lunedì 9 dicembre 2013

Corporativismo e New Deal/2



Nel regime fascista, accanto a molte posizioni superficiali o di taglio giornalistico, ci fu ampio spazio per chi espresse critiche documentate e ampi studi verso l'America e le sue riforme. In prima fila ci furono i bottaiani, che tentarono di esaminare il problema «alla luce di una definizione più precisa di corporativismo»1, considerato come l'idea che si stava ormai imponendo su scala mondiale. Proprio Bottai fu protagonista di un momento saliente del rapporto tra i due Paesi, quando firmò l'articolo Corporate State e NRA su «Foreign Affairs» («voce ufficiosa ma autorevole del Dipartimento di Stato»2) del luglio 1935, dedicato a un'esposizione teorica del corporativismo e a un'analisi delle differenze e somiglianze sul piano sociale ed economico fra Italia e Stati Uniti3. Non è quindi casuale l'impegno profuso dalla scuola di Scienze Corporative di Pisa (voluta dal gerarca romano) nella raccolta e nella traduzione di libri di numerosi autori americani, quali Stuart Chase, Thorstein Veblen4Henry A. Wallace, segretario all'Agricoltura dell'amministrazione Roosevelt, e dello stesso presidente americano, risultando all'epoca una delle più complete in proposito5. Nello stesso ambiente culturale, autori come Benigno Crespi e Attilio Fontana si concentrarono sull'analisi del taylorismo e dell'organizzazione industriale americana, mettendone in luce i lati positivi6. Ancor più “audaci” furono studiosi come Fritz Ermarth e Andrè Rouart, che descrissero un'America «sulla via delle realizzazioni corporative»7, al pari del «sostenitore più deciso e preciso della somiglianza tra i due casi»8Giovanni Fontana, che ebbe occasione di studiare il caso statunitense attraverso un soggiorno alla Yale University9. Le maggiori critiche rivolte a chi proponeva paralleli riguardavano, in particolare, la mancanza di coinvolgimento dei lavoratori nel processo formativo delle leggi (come si pretendeva avvenisse in Italia) e differenze di carattere spirituale e morale quali divergenze più eclatanti tra le due esperienze10. Numerosi risultarono coloro, quindi, che negarono qualsiasi parentela tra il National Recovery Act (NRA, elemento centrale dell'economia rooseveltiana) e le politiche fasciste, come i nazionalisti e i reazionari11. Il quadro che emerge, comunque, è quello di una vasta schiera di intellettuali e scrittori capaci di esprimere critiche documentate e spiccare per capacità d'analisi e vitalità di pensiero. Non solo Spirito12 e Bottai, ma personaggi quali Fontana13Celestino Arena14 e Guglielmo Masci. Quest'ultimo fece costante riferimento alla teoria dello sviluppo di Schumpeter e agli scritti di Keynes, esprimendo un pensiero economico autonomo e talvolta addirittura anticipatore di alcuni aspetti delle loro opere successive15.

Di primaria importanza e particolarità fu la posizione di Mussolini, che recensì positivamente il libro di Roosevelt Looking Forward16e ci tenne a far pervenire una cordiale lettera al presidente americano, recapitata dall′allora ministro delle Finanze Guido Jung, giunto in visita ufficiale a Washington nel 193317Questo avvenimento si inseriva nel preciso periodo in cui diversi intellettuali e membri del Brain Trust effettuarono studi e viaggi in Italia. Tra i nomi più importanti figurarono Hugh Johnson, James Farley18, Harry Hopkins19 insieme ai professori Raymond Moley e Rexford Tugwell20. Tutti si espressero con toni sostanzialmente positivi riguardo alle politiche economiche fasciste per affrontare la crisi economica. Da qui le polemiche e i confronti nel dibattito americano si fecero più serrati, orchestrati in molti passaggi significativi dall'abile figura del presidente Roosevelt21.
La rivista «Fortune» si spinse fino a dedicare un numero speciale al corporativismo, in cui, oltre a diverse considerazioni critiche, venivano elencati i «vantaggi» che una programmazione economica di stampo fascista avrebbe potuto offrire alla situazione critica del Paese22. Non dissimili le analisi di molti studiosi e giornalisti, poco noti oggi in Italia, che firmarono pagine importanti di questo complesso rapporto. Roger Shaw, ad esempio, scrisse: «La Nra, con il suo sistema di norme, le clausole che regolano l'economia, e certi aspetti tesi a migliorare la situazione sociale, è stata un semplice adattamento americano dello Stato corporativo italiano nei propri meccanismi. La filosofia del New Deal assomiglia da vicino a quella del partito laburista inglese, ma i suoi meccanismi sono stati presi a prestito dall'antitesi italiana al laburismo»23. Sullo stesso piano si posero nomi delle più diverse estrazioni politiche come William Welk24Norman Thomas25, Mauritz Allegren26, Gilbert Montague27 e lo storico Charles Beard28. Ben poche, tra le riviste più importanti e diffuse29, non toccarono l'argomento.
Quest'attenzione verso l'Italia destò allo stesso tempo preoccupazioni e forti rimostranze da parte di politici (principalmente dello schieramento conservatore, come Hoover) e di studiosi quali Leon Samson e Waldo Frank, timorosi riguardo alla possibile perdita dei valori democratici del Paese30. Tra i critici più pungenti verso il fascismo e la sua economia spicca il nome di George Seldes che, nel libro Sawdust Caesar. The Untold history of Mussolini and fascism, mise in luce quelle che considerava le contraddizioni e le finzioni propagandistiche del regime fascista31.
Ciò che stupisce di più, comunque, è il fatto che in ambito americano «i paralleli fra New Deal e corporativismo fascista erano ancor più diffusi (...) che nella stessa Italia»32.



M. Vaudagna, New Deal e corporativismo nelle riviste politiche ed economiche italiane, cit., p. 110.
Ibidem, p. 106.
Ibidem. Anche Ermarth ebbe occasione di illustrare il corporativismo su «Plan Age» (Ibidem, p. 138), rivista dei “pianificatori” americani, diretta dall'economista Lewis Lorwin, e il cui contributo fu uno dei più originali all'epoca.
Questo nome ci consente di aprire una parentesi per citare il tema della “tecnica” e della tecnocrazia, che accomunò le elaborazioni teoriche di alcuni protagonisti-chiave nel contesto preso in esame, come Bottai e Eraldo Fossati.. Cfr. Arturo Masoero, Un americano non edonista, Economia, n.2, febbraio 1931, pp. 151 – 172; E. Fossati, New Deal. Il nuovo ordine di F. D. Roosevelt, Cedam, Padova, 1937;Alexander De Grand, Bottai e la cultura fascista, Laterza, Roma 1978 e Alfredo Salsano, L'altro corporativismo. Tecnocrazia e managerialismo tra le due guerre, Il Segnalibro, Torino 2003.
M. Vaudagna, New Deal e corporativismo nelle riviste politiche ed economiche italiane, cit., p.138.
B. Crespi, Il taylorismo nell'Italia fascista, «Critica Fascista», 15 febbraio 1929, pp. 88 – 91; B. Crespi, Cosa insegna l'America, 15 settembre 1929, pp. 351 – 353; A. Fontana, presupposti e finalità del taylorismo, «L'Ordine Corporativo», II, 7, maggio – giugno 35, pp. 11 – 14. Da segnalare inoltre i libri: Eraldo Fossati, New Deal. Il nuovo ordine di F. D. Roosevelt, Cedam, Padova, 1937 e Mariano PierroL'esperimento Roosevelt e il movimento sociale negli Stati Uniti, Mondadori, Milano, 1937.
M. Vaudagna, New Deal e corporativismo nelle riviste politiche ed economiche italiane, cit., p. 118.
Ibidem, p. 126.
Ibidem, p. 117. Tra le sue ricerche più interessanti da mettere in evidenza, spicca l'accurato studio dei codes americani: G. Fontana, La disciplina della concorrenza e i codici di Roosevelt, Diritto del Lavoro, Roma 1935 e il volume: G. Fontana, La concorrenza sleale negli Stati Uniti d'America, Cya, Firenze 1936.
10 In proposito cfr. le posizioni degli economisti Alberto De Stefani, Luigi Amoroso, Felice Vinci e Renzo Sereno (Ibidem, p.113) o del giornalista Piero Campana. Ibidem, p. 130.
11 Valgano per tutti i numerosi corsivi dell'epoca presenti ne La Vita Italiana dell'antisemita Giovanni Preziosi, ne L'Economia Italiana, rivista improntata allo «statalismo autoritario», che non esitò a definire il capitalismo americano come «un'economia di rapina» (M. Vaudagna, New Deal e corporativismo nelle riviste politiche ed economiche italiane cit., pp. 112 – 113) e negli scritti di Giuseppe Attilio Fanelli, caratterizzati da un'ideologia «ruralistica e antiamericanistica». G. Santomassimo, La Terza Via Fascista cit., pp. 273.
12 Come già osservato, Spirito fu protagonista nel dibattito intorno alle questioni sociali,politiche ed economiche degli anni '30. Il filosofo aretino, tentando di dare alle sue intuizioni respiro internazionale, espresse interesse per il fordismo americano (U. Spirito, Il problema del salario nella trasformazione del capitalismo, «Critica fascista», 15 settembre 1932, pp. 365 – 367), formulando al contempo una critica all'economia liberale «per certi versi in notevole sintonia con i primi scritti di Keynes». M. Finoia, Il pensiero economico italiano degli anni '30, cit., p. 585.
13 Il già citato studioso scrisse su La rivista di Politica economicaIl Diritto del LavoroRassegna corporativa e Commercio. M. Vaudagna, New Deal e corporativismo nelle riviste politiche ed economiche italiane cit., p. 117.
14 Francesco Perillo ha osservato che, nella sua produzione, «Arena riprende temi già sviluppati, in quegli anni, dal pensiero anglosassone immediatamente pre-keynesiano; tuttavia queste analisi testimoniano una inaspettata sintonia con le linee di sviluppo dell'analisi economica all'esteronon rintracciabile invece nella scuola accademica liberale: così che, proprio attraverso le tematiche emergenti nell'area del pensiero corporativo, è possibile cogliere i limiti dell'immobilismo concettuale del liberismo italiano» (F. Perillo, Introduzione a: La teoria economica del corporativismo, vol. 2, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1982, 2 voll., p. 345). Arena diresse anche, insieme a Bottai, la «Nuova Collana di Economisti Stranieri e Italiani». Keynes non venne ovviamente trascurato: Piero Bolchini, La fortuna di Keynes in Italia, «Miscellanea Storica Ligure», Anno XIV, Genova 1982, pp. 7 – 70; Aurelio Marchioro, Il keynesismo in Italia nel periodo a cavallo della seconda guerra mondiale, «Studi di storia del pensiero economico», Milano 1970, pp. 628 – 652 e Giacomo Beccantini, L'acclimatamento del pensiero di Keynes in Italia: introduzionead un dibattito, «Passato e presente», II, luglio – dicembre 1983, pp. 85 – 104.
15 M. Finoia, Il pensiero economico italiano degli anni '30 cit., p. 573 – 574. Riferendosi a lui, con un'affermazione tutt'oggi valida, l'economista Federico Caffè scrisse: «si è indotti a chiedersi perché un pensiero così fecondo, vivace, stimolatore sia oggi praticamente ignorato» (F. Caffè, Frammenti per lo studio del pensiero economico italiano, Milano, Giuffrè, 1975, p. 125). Riguardo alla politica americana dei primi anni '30, Masci espresse apprezzamenti per quello che considerava un esperimento «vasto e interessante». Ibidem, p. 583.
16 Benito Mussolini, Roosevelt e il sistema, «Il Popolo d'Italia», 7 luglio 1933, riportato in Bollettino del Ministero degli affari esteri, 7 luglio 1933, pp. 715 - 717. Gli apprezzamenti verso la figura del presidente USA e la sua politica di interventismo statale furono confermati l'anno successivo da una nuova recensione del duce, questa volta a un libro di Henry A. Wallace, chiusa enfaticamente: «Dove va l'America? Questo libro non lascia dubbi: è sulla strada del corporativismo, il sistema economico di questo secolo». I provvedimenti americani erano visti come prova della bontà delle idee fasciste, oltre che occasione propagandistica da sfruttare, come suggerisce W. Schivelbush, Three New Deals, cit., pp. 27 – 28.
17 La polemica riguardante la lettera del duce e i suoi rapporti con Roosevelt è stata posta all'attenzione del pubblico da Lucio Villari e Sergio Romano: Che cosa unisce e cosa divide New Deal e fascismo, “Corriere della Sera”, 14 novembre 2010, p. 29. La lettera fu recapitata il 24 aprile 1933, neanche due mesi dopo l'elezione del presidente democratico. Tale fu l'attenzione verso Roosevelt che nel luglio 1933 l'Ufficio stampa del duce diramò l'ordine di non definire “fascista” il New Deal, per non offrire argomenti agli oppositori politici del presidente americano. Le azioni italiane in questo periodo furono ricambiate da parole lusinghiere da parte di Roosevelt, che definì Mussolini «that admirable Italian gentleman» (J. P. Diggins, L'America, Mussolini e il fascismo, cit., p. 362).
18 R. De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso, cit., p. 554.
19 G. Santomassimo, La Terza Via fascista, cit., p. 208.
20 W. Schivelbush, Three New Deals, cit., pp. 34 – 35.
21 «Primo grande presidente “mediatico”, Franklin D. Roosevelt fu maestro nel controllo dell'opinione pubblica: allestì un efficiente servizio di monitoraggio dei giornali, inaugurò l'abitudine di tenere regolari conferenze stampa, coltivò rapporti di amicizia personali con i principali cronisti politici, curò scrupolosamente la sua immagine». Oliviero Bergamini, La democrazia della stampa. Storia del giornalismo, Laterza, Bari 2006, p. 231.
22 «Fortune», X, luglio 1934, pp. 137 – 138, riportato in J. P. Diggins, L'America, Mussolini e il fascismo, cit., pp. 208 – 210. Proprio questa rivista ospitò anche alcune considerazioni sull'Italia fascista del presidente Roosevelt: cfr. in proposito J. P. Diggins, L'America, Mussolini e il fascismo cit. pp. 365 – 366.
23 R. Shaw, Fascism and the New Deal, «North American rewiew», vol. CCXXXVIII, 1934, p. 472.
24 Su «Foreign Affairs» questo politologo firmò una lunga e lusinghiera inchiesta sull'economia fascista: W. Welk, Fascist economic policy and Nra, «Foreign Affairs» XXI, ottobre 1933, 98 – 108. Welk successivamente pubblicò un libro sul tema: W. Welk, Fascist Economic Policy; An Analysis of Italy's Economic Development, Harvard University Press, Cambridge 1938. Oltre a questa, non pochi i volumi significativi che videro la luce negli anni '30: Carmen Haider, Capital and Labour under fascism, Columbia University Press, New York 1930; Ernst Basch, The Fascist: His state and His Mind, Morrow, New York 1937; George Lowell Field, The syndacal and corporative institution of Italian fascism, Columbia University Press ,New York 1938; Carl T. Schmidt, The Corporate State in Action. Italy Under Fascism. Oxford University Press, New York 1939. Queste sono opere ancora colpevolmente ignorate dalla storiografia, quanto fondamentali per capire il clima culturale e le proposte economiche dell'epoca.
25 Thomas fu il capo dell'American Socialist Party nel periodo in esame, e si occupò delle analogie tra i due paesi in diverse sue elaborazioni. W. Schivelbusch, Three New Deals cit., p. 32.
26 Giornalista liberale, Allegren si occupò di questioni estere e socio – economiche sulle pagine dello Spectator, toccando spesso temi riguardanti l'Italia a confronto con gli Usa, e guardando con interesse alle riforme fasciste (W. Schivelbusch, Three New Deals, cit., p. 31). Su posizioni simili il direttore del New Republic George Soule (Ibidem, p. 32). Sull'importanza centrale di questa rivista nel contesto del New Deal: Francesco Villari, Il New Deal, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 264.
27 Anche lui liberale, fino al 1935 fu uno dei più strenui sostenitori delle somiglianze tra corporativismo e New Deal. Cfr. Ibidem, p. 35 e John P. Diggins, L'America, Mussolini e il fascismo cit., p.212.
28 Beard si occupò a lungo di economia e corporativismo, e i suoi scritti sono fondamentali nel quadro analizzato, in primis il libro: Charles Beard, The future comes. A study of the New Deal, McMillan, Londra 1933.
29 Uno dei più grandi magnati della stampa americana come William Randolph Hearst fu un ammiratore del capo del fascismo (John P. Diggins, L'America, Mussolini e il fascismo,cit., pp. 59 – 60), mentre Henry Luce, altro uomo di punta dell'editoria americana, fu un repubblicano d'impostazione liberista e antifascistaTrale tante riviste che si dedicarono a critiche e paralleli, ci furono in primis «New York Times» (di Hearts), «Fortune» (di Luce) e l'«Harper's Magazine» (W. Schivelbusch, Three New Deals cit., pp. 32 – 33), dove apparve uno degli scritti più significativi: Joseph Brown Matthews e Ruth Enalda Shallcross, Must America go fascist?, «Harper's Magazine», vol. CLXXX, 1935, p. 159.
30 Questi due autori si occuparono diffusamente delle analogie tra i sistemi economici italiano e americano, al punto di firmare due articoli dal titolo e dai contenuti simili: L. Samson, Is fascism possible in America?, «Common Sense», agosto 1934, p. 17 e W. Frank, Will fascism come to America?, «Modern Monthly», vol. VIII, 1934, p. 135. La rivista «Common Sense» fu una delle tribune di discussione più interessanti riguardo all'economia degli anni Trenta. Trai suoi collaboratori spiccò il nome di John T. Flynn, uno dei più attivi critici sia del New Deal che del fascismo. Cfr. John Moser, Right Turn: John T. Flynn and the Transformation of American Liberalism, New York University Press, New York 2005.
31 G. Seldes, Sawdust Caesar. The Untold history of Mussolini and fascim, Harper, New York 1935.
32 G. Santomassimo, La Terza Via fascista, cit., p. 208

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