studenteschi di Genova nel marzo 1821. Armato di bastone, si recò assieme ai suoi compagni dal governatore del capoluogo ligure per reclamare, con fare minaccioso, la Costituzione. Ebbene sì, quando c’erano in gioco i destini della nazione, chi aveva 17 anni poteva anche brandire i bastoni con l’intenzione, peraltro, di usarli. Si capisce ora il perché chi non tollera fumogeni e passeggiate futuriste per i corridoi di scuola difficilmente potrebbe apprezzare uno dei più grandi padri della patria…
Ma, per tornare a noi, il culto tipicamente romantico della giovinezza e dei sani ardori giovanili contrapposti alla pusillanime prudenza dei vecchi (temi recepiti dalla lettura di Foscolo, Goethe e Byron) influenzò dunque fortemente il giovane Giuseppe e la prima associazione politica mazziniana (così come la sua pluridecennale esperienza cospirativa). La Giovine Italia infatti (e già il nome è significativo) fu indirizzata per espressa volontà di Mazzini a chi non superasse i 40 anni d’età. Si tratta dello stesso Mazzini che lasciò scritto, tra le altre cose, che «la gioventù è bollente per istinto, irrequieta per abbondanza di vita, costante ne’ propositi per vigore di sensazioni, sprezzatrice della morte per difetto di calcolo». Una giovinezza debordante di vita e di eroismo che – anche secondo Fichte – assumeva caratteri dirompenti e rivoluzionari: i giovani infatti, per il filosofo tedesco, «recano in petto un mondo tutto nuovo e diverso». Sembra di sentire Marinetti…
Insomma, il libro di Belardelli è importante per almeno due motivi: da una parte restituisce al pensiero mazziniano i suoi reali contorni (strappandolo quindi alle riletture democratiche e liberali di comodo), dall’altra, invece, ci mostra un Mazzini nella duplice veste di rivoluzionario e ribelle oltreché di profeta e martire di un’idea di potenza e libertà. Non sarebbe male, pertanto, riappropriarci di uno dei più puri protagonisti del Risorgimento, il quale già con la Repubblica romana ci ha dimostrato come sia possibile conciliare quei due elementi che veramente nobilitano la politica, ossia popolo e rivoluzione. Un uomo che fece della sua missione e del suo «apostolato» un dato carnale, vissuto, offrendosi all’esilio e alle più grandi sofferenze. Un uomo che, di contro ai moderati e ai vili d’ogni risma, per l’Italia era stato capace di concepire un destino. Un destino che oggi, nell’epoca dei governi tecnici antinazionali, dovremmo avere il coraggio di riprenderci.
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