mercoledì 10 febbraio 2010

Intervista a Luca Leonello Rimbotti



Luca Leonello Rimbotti è nato a Milano nel 1951. Laureato in storia contemporanea, si occupa di mito, filosofia e politica nella cultura europea, in special modo tedesca. È autore – tra gli altri – dei volumi
Il fascismo di sinistra. Da Piazza San Sepolcro al Congresso di Verona (Settimo Sigillo, 1989), Il mito al potere. Le origini pagane del nazionalsocialismo (Settimo Sigillo, 1992), Globalizzazione (Settimo Sigillo, 2003) e La rivoluzione pagana. Relativismo etnico e gerarchia delle forme (Ar, 2006). Ha collaborato con le riviste «Elementi», «Italicum», «Margini», «Linea», «Diorama letterario», «Trasgressioni».



Quali sono i miti, gli autori e le esperienze che consideri parte integrante del tuo bagaglio politico-culturale?


Il Sovrumanismo di Nietzsche e Stirner, ma anche le individualità letterarie per così dire «eroiche» del tipo di Byron o William Blake, il Romanticismo anglo-tedesco, certe personalità che incarnano la lotta contro il proprio tempo e hanno il tratto del solitario e visionario precursore – da Herder a Oriani, per intenderci – fino ad ambienti del ribellismo storico, ad esempio l’anarco-squadrismo antemarcia. Poi ci metterei il classicismo dorico, l’estetica pre-raffaellita e in genere il figurativismo ottocentesco, da Friedrich ai Simbolisti al Futurismo... poi hanno avuto grande incidenza sulla mia formazione certi ambiti musicali della mia generazione, legati alla musica hard-rock e heavy-metal, coi loro immaginari rivoltosi e i loro rimandi ai valori tradizionali vissuti come opposizione anti-borghese... ma si potrebbe continuare.


Che cos’è stato sinteticamente il Fascismo, in che modo il suo insegnamento può essere ancora valido oggi, e in che senso te ne senti continuatore?

Il punto a mio vedere di gran lunga più importante del Fascismo è stato il tentativo storico di coniugare la tradizione popolare con la modernità: una nuova considerazione delle masse come soggetto politico, una concezione dinamica della vita e della socialità, un potente mito aggregante e identitario, una volontà di futuro che si sposava senza tante incrinature con la rivendicazione delle più lontane appartenenze, coi simboli antichi, col culto della terra dei padri, con la sacralizzazione della comunità di popolo, etc. Trovo che tutto questo proprio oggi rappresenti qualcosa di vivo, giudico che sia un’ideologia generosa di affratellamento e di fierezza, per cui ogni popolo dovrebbe riunirsi attorno ai propri patrimoni ereditati, così da offrire la maggiore resistenza contro il tentativo in atto di distruggere i legami nazionali a favore di un cosmopolitismo privo di identità e negatore delle differenze. Personalmente, mi sento un modesto ma tenace continuatore di tali valori: e da quarant’anni (da quando pubblicai il mio primo articolo) batto e ribatto sul medesimo tasto di una tenuta strenua sui significati di legame e di identità, poiché penso che, perduti questi, non si avranno più uomini e popoli, ognuno con la propria storia e la propria cultura, ma soltanto individui degradati e popolazioni ammassate a casaccio.


Quali sono gli storici che hanno contribuito secondo te ad una più oggettiva e disinteressata interpretazione del Fascismo?

Quelli classici. De Felice, Nolte, Mosse, poi Acquarone, Salvatorelli, Santarelli, sui quali mi sono formato. Ad essi si sono aggiunti Emilio Gentile, Settembrini, Sternhell, Parlato e pochi altri: ma nessuno di essi ha dato interpretazioni «disinteressate». Molti, anzi tutti, erano e sono in varia misura ostili al fascismo. Ciò non toglie che spunti, idee, metodi siano stati per me di insegnamento. Quando mi laureai, il mio professore mi disse che potevo, anzi dovevo avanzare giudizi di valore: da allora così faccio in ogni mio scritto e diffido di chi si proclama super partes. Non avere opinione su ciò che si scrive – essere dunque disinteressati – non è buona cosa per uno storico...


Quali sono, a tuo parere, le più profonde affinità e differenze tra il Fascismo italiano e il Nazionalsocialismo tedesco?

Sono stati movimenti storici molto più affini che differenti. Entrambi intesi a operare quella unione tra modernità e tradizione di cui dicevamo, entrambi basati su sistemi affini di mobilitazione popolare, su una struttura di partito e poi di Stato molto simile. La differenza sta nelle rispettive caratteristiche nazionali: l’antisemitismo, ad esempio, blando e solo di matrice cattolica in Italia, era in Germania diffuso a livello popolare. La maggiore somiglianza risiede, più che nei sistemi sociali o partitici, a mio parere, nella eguale volontà di operare una rivoluzione antropologica, creando un tipo nuovo di uomo che rompesse la tradizione progressista occidentale e si ricollegasse al mito eroico indoeuropeo: la Romanità e il Germanesimo ebbero questa funzione.


In cosa, secondo te, il Fascismo fu il legittimo erede di Roma antica? La Roma fascista fu veramente la Terza Roma?

Penso di sì. Se furono legittimi altri richiami alla Roma antica – pensiamo ai giacobini, ammiratori della Roma repubblicana, o a Mazzini, o ai poeti risorgimentali... – lo fu a maggior ragione il fascismo, che sui temi della fedeltà alla stirpe, la sacralizzazione della tradizione, l’imperialismo colonizzatore, la socialità corporativa, la gerarchia di rango, il senso del destino, etc. ci impiantò un moderno Stato nazionale. Dopo la Roma antica e quella papalina, davvero quella fascista avrebbe dovuto essere la Terza Roma, per dichiarazione esplicita dei suoi protagonisti: che fosse di cartapesta, grottesca o imbelle come ama dire la storiografia, non saprei. Dopotutto, a parte le gravissime deficienze umane, organizzative, etc. del fascismo, alla coalizione mondiale nemica occorsero diversi anni di guerra totale per abbattere un tale disegno politico... di cartone: o sbaglio? E, a giudicare da quanto se ne scrive ancora oggi, tutto questo ha lasciato una certa traccia nella storia.


Giovanni Gentile è stato definito il «filosofo del Fascismo». Quanto è stato grande, a tuo parere, il suo contributo nell’edificazione del regime fascista?

Gentile era uno dei pochi intellettuali italiani conosciuti a livello internazionale: e altri di questa categoria, come ad es. Pirandello o Marinetti, furono del pari fascisti. Ma il fascismo di Gentile fu piuttosto un liberalismo nazionale radicale. Anche se, dobbiamo dire, la socialità gentiliana aveva un tono non solo conservatore: l’umanesimo del lavoro aveva una sua nobiltà e una sua grandezza, e la sua concezione dell’Io come essere comunitario, la sua indicazione che la comunità nazionale non consiste nella mera cittadinanza, ma nell’unità spirituale, costituiscono un’ideologia di forte presa identitaria. La civiltà del lavoro come compiuta realizzazione dell’Idea ha una sua logica e sul finire Gentile – mi riferisco specialmente a Genesi e struttura della società, del 1943 – colse i rapporti tra liberalismo e anarchismo, rifiutandoli nel nome di una marcata funzione sociale dello Stato. Personalmente ho un po’ rivalutato Gentile per alcuni di questi aspetti: non vedeva il partito rivoluzionario, vedeva lo Stato, d’accordo, ma alla fine fece spazio – da buon hegeliano – a una concezione organica non certo di «destra». Sua fu poi, insieme a Mussolini, la visione del fascismo non come semplice movimento politico, ma come religione, forza dello spirito.


Quali furono i pregi e i difetti del «Fascismo di sinistra»?

I pregi? La volontà politica di eliminare i condizionamenti capitalistici senza distruggere il capitale, che è ricchezza del popolo, l’idea di dare al lavoro il protagonismo sociale, la determinazione di farne un elemento della decisione e non della sola esecuzione della volontà politica. Considerare un’unica classe: il popolo. E dare soltanto a chi vive del suo lavoro – che sia in basso o in alto – dignità e onore sociale. La competenza poi (ad es. in Bottai) era giudicata centrale, quindi niente retorica operaista, ma coscienza che senza gerarchia si fa la fine che ha fatto il comunismo, e che fecero le comuni ottocentesche. Al posto dell’utopia, la concreta concezione dello Stato organico: ognuno al suo posto e tutti a remare dalla stessa parte. I difetti? Non avere avuto una potente referente nel partito. Dopo l’accantonamento di Rossoni (1928) non si ha più un leader del fascismo corporativo. Mussolini si barcamena tra capitalisti, monarchia e Chiesa. La Carta del Lavoro era un buon punto di partenza, poi le corporazioni del 1934 rimasero sulla carta. La Camera dei Fasci e delle Corporazioni poteva essere un ottimo strumento per istituzionalizzare il fascismo social-progressista... ma è del 1939, non ebbe tempo per incidere.


Berto Ricci è stato uno degli intellettuali più brillanti e vivaci della «nuova generazione». Qual è il valore della sua opera? Quale lezione ne possiamo trarre oggi?

La sua lotta contro il borghesismo e la concezione individualistica della società, che è tipica della cultura italiana, trovo che sia ancora oggi un messaggio vivo e un modello estremamente valido. Il suo battersi, insieme a tanti altri giovani dell’epoca, per un’idea di «aristocrazia di comando» che desse ai migliori, ai più efficienti e ai più disinteressati, le leve del potere, eliminando la corruzione, il clientelismo e la tradizionale pratica italiana di stare dalla parte del più forte. L’avvento di una generazione di uomini liberi da condizionamenti, che avesse in mente il riscatto dell’onore e della dignità del popolo, e che fosse per questo in grado di toccare gli interessi privati avendo come sponda il fulcro centrale del potere: il partito e Mussolini. Che, invece, rimasero troppo spesso prigionieri dei poteri forti pre-fascisti, alla fine – grazie alle vicende mondiali – risultati vincenti.


La Scuola di Mistica Fascista è stata la fucina dei cosiddetti «apostoli del Fascismo». Quali furono i punti di forza di quell’affascinante esperienza?

La volontà di considerare la vita degna di essere vissuta soltanto se spesa servendo ideali nobili di offerta di sé. Considero la Scuola di Mistica un vero sacerdozio, un ambiente che con taglio propriamente religioso giudicava il sacrificio – persino della propria vita – un fine luminoso cui aspirare, una meta con la quale la persona umana si completa, diventando qualcosa di sovrumano. La dimensione trascendente, innestata su una fede fanatica – non dissimile dalla fede dei santi e dei martiri – è una via difficile e dolorosa, tanto più ardua da intraprendere se concepita come offerta spontanea, persino gioiosa e sorridente nello sforzo di superare i limiti della nostra natura di uomini: si tratta di apici esistenziali difficilmente comprensibili dall’uomo normale, specialmente in un’epoca come la nostra, che premia il furbo, il dissacratore, l’arrivista... cioè i valori opposti a quelli di una visione mistica e sacrale della vita.


In cosa risiede la portata rivoluzionaria del Corporativismo e della Socializzazione delle imprese?

La conciliazione delle classi, il superamento della conflittualità interna al corpo sociale: questo il dato sovvertitore. Il fatto che può essere un partito egemone e addiririttura uno Stato illuminato a guidare il processo di liquidazione del predominio degli interessi privati su quelli comunitari. L’idea che il popolo è un’unità organica, una comunità unita da un medesimo destino e non un insieme di interessi divergenti, legati alla categoria di lavoro cui si appartiene. Pur con certe differenze, talora marcate, tra il sindacalismo integrale e il corporativismo vero e proprio, si nota un comune intendimento di pervenire al concetto di organicità dell’economia. Progetti come quello della corporazione proprietaria di Spirito – in un contesto di maggiore forza politica – avrebbero rivoluzionato gli assetti sociali dalle fondamenta: la proprietà, la gestione e gli utili d’impresa spartiti tra i membri della produzione, gli esecutivi come i direttivi. Ma anche il corporativismo «di regime», pur attuato poco e male, aveva un’ideale nobile: proprietà dei mezzi produttivi inalterata, ma verifica che non avesse a prevalere l’interesse del capitalista sull’interesse della produzione nazionale. La socializzazione, poi, che dava al lavoro la cointeressenza sugli utili, spingeva tale ottica rivoluzionaria a un punto radicale: la stessa gestione è appannaggio delle categorie del lavoro, e il ricavato viene suddiviso tra chi lavora, e non elargito dal capitalista in qualità di salario. Antioperaismo, anticapitalismo e produttivismo organico: non c’è nulla, in questa concezione, che non possa essere ancora oggi pienamente ripreso da un movimento politico inteso a superare le micidiali derive della gestione multinazionale dell’impresa e soprattutto a spezzare il predominio della finanza sull’economia e quello dell’economia sulla politica. Molto modestamente e con tutti i limiti del caso, il sottoscritto è stato il primo ad occuparsi specificamente del «fascismo di sinistra», anticipato solo dal breve saggio di Silvio Lanaro che comparve sulla rivista «Belfagor» nel 1975: lo stesso Settembrini – che nel suo libro Parlato, pur citandomi, dice essere stato il primo – mi seguì di due anni. Rivendico questa modesta primogenitura e confesso che non mi sono mai distaccato dalle mie giovanili convinzioni, che il fascismo avesse una forte spinta rivoluzionaria anche in senso sociale.


Evola è stato un punto di riferimento importante degli eredi del Fascismo. Qual è stata la forza e la debolezza del suo pensiero?

La sua forza è stata nella rara capacità di evocare miti viventi. Di fare di alcuni simboli e di alcuni mondi culturali l’antefatto immediato di una presa di coscienza politica che potesse essere ancora attuale. Il suo talento nell’affrescare valori storici e significati tradizionali imprime indubbiamente un’energia ideologica animatrice, che rimane indelebile in chi ha avuto i suoi libri tra gli elementi formativi. Certo, non comprese appieno il fascismo e la sua epoca. Non ebbe i mezzi culturali per apprezzare uno sforzo di tale portata, inteso a innestare i motivi tradizionali nella modernità, facendone cultura di popolo ed estraendoli dalle chiuse stanze degli eruditi. Similmente ai circoli nazionalconservatori tedeschi, era assente in Evola la sensibilità politica atta ad apprezzare il disegno di portata epocale di combinare l’arcaicità col futuro. Mancanza impolitica non da poco, che tuttavia non ne compromette il retaggio sotto il punto di vista del valore culturale e ideologico.


Quali sono stati, a tuo parere, i gruppi organizzati e le fucine di pensiero più importanti e validi del neofascismo dal dopoguerra ad oggi?

Penso che soltanto l’ambiente di Ordine Nuovo sia stato, ai tempi e per un breve periodo, un vero laboratorio di pensiero politico. Agganciato a Evola – pur coi difetti di costui di cui si è detto – quel sodalizio ebbe la capacità di sollevare argomenti, miti, inquadrature con ricadute sul politico, insomma un’ideologia in sé coerente, una vera concezione del mondo. Personalmente poi ho partecipato per lunghi anni all’esperienza della cosiddetta «Nuova Destra»: qui veramente si ebbero incisivi segnali di uno svecchiamento della cultura politica, nuovi temi affiorarono, antichi complessi venivano abbandonati. De Benoist per un periodo importante è stato un maestro di elaborazione nuova, un intellettuale creativo e fertile, che ha aperto spazi e indicato metodi. In maniera non dissimile, Marco Tarchi ha impresso in tanti di noi la capacità di vedere le cose più da lontano, con ottica libera, cercando nuovi collegamenti. Purtroppo il progetto metapolitico della Nuova Destra, isolata in modo crescente, non ha sfondato: e i suoi paladini hanno finito con l’essere attirati di nuovo dal magnete delle loro culture di provenienza. Così molti oggi sono tra le gambe del potere, altri sono rifluiti allo studio del fascismo e dintorni. Marco lotta ancora da solo e con qualche giovane nella sua trincea. Ma l’esperienza – parlo per me – non è stata infeconda, i suoi semi hanno in qualche modo fruttificato, anche se solo a livello individuale.


Anni di piombo. Quali i miti da sfatare, le logiche ed i protagonisti occulti di quel periodo?

Confesso che l’intero capitolo degli «anni di piombo» non mi ha mai interessato. L’ho sempre visto come un ginepraio di loschi traffici, atteggiamenti ambigui, idealismi mal riposti e oscene compromissioni. Ho un istintivo distacco per tutto quanto non è limpido e aperto. Dico soltanto che provo umana comprensione per tutti coloro che, senza colpe, sono stati travolti dalla logica dura del potere, e ne hanno sofferto.


Si parla spesso di «identità», o con richiami puramente retorici oppure con invocazioni ideologiche al meticciato: che senso ha questa parola? Il melting pot è, secondo te, un pericolo o una possibilità?

Identità è l’esser se stessi: ciò vale per un singolo uomo come per un singolo popolo. Tutto ciò che non attiene all’esser se stessi è evidentemente estraneo o addirittura nemico dell’identità, mirando a sfigurare un volto e a renderlo irriconoscibile. Gettare masse delle più disparate provenienze all’interno di un popolo significa volerne annientare la forma e la caratteristica storica, bella o brutta che sia. Tanto l’immigrante quanto chi subisce l’immigrazione perde qualcosa di sostanziale: la propria tradizione, il proprio passato, la propria cultura, il proprio onore di uomo, che non consiste solo nell’individualità, ma anche nell’appartenere a una cultura storica, sia pure la più umile del pianeta. Che, in quanto tale, merita anch’essa rispetto e protezione: che c’è di positivo in questo voler annientare i legami di storia e di cultura? In nome di cosa, poi? La cittadinanza universale?


Che cosa pensi del processo di unificazione europea? Meglio un’unione “inquinata” da derive liberalcapitalistiche, oppure un rafforzamento delle sovranità nazionali?

L’attuale unificazione europea è a gestione bancaria, lo vede anche un cieco. I popoli europei – del resto quasi mai consultati in proposito e, quando consultati, espressisi negativamente – non c’entrano niente. Un rafforzamento identitario a tutti i livelli, oggi che il vecchio nazionalismo è superato da due guerre civili, sarebbe auspicabile in vista di un’Europa unita. I regionalismi, in questo senso, li giudico positivamente, come ogni fenomeno di rinsaldamento identitario. Lo stesso nazionalismo non esclude né il regionalismo né l’europeismo, anzi li presuppone: gli imperi da sempre sono innestati sulle piccole appartenenze. Di solito si obietta che il nazionalismo porta alla guerra. Direi che non è vero. È solo quando il nazionalismo viene forzato dall’interesse economico imperialista che diventa un elemento infiammabile, altrimenti l’amare il proprio popolo non prevede affatto l’odiare quelli altrui, al contrario. Le recenti faide balcaniche sono state causate da precedenti motivi di internazionalismo comunista: popoli a forte identità mescolati a forza dal pregiudizio anti-nazionale, e che hanno scatenato l’odio reciproco che si crea dalla fusione coatta. Mi risulta poi che la liberaldemocrazia sia in grado di scatenare guerre perfettamente distruttive, senza avanzare la minima rivendicazione nazionale, ma anzi proprio nel nome di quelle utopie internazionaliste che vengono gestite da liberali e neo-giacobini (la «destra» e la «sinistra») in assoluta concordia.


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