giovedì 18 febbraio 2010

Intervista a Gianfranco Franchi



Gianfranco Franchi è nato a Trieste nel 1978. Laureato in Lettere Moderne a Roma III, è scrittore, poeta, saggista, giornalista e consulente editoriale. Ma, soprattutto, è uno degli scrittori più fecondi e interessanti nel panorama letterario nazionale. Annovera, tra le sue numerose pubblicazioni, le due caustiche opere Pagano (Il Foglio Letterario, 2007) e Monteverde (Castelvecchi, 2009). Gestisce «Lankelot», uno dei più grandi siti letterari online.



Quali sono i miti, gli autori e le esperienze che consideri parte integrante del tuo bagaglio politico-culturale?


Buongiorno, intanto, e grazie per l’ospitalità. Sono un letterato di formazione classica (Liceo e Lettere Moderne), ma sono sempre stato molto indipendente nei miei studi e nelle mie ricerche. Ero uno che all’Università preferiva prepararsi sul Flora, non sul Ferroni. Ero e sono uno che preferiva puntare gli artisti proibiti: laterali, censurati, rimossi, maledetti, mal tradotti, mal pubblicati. Per questo, «mi sia consentito ripetere che la biblioteca di mio padre è stata l’elemento cardine della mia vita. In realtà non ne sono mai uscito», come insegnava Borges. Papà era un filosofo-sindacalista, un intellettuale della DC proveniente dalla sinistra. E tuttavia era uno che leggeva, nelle sue infinite e libere letture, Drieu, Céline, Brasillach, Mishima, Jünger. Non ho faticato molto per scoprire questi artisti, a differenza di tanti miei coetanei: erano già tutti dentro casa mia, li respiravo dall’infanzia, ne sentivo parlare. Ho cominciato – con l’eccezione di Mishima – a leggerli presto. E poi ho dovuto soltanto approfondirli, e cercare di completare – è un’impresa che dovrò portare a termine – la loro opera omnia. Gli artisti fondamentali per la mia formazione sono stati Knut Hamsun, Tiziano Sclavi, Stig Dagerman, Scipio Slataper (più ancora di Svevo), Drieu La Rochelle e Guido Morselli. Chi invece sta risvegliando con una potenza incredibile la mia immaginazione e il mio desiderio di approfondimento e di scoperta, nel 2010, è Giordano Bruno Guerri. Ho quasi esaurito le sue pubblicazioni, le ultime voglio interiorizzarle adagio. È l’unico vero grande romanziere italiano vivente: non è solo uno storico. Le sue biografie sono state una scoperta incredibilmente piacevole e rigenerante.
Quanto ai miti... sono cresciuto leggendo le mitologie di tutto l’Occidente: Romana, Greca, Norrena, Etrusca, Egizia. Il mio mito è il mito di Orfeo. Sogno di sconfiggere la morte, sogno di scoprire il segreto del linguaggio. È un sogno molto antico. Ma è un sogno vivo.


«Il profumo dell’Italia è tra Unie e Promontore/ da Lussin da Val d’Augusto vien l’odor di Roma al cuore...». Che significano per te questi versi?

La canzone del Carnaro è nel mio cuore, non solo per il mio sangue giuliano e per le vicende della mia famiglia, in generale. L’impresa del Comandante D’Annunzio non ha avuto forse colore partitico: ma ha avuto valore sentimentale, e importanza essenziale. Essenziale, non ideale. Fiume era abitata da una popolazione a maggioranza assoluta storicamente italiana: decine di migliaia di nostri fratelli erano rimasti fuori dai confini dello Stato, post Secondo Risorgimento: post Prima Guerra Mondiale. Quando i soldati partirono da Ronchi per andare a riscattare i nostri fiumani dallo straniero – questa sì, questa fu una «Liberazione» –, avrei voluto essere tra loro. In prima linea. Se ci fossero filmati vedreste una città intera pazza di gioia, di incredulità e di italianità che va ad accoglierli. Questa è la verità. Mi onora avere in casa una medaglia con su scritto «Io ho quel che ho donato». Ce la tramandiamo da quattro generazioni. Adesso c’è chi specula sul colore politico di quei giorni, c’è chi li vuole rossi. Sorrido della cosa, perché a me importa che ne parlino: parlandone, saranno costretti a raccontare – finalmente – la verità. La verità è che i giorni della Reggenza sono stati sì un esempio di democrazia d’avanguardia, e di utopia e di disordine assoluto e artistico; ma erano e restavano i giorni della sbornia di gioia di un popolo italiano che poteva abbracciare la sua bandiera e riabbracciare la sua storia, minacciata dal nazionalismo yugoslavo. Qualche anno più tardi sarebbe tutto finito. La storia la conosciamo bene e non ci stancheremo mai di ripeterla a tutti, come il vecchio marinaio di Coleridge. Fin quando non avremo giustizia. Io e il mio popolo abbiamo una gran fame di giustizia.


A tuo parere, quanta strada deve ancora compiere la storiografia sulla questione delle foibe e degli esuli istriano-dalmati? Chi sono i migliori e i peggiori autori in proposito e perché?

Rispetto agli anni Novanta, quando a scuola, qui a Roma, i miei compagni non sapevano nemmeno cosa fosse l’Istria, e quando ascoltavano le storie mie e della mia famiglia come fossero romanzi un po’ fantasiosi, è cambiato molto. È cambiato che soltanto una volta, negli ultimi cinque anni, ho sentito un cittadino dire che gli esuli (i «profughi») erano soltanto dei «fascisti in fuga» («e quindi ben gli sta!», ghignava). È cambiato che incontro meno spesso nipoti o figli di esuli che nascondono la storia del loro cognome. È cambiato che uno studioso del calibro di Raoul Pupo ha pubblicato Il lungo esodo per Rizzoli, nel 2005. E ho letto la verità, scritta con le parole che mi insegnavano i miei nonni materni, piangendo di rabbia e bestemmiando dio e la DC e il PCI per quel che ci avevano fatto, impuniti, titini e partigiani “italiani”: «vale a dire l’esistenza di robusti interessi politici che per alcuni anni hanno sconsigliato di attribuire alle tragedie giuliane una portata nazionale. Sotto questo profilo, il caso più evidente, ma anche più semplice da intendere, è quello della cultura di sinistra d’ascendenza marxista, animata da un duplice ordine di preoccupazioni. La prima e più generale era quella di non dar fiato alle forze anticomuniste in Italia, cui la politica oppressiva del regime di Tito nei confronti degli italiani offriva abbondanti argomenti polemici. La seconda e più specifica era quella di stendere un velo d’ombra sui comportamenti quantomeno ambigui tenuti dal PCI sulla questione di Trieste nell’ultima fase della Resistenza e nei primi anni di dopoguerra». Non è più Petacco a scriverne, è Pupo. Quel libro è fondamentale, democratico, civile, umanissimo: la degna risposta al trio ultrariduzionista (negazionista? Fate voi) composto da Kersevan, Volk e Cernigoi. Volk, per me, rimane a questo punto un grande centravanti della Roma di Testaccio. Punto.
C’è un giovane studioso democratico, mio vecchio amico, che ha pubblicato recentemente – assieme all’ex PCI e DS Stelio Spadaro – un’antologia di «antifascisti democratici» che rappresenta un signor contributo alla causa della verità sulla questione del Confine Orientale. Si chiama L’altra questione di Trieste. Si parla di patriottismo democratico, si parla di esodo, si parla di tragedia della Giulia. Si leggono parole importanti come queste: «Trieste e l’Istria, abbandonate e tradite nel settembre 1943, sono ancora degne della Patria. La storia risponderà se la Patria è stata degna di loro» (Ercole Miani, La Resistenza nella Venezia Giulia). Su queste parole mi fermo. Notate l’accostamento «Patria» «Resistenza» «Venezia Giulia», e pensate a cosa è successo a Porzus. Fermiamoci qua.


Qualcuno ha parlato di pulizia etnica italiana ai danni degli slavi, alla quale le foibe sarebbero state una reazione. Quali furono le politiche del nostro paese tra le due guerre nei confronti delle popolazioni non italiane?

Grande e giusta domanda. Ho avuto la fortuna di studiare i libri dello storico Del Boca, ex partigiano: al di là della distanza ideologica (oddio quanto mi piace la distanza ideologica!) mi sono nutrito delle sue scoperte, e ho cercato di scandagliare, sommariamente, le sue fonti. Intanto, sintetizzo cosa racconta Del Boca in Italiani, brava gente:
«Nei due anni di occupazione, stando alle fonti jugoslave, nella sola provincia di Lubiana furono fucilati 1000 ostaggi e uccise “proditoriamente” 8000 persone; 35mila persone furono deportate in Italia; 4500 morirono nel campo di concentramento di Arbe; migliaia di case furono bruciate». Del Boca parla di «operazione di autentica bonifica etnica» (p. 235). Durante la «bella marcia» nei boschi sloveni furono uccisi 1807 partigiani in combattimento; 847 fucilati; 167 furono i civili uccisi (p. 239). Sei furono i campi di concentramento in territorio italiano: Arbe, in Dalmazia; Gonars e Visco, in Friuli; Monigo e Chiesanuova, in Veneto; Renicci, in Toscana. Nel 1942, 6577 furono i deportati ad Arbe, 2250 a Gonards, 3884 a Renicci, 3522 a Chiesanuova, 3172 a Monigo: secondo gli sloveni, invece, erano già 26mila. Ad Arbe, il tasso di mortalità era del 19 percento; morirono tra le 1495 e le 3500 persone, a seconda delle diverse fonti (p. 243). Secondo Roatta, all’epoca capo di stato maggiore dell’esercito, non si trattò di campi di concentramento ma di «campi di internamento protettivo e volontario»: nati per difendere quei cittadini dall’avanzata delle formazioni bolsceviche (p. 248). Del Boca è eccezionalmente amareggiato per questa menzogna. I Ministeri degli Esteri dei due paesi – Iugoslavia e Italia – si scambiarono liste di criminali di guerra, in cima alla prima il massacratore Tito, capo del loro Stato; rinunciando a consegnare gli italiani responsabili di crimini di guerra non potemmo domandare alla Germania la consegna dei nazisti stragisti per rappresaglia. In compenso, servirono circa 55 anni perché le parti in causa – almeno: due delle parti di esse, ossia Italia e Slovenia – si sedessero a tavolino per scrivere la storia dei vinti e dei vincitori con ben diverso equilibrio.

Adesso – accettando tutto quel che dice Del Boca per vero e per giusto: senza nessuna polemica – si può rispondere molto semplicemente così. Che a fronte di queste malefatte c’è stato l’assassinio di cittadini italiani (italiani, donne e bambini, fascisti e non), e di migliaia di serbi, croati, sloveni non allineati al comunismo di Tito; a fronte di queste malefatte c’è il nazionalismo yugoslavo che ha implicato 350mila esuli e 15mila morti nelle foibe; a fronte di queste malefatte ci sono 65 anni di ingiustizia: città italiane come Pola, Zara, Umago, Pirano, Capodistria, Fiume arbitrariamente occupate e popolate da stranieri, prima estremamente minoritari o del tutto assenti. Fino a qualche anno fa, neanche potevamo ricomprare casa nella oggi «Croazia». Curioso, no? A fronte di queste malefatte, c’è l’assassinio della verità nei libri di storia; e per sessant’anni pieni. A fronte di queste malefatte, c’è la triste vicenda degli esuli, accolti spesso con ingiusto livore e con odio dai nostri compatrioti, in Italia, e costretti a un nuovo esodo in Australia, o in Sudamerica. A fronte di queste malefatte, ci sono tanti suicidi avvenuti nel secondo dopoguerra: erano uomini e donne istriani e dalmati che non si integravano nelle nuove città. È storia anche questa. A fronte di queste malefatte, c’è stata l’accoglienza riservata ai comunisti italiani in località Goli Otok, Isola Calva, negli anni Cinquanta. Un bel lager pronto per accogliere chi andava ad abbracciare il famoso socialismo yugoslavo. Qualcuno è morto, là dentro. Strano, no? E quindi: condanno gli errori del nostro Paese, condanno la politica intollerante e slavofoba, condanno l’incendio del Narodni Dom (senza dimenticare i fatti di Spalato che li hanno originati, è chiaro) e condanno i campi di internamento-concentramento destinati ad accogliere, in condizioni disumane, i cittadini balcanici. Ecco: adesso che ho condannato tutto, senza paura di niente, restituite, per favore, verità al mio popolo. Restituiteci verità e giustizia. Restituiteci le case, la terra, i cimiteri, la storia. Piangete i nostri morti e i nostri esuli anche voi, comunisti e socialisti, anche voi, sloveni e croati. Chiedete scusa. Chiedete scusa. Chiedete scusa. Ci hanno rubato la storia, le case, il mare. Ci hanno rubato l’identità. Proprio come con gli austriaci di «Maribor», e di «Kočevje». Ossia Marburg, e Gottschee. La Yugoslavia è una menzogna che ha sporcato di sangue il Novecento, e ha saccheggiato e distrutto una storia secolare. Questo Del Boca non lo scrive, ma dovrebbe. È ora. Dobbiamo essere onesti.


Sono esistite una parte «giusta» ed una «sbagliata» nel secondo conflitto mondiale?

È una domanda complessa. Ti do una risposta semplice. È giusto ribellarsi allo Stato, può essere giusto: è giusto rovesciare un regime, può essere giusto; è giusto rifiutare di eseguire gli ordini, quando questi ordini sono liberticidi o omicidi. Ma non è giusto ribellarsi allo Stato, al regime e agli ordini alleandosi con una forza straniera, imperialista e sporca di crimini contro l’umanità. Io trovo ridicolo che sia stato salutato come «liberatore» l’esercito sovietico. Come: l’URSS aveva sulla coscienza milioni di morti per carestia indotta in Ucraina (sterminio etnico); come: l’URSS aveva sulla coscienza milioni di morti per sterminio di classe (i «kulaki»). L’URSS aveva massacrato tutti gli ufficiali polacchi a Katyn, per decapitare la loro classe dirigente. Che libertà venivano a portare, e che democrazia? Cosa potevano insegnarci, questi russi? A uccidere di nascosto? A inventare la storia? A fare i genocidi con nonchalance? Ho profondo rispetto per i partigiani patrioti autentici. Per gli azionisti, per esempio. Per i liberali, per i monarchici. Per quelli che si battevano per l’Italia. Non per chi si batteva per il socialismo. Non per chi si batteva per Mosca. Niente affatto per chi, al Confine Orientale, ha sparato ad altri italiani, al fratello di Pasolini e allo zio di De Gregori, perché l’Italia abbandonasse la Giulia alla Yugoslavia. Quelli non sono miei concittadini. Quelli sono cittadini della Yugoslavia di Tito, o dell’URSS di Stalin. Disconosco quella resistenza, non vedo cosa ci sia da apprezzare. Quanto al resto, piango i morti di tutti, perché tutti avevano sulla bocca la parola «patria». Accolgo nel mio cuore la memoria di tutti i caduti per l’Italia, per il futuro dell’Italia, per l’onore e per la dignità dell’Italia. È giusto.


A pagina 40 del tuo libro Pagano hai scritto: «La grande intuizione del fascismo è stata e rimane che non è “Italia”, ma Roma il concetto che può figliare restituzione di spirito, grandezza e intelligenza: è coscienza delle proprie radici e del proprio destino, fondazione d’identità e appartenenza comunitaria. Altro non siamo mai stati». Potresti approfondire il concetto?

Io sono un grande romanista. Da tutti i punti di vista. Scherzi a parte: Roma è storia millenaria, Italia è storia recente. È Roma la nostra origine e la nostra radice, è Roma e la sua gloria e la sua decadenza, e i 1400 anni passati sognando di ritornare a essere uniti. Sono tanti, 1400 anni. Troppi. Roma era il grande sogno degli umanisti. Roma è la parola sulle labbra del mondo quando si parla di qualcosa di eterno, fondato dall’uomo. Roma è l’Europa che stiamo vivendo: una confederazione di popoli, liberi e indipendenti, unita nel nome di pochi importanti valori guida. Siamo capaci – siamo orgogliosi – di accogliere altri popoli, ma vogliamo che siano assimilati: mantengano pure le loro tradizioni e la loro cultura, ma imparino intanto per bene le nostre, e imparino ad amarle e a rispettarle. È così che la conoscenza s’evolve: con la dialettica, col confronto.


Cosa significa per te la parola «comunismo»?

Comunismo era un sogno emi-cristiano d’uguaglianza e di giustizia finito per significare qualcosa di molto diverso. È una parola sporca di sangue di innocenti, sporca di propaganda e di menzogna. È l’utopia cristiana piegata al lavoro: un disastro disumanizzante. Comunismo per me significa il male che ha fatto in Europa, a partire dalla ex Yugoslavia, dall’Istria, da Fiume, dalla Dalmazia; dalla Polonia, dalla Repubblica Ceca, dall’Ungheria. Comunismo significa il nuovo regime imperialista cinese, liberticida e aggressivo. Significa il martirio di popoli liberi in nome d’un popolo soltanto: non dell’umanità, ma d’un’etnia dominante. Questo insegna l’esperienza russa sovietica. Comunismo significa genocidio impunito, per questioni di censo o di etnia. Comunismo significa censura. Altro e ben diverso è stato il comunismo parlamentare italiano: a chi ha rispettato la democrazia va tutto il mio rispetto. Ma allora cambiate nome, compagni. Chiamatevi – chessò – Socialisti Democratici. Condannate anche voi i milioni di morti caduti nel nome del comunismo. È ora. 2010: perché non inventare una nuova ideologia? Vale per tutti. Guardiamo avanti, inventiamo l’utopia nuova. Facciamola bella, giusta, democratica e umana. Facciamola nemica della violenza e della morte. Facciamola nostra.


Niccolò Giani. Che ruolo ha avuto nella tua formazione culturale?

Mi chiamo Gianfranco perché vengo, da parte paterna, dalla famiglia Giani e dalla famiglia Franchi. Ho scoperto pochi anni fa che Niccolò Giani era il caro cugino del mio bisnonno Mario. A casa nessuno mi aveva parlato di lui, sin quando un mio amico storico non ha scoperto la parentela e mi ha avvisato. Cose che succedono, diciamo così. Soffro pensando che abbia firmato il Manifesto della razza, soffro molto di più sapendolo antisemita convinto. Questo mi fa male davvero. Soffro meno pensando al suo stile letterario, alla sua Medaglia d’Oro, alla sua morte da eroe, lanciando – mi hanno poi detto, in famiglia – anche la pistola contro il nemico, dopo esser rimasto senza pallottole. È una figura complessa, sogno di studiarmi per bene la sua mistica perché il ramo letterario della mia famiglia nasce con Mario e Niccolò Giani, un secolo fa. Purtroppo non ho libri di nessuno dei due, e mi piacerebbe molto averne. Mario era il Direttore della Dante di New York, negli anni Trenta. Tornò in Italia, e fu assegnato a Lesina, Dalmazia, perché non voleva abbandonare il suo Paese in un momento di difficoltà. Era uno dei responsabili delle scuole italiane all’estero. Era un patriota. Un lettore formidabile. Un pittore onesto. Un buon padre di famiglia. Un vero triestino.


Julius Evola. Qual è stata la forza e la debolezza del suo pensiero?

Sono più legato a Scaligero che a Evola, per una serie di ragioni. So che quando ho letto Elogio e difesa di Evola, di De Turris, mi s’è aperto un mondo (civiltà, studi, contraddizioni). Mondo che non ho ancora esplorato a dovere. Ho appena cominciato. Mi sono accorto, però, che nell’ambiente letterario – in questo senso ha decisamente ragione De Turris – è rimasto l’unico autore veramente proibito. Ricordo, anni fa, che mi bastò nominarlo durante una presentazione per ritrovarmi in mezzo a una polemica allucinante. In ogni caso: la sua forza è la sua visione spirituale dell’esistenza, la sua debolezza è stata la vicinanza alla Germania. I migliori intellettuali italiani del tempo erano filofrancesi e antitedeschi. Mi sento decisamente vicino a loro. Avevano ragione loro.


Quanto è stato importante Céline per la letteratura del ’900?

Più di Hamsun e più di Drieu: e questa è una stranezza davvero singolare. È stato un narratore espressionista, sperimentale, crudo, cinico e profondo, capace di un livore pari al suo amore per la vita. Credo che imparerò ad amare Céline quando la vita mi avrà fatto del tutto a pezzi. Oppure, quando avrò i capelli bianchi, per bene. Sono troppo giovane per condividere la sua disperazione e la sua furia. Io sono solare, Céline è lunare. Io coi lunari ci gioco un po’, ma per rovesciarli, tendenzialmente. Perché diventino altro, perché tornino alla vita. Tutti abbiamo sofferto, tanto anche. È l’amore per la vita e per l’umanità che ci deve caratterizzare, non il rifiuto di tutto.


Che cosa ha significato per te la lettura di Ernst Jünger?

Jünger è un autore di papà. Tanti anni fa ricordo che era letteralmente impazzito, m’ero ritrovato a casa quindici libri tra Guanda e Adelphi, minori e non. A parte Il trattato del ribelle, che mi era estremamente caro per tutte le ragioni che voi capite al volo, ho evitato di leggerlo sin quando non è morto papà, a settembre. Non so perché. Ho preferito così. L’esperienza è stata potente ma non folgorante. È il Borges tedesco. È un favoloso lettore, un cittadino erudito, innamorato degli animali e delle piante, forse per dimenticare il figlio caduto al fronte. Mi piace molto quando racconta le vicende della Prima Guerra Mondiale: è incredibilmente vivido, credibile, onesto. Mi affascina quando attacca il nazismo restando fieramente tedesco: è un’impresa difficile, richiedeva coraggio e una forte capacità di fare compromessi. Capacità che io non avrei avuto, perché sono diversamente radicale. Mi diverte quando racconta dei suoi viaggi, da quasi centenario, mentre mi annoia quando gioca a fare il Rivarol. Tra Jünger e Drieu io scelgo Drieu.


Quali sono gli scrittori contemporanei maggiormente sottovalutati che meriterebbero ben altra considerazione?

Contemporanei viventi? Tra gli emergenti, nuova generazione, io amo molto Paolo Mascheri (Poliuretano, Il gregario), Claudio Morici (Matti slegati, Actarus), Andrea Consonni (Wrong), Luca Martello (Groucho e i suoi fratelli); viventi ma ingiustamente laterali, Renzo Paris (La vita personale), Francesco Permunian, Tiziano Sclavi. Pochi nomi perché altrimenti scrivo un papiro... Nel Novecento, c’è un mondo di grande Letteratura Italiana da riscoprire e da restituire alla luce, al di là del solito Gallian che adesso Baraghini ha adottato. Penso a Lo Presti, a Bontempelli, a Marinetti, a Tomizza (che non è proprio stato capito), a Stuparich, a Coccioli, a Slataper, a Ceccherini, a Quarantotti Gambini, a Renzo Rosso, a Delfini... l’elenco è sterminato. Non apro nemmeno il discorso “autori proibiti” nell’ex URSS e nella Mitteleuropa e nell’Europa dell’Est. Là si deve pescare a piene mani per un decennio pieno...


Passiamo alla politica. Dopo gli scontri di Piazza Navona del 29 ottobre 2008, hai coraggiosamente e puntualmente smentito le tesi esposte da Beppe Grillo nel suo blog (leggi). Che idea ti sei fatto del comico genovese? C’è qualche personaggio credibile ed indipendente nel mondo dell’informazione?

Beppe Grillo è stata una delusione terrificante. È stato una delle mie fonti sino al giorno in cui ha pubblicato quel video. Da quel momento ho cominciato a verificare come e cosa scrive, e da dove vengono le notizie. Fino ad arrivare a Casaleggio & Associati. Là mi sono fermato e mi sono sentito stupido e ingenuo. Adesso lo considero un buon divulgatore e un buon provocatore, ma non ho più voglia di andare a leggere il suo blog. Non ci credo più. Si è fatto manipolare da qualcuno, quel giorno, è stato ingiusto, precipitoso e cattivo. Quanto ai personaggi credibili e indipendenti, a me è sempre stato simpatico Massimo Fini, pure se non riesco sempre a stargli dietro. A lui devo la mia visione di Nerone, e di Catilina. Nerone è un libro che apre la mente almeno quanto Flatlandia di Abbott, andrebbe adottato nei Licei. Indipendenti non ne conosco tanti, purtroppo. Ogni testata è un ordine, ogni redazione ha una disciplina e una linea. Per questo ho fondato «Lankelot». Io non voglio parlare a comando. Io non voglio avere una linea. Io voglio essere una linea. Imprevedibile, sregolata, tutta ideale. Tutta letteraria.


Sei intervenuto a due conferenze tenutesi a CasaPound. Che idea ti sei fatto dei ragazzi di Via Napoleone III?

Sono stato accolto con amicizia, rispetto, umanità e gentilezza. La prima volta, quando ho sostituito Baraghini – purtroppo minacciato da qualche stupido, antidemocratico e incivile – per parlare di Bianciardi, m’è sembrato di ritornare ai giorni belli del Liceo, più ancora che dell’Università. Ho sentito fame di cultura, di intelligenza, di letteratura, di libertà. La seconda volta, quando abbiamo parlato di Kerouac, mi ha sbalordito ricevere un attacco frontale da un quotidiano che pochi giorni prima mi aveva dedicato una prima pagina, su un suo periodico. L’esperienza mi ha fatto tornare indietro ai momenti bui degli anni Novanta. Alle cose che combattevo allora, da ragazzino: l’egemonia culturale, il colore partitico e politico dato agli autori, la patente di poterne parlare data a chi volevano “loro”. L’ostilità nei confronti del diverso. Il diverso, allora come oggi, ero e sono io – erano e sono quelli come me. Ecco perché amo così tanto la democrazia. E perché la difendo con tutto me stesso. Perché la cultura di questo paese non aveva niente di democratico. Niente.

In via Napoleone III si fa cultura con onestà, competenza e libertà. I miei interventi sono stati assolutamente autonomi e indipendenti: zero controllo, zero richieste, zero «consigli», zero censura, zero «chiacchierate preventive». Non succede, diciamolo, da nessuna parte: l’ospite è sempre – magari con dolcezza – invitato a essere cauto su certi argomenti, oppure si va a domandargli un’anteprima del suo intervento, oppure ci si sincera del suo tesseramento... Chi ha avuto il coraggio di chiamare un cane sciolto, un irregolare come me per parlare di letteratura, di editoria e di cultura, al di fuori dei contesti «commerciali» delle presentazioni? Sino al 2010, nessun partito. Nessuna fondazione. Nessuna chiesa. Nessun movimento. Nessun centro sociale. Soltanto CasaPound. A me sembra un gran lezione di democrazia e di civiltà, di apertura mentale e di coraggio che CP ha dato a tanti. Non me ne dimenticherò mai.


Quanto è difficile coniugare coerenza e successo nel tuo mestiere?

Morselli si è suicidato, per coerenza. È una domanda difficile. Io non credo che questo Paese sia pronto per capire e accettare e rivendicare la coerenza come un talento o almeno un diritto. Io me ne frego del successo, voglio guardarmi allo specchio tutte le sere, prima di andare a dormire, e sentirmi tranquillo. Male non fare paura non avere. Sono fedele ai miei ideali e ai miei principi. Magari per questo pago con lunghi periodi di scarsa occupazione e di nulli riconoscimenti: è così dal 1997. Recentemente mi sembrava che qualcosa si fosse sbloccato. Non è vero. Nell’editoria non basta avere preparazione, umiltà e competenza. Serve qualcosa in più, certe volte. A volte servono sponsor, a volte servono soldi, a volte serve essere politicamente corretti, a volte serve essere molto amici di. Ecco: io non ho sponsor, non ho soldi, non sono politicamente irreggimentato, e i miei amici non sono così influenti. Soprattutto, non ho simpatia – nessuna, nessuna, nessuna – per la vecchia cultura egemone. Non mi va proprio giù, non la voglio, non mi appartiene. Insomma, mi sa che non farò tanta carriera. Ma come dice il grande capo indiano, ogni pomeriggio, a radiorai...


«Lankelot» è tra i più grandi siti di critica letteraria in Italia. Qual è la sua forza e cosa ti aspetti da questa esperienza?

Grazie intanto. La sua forza è l’apertura assoluta. Non si accede per invito. Non si accede per cooptazione. Non è un partito, non è un movimento: è un sogno di democrazia e di dialettica. Un sogno amato da liberali, socialisti, democratici, nostalgici, qualunquisti, comunisti (sì: io ho il culto della diversità, ho fame di diversità, pretendo la diversità), anarchici, apolitici e via dicendo. Si entra, come si entra in piazza – non in casa, in piazza – e si decide come comportarsi, come interagire. Abbiamo una linea molto chiara: la fedeltà agli artisti laterali, minori, emergenti, mai emersi, censurati, rimossi, preferibilmente pubblicati dalla piccola e media editoria. Quanto al resto, c’è sempre massima libertà, purché l’articolo sia abbastanza lungo e rispettoso del nostro semplice format (questo). Per precisa scelta estetica e dialettica, i commenti sono aperti a tutti; purché siano rispettosi del regolamento. Questa è una delle prime, granitiche differenze rispetto agli altri siti letterari. Qui si entra liberamente e francamente e si decide come partecipare, silenziosamente o attivamente, scrivendo cose nuove o commentando soltanto. Qui non c’è l’obbligo di restare fedeli a una linea, perché questo non è l’organo di un partito, intra o extra parlamentare. Non interessa a nessuno di noi monologare o pubblicare comunicati: non ha più senso. A nessuno interessa avere ragione. A tutti interessa comunicare: e confrontarsi. Questa è l’epoca dell’interazione, del dibattito, della dialettica. Il web nasce per questo. Per l’evoluzione via dialettica e studio e critica. Per il dialogo. Per il rizoma. Chiaro che mi sembrano tutte cose molto elementari. Peccato che in Italia siano praticamente uniche, nel web letterario, a un certo livello. Curioso...

Grazie Augusti.



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4 commenti:

  1. Complimenti Gianfranco:
    un'intervista che trasuda vita

    Adriano Scianca

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  2. Grazie, adriano. Ti assicuro che è tutto merito delle domande dei ragazzi. A domande intelligenti difficili dolorose profonde risposte - spero - degne. Cura ut valeas

    gf

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  3. Grande Fra
    Te lo dico dalla Spagna, una grandissima intervista... Sono esattamente sulla tua lunghezza d'onda: pagano che vuole sconfiggere la morte. E aggiungo trovare come i veri romantici, la chiave di volta per elevarsi con l'anima ma anche col corpo (non per niente il romanzo che sto scrivendo su Shelley e Byron mi sta insegnando tantissimo)

    un beso
    adriano

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  4. ave ottimo - e allora non vedo proprio l'ora di leggere questo libro nuovo, voglio essere il primo. Goditi la Spagna.
    abbraccio gigante
    gf

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