sabato 20 giugno 2009

Militia - di Léon Degrelle



ETSI MORTUUS URIT
(seppur morto, egli arde)



«Possano queste pagine, ultimo fuoco di quel che io fui, ardere ancora un momento, riscaldare ancora un istante le anime possedute dalla passione di donarsi e di credere: di credere malgrado tutto, malgrado la disinvoltura dei corrotti e dei cinici, malgrado il triste gusto amaro che ci lasciano nell’anima il ricordo delle nostre colpe, la coscienza della nostra miseria e l’immenso campo di rovine morali di un mondo che, sicuro di non avere più bisogno di salvezza, da questo trae motivi di gloria, ma deve lo stesso essere salvato. Deve più che mai essere salvato».


Le parole raccolte in questo volume sono parole perdute, scovate per caso e ritrovate da uno dei maggiori scrittori spagnoli del Novecento: Gregorio Maranon. Esse appartengono al cielo, dal cielo sono venute per ispirare il generale Léon Degrelle, per regalare l’ultimo soffio di speranza e forza agli spiriti dei giovani d’Europa. L’Europa, sogno, mito, idea del fondatore di Rex, il vallone in forzato esilio spagnolo che dopo la Seconda Guerra Mondiale non vide più i tramonti della sua terra. Troppo di più è inutile dirvi dell’uomo Degrelle, inutile giudicare le sue gesta, da ovunque le si guardi; ciò che conta, ciò che resta, sono le parole: un canto assoluto, impervio, oltre, per gli uomini e per l’infinito, per chiunque ne sappia riconoscere il valore più puro.

E, come intuì immediatamente Maranon, quest’opera comprende una serie di note spirituali che l’autore scrisse nel corso delle vicende avventurose della propria vita, prima e durante la seconda guerra mondiale. Parole d’un uomo immutevole che colpirono Maranon sin dalla prima e immediata lettura: «Sono di una bellezza impossibile a superare, vibranti di pathos umano». L’opera si divide in sei parti (e in molteplici sottoparti): “I cuori vuoti”, “Fonti di vita”, “L’angoscia degli uomini”, “La gioia degli uomini”, “Il servizio degli uomini”, “Dono totale”.

C’è da perdersi tra tanta bellezza, non potendo e non volendo farvi dono di tutto (perché dovete leggere con i vostri occhi), vi lascio versi e suggestioni sparse per il libro come soffio che v’inebri per pochi istanti e che vi porti a cercare in voi l’energia che qui si emana: «Scrivo senza tremare queste parole che pure mi fanno soffrire. Nell’ora della disfatta di un mondo, c’è bisogno di anime rudi ed elevate come rocce cui s’infrangeranno invano le onde scatenate». (“Intransigenza”).

«Eccomi giunto quasi al termine della mia corsa umana. Io ho provato quasi tutto. Conosciuto tutto. E, soprattutto, sofferto tutto. Abbagliato, ho visto alzarsi i grandi fuochi d’oro della mia giovinezza. Il loro incendio illuminava il mio paese. Le folle facevano danzare intorno a me ondate costellate da migliaia di volti. Il loro ardore, il loro vortice sono esistiti». (“Il fuoco e le ceneri”).

«Coloro che esitano davanti allo sforzo sono coloro la cui anima è ottusa. Un grande ideale dà sempre la forza di dominare il proprio corpo, di soffrire la fatica, la fame, il freddo… la facilità addormenta l’ideale. Niente lo risveglia meglio che la sferza della vita dura: essa ci permette di cogliere le profondità dei doveri da compiere, della missione di cui occorre essere degni. Il resto non conta. La salute non ha alcuna importanza. Non si è sulla terra per mangiare in orario, dormire a tempo opportuno, vivere cent’anni od oltre. Tutto questo è vano e sciocco… l’anima sola conta e deve dominare tutto il resto. Breve o lunga, la vita vale soltanto se noi non avremo da vergognarcene nel momento in cui occorrerà renderla». (“Vita retta”).

«Occorre aver solcato i mari più lontani, aver conosciuto le rosse notti dei Tropici, i fuochi delle canne da zucchero, i canti dei negri, i deserti con le sabbie rosate… per amare pienamente un paese, quello che si vede per primo, con i soli occhi limpidi che si vedono al mondo: gli occhi di fanciullo». (“Il cuore e le pietre”).

«Casa, fortezza e tenerezza… Tutto a poco a poco, assume un volto, man mano che arrivano le fatiche e i dolori comuni, e nascono i figli. I muri hanno racchiuso gli amori e i sogni. I mobili belli o brutti sono stati amici e testimoni. Un profumo sale dolcemente da queste anime confuse, e un raccoglimento, una pace, una certezza – invece delle soste trafelate sui pianerottoli dell’esistenza». (“Il cuore e le pietre”).

«Occorre pensare continuamente al valore della vita. Questo è lo strumento ammirevole postoci nelle mani per forgiare la nostra volontà, elevare la coscienza, edificare un’opera di intelletto e di cuore. La vita non è una forma di tristezza, ma di gioia fatta carne. Gioia di essere utile. Gioia di domare quel che potrebbe macchiarci o sminuirci. Gioia di agire o di donarci. Gioia di amare tutto quel che vibra, spirito e materia, perché tutto, sotto l’impulso di una vita retta, eleva, allegerisce, anziché pesare». (“Il valore della vita”).

«Dovunque si sia, in alto o in basso, uomo o donna, il problema rimane sempre il medesimo: è il donare che rende le anime chiare o torbide». (“Grandezza”).

«Morir vent’anni prima o vent’anni dopo poco importa. Quel che importa è morir bene. Soltanto allora inizia la vita». (“La grande ritirata”).

«Tutti portiamo la nostra croce: occorre portarla con un sorriso d’orgoglio, perché si sappia che siamo più forti della sofferenza, e anche perché coloro che ci feriscono comprendano che le loro frecce ci colpiscono inutilmente. Che importa soffrire, se vi è stata nella nostra vita qualche ora immortale? Quanto meno, si è vissuto!». (“La nostra croce”).

«Ma sono appunto questi gli obbiettivi della vera rivoluzione: recare luce a questi spiriti ghermiti dalle ombre; aiutare a rialzarsi queste anime che stanno cadendo; rinsegnare ad aspirare a cose diverse da quelle corporali; dominare l’imperfetto, elevarsi verso il meglio, qual pur siano gli sforzi». (“Flottiglia d’anime”).

«Avrai vinto. Essere ucciso dall’ultimo sforzo non avrà più alcuna importanza, se gli altri saranno là, sul ciglio dell’immensità pura della redenzione. In fondo, tu sei tanto felice. Tu sai che là risiede la sola felicità. Canta! Tuoni la tua voce nelle valli! Rimpianti e lacrime? Ma è la parte più mediocre di te che ha sofferto: quella che hai appena respinto! Il più duro è superato. Resisti. Stringi i denti. Fa tacere il cuore.
Pensa soltanto alla vetta! Sali!». (“Vette”).

Questo libro-poesia-testamento vide la luce per la prima volta a Parigi nel 1964 portando come titolo Les Ames qui Brulent. I frammenti che ho selezionato sono esemplificativi del messaggio che Léon Degrelle volle donar di sé, alle giovani generazioni soprattutto, che poco sapevano e molto ignoravano degli eventi cruciali del secolo scorso, che ancora sognavano e a loro modo lottavano per un mondo diverso. Un invito a non perdersi, nonostante le difficoltà, le pressioni della vita e i lacci del potere. Un fiero canto dell’esistenza, un monito ad esserci sempre e a restare sempre presenti.
E Léon ci fu sempre, per i suoi fratelli, compatrioti e non, per un’idea che guardava oltre le alleanze e gli equilibri di quel tempo di guerra, per un’Europa pensata libera da vincoli o egemonie, di qualsiasi tipo e di qualsiasi colore.
Certo scelse, scelse un’alleanza sconfitta; la scelse in buona fede e pensando fosse l’unica possibile per emanciparsi dalla barbarie borghese e cialtrona che governava stancamente il suo continente e la sua Patria, che andava alleandosi con quella ancor più misera e ignorante d’oltreoceano (gli Usa). Né russi, né americani, dunque, ad insegnarci la giusta via; né l’abominio comunista, né il liberticida liberismo americano, quasi presentendo l’egemonia prossima dei due blocchi sull’occidente e sull’intero pianeta. Come dargli torto a posteriori? I risultati sono sotto gli occhi di tutti, anche di coloro che se li sono bendati per lungo tempo. Ciò che resta, comunque, nel tempo e nonostante il tempo, nella storia e nonostante la storia, sono le sue parole a rimarcar nobili gesta.
Si condividano o meno, le parole del Generale Degrelle arrivano direttamente dall’Alto e vanno verso l’Alto, per ritornare a noi come eco, vibrante invito a non arrendersi mai, puri della giovinezza del fanciullo: perché si possa guardarlo in faccia, questo mostro, questa piovra onnivora del nostro tempo; tempo sopito, ahimè, tempo nascosto, mimetico e indeciso, lontano dalla rivolta e dal suo monito: «Che il destino ci trovi sempre forti e degni».

BREVI NOTE

Léon Degrelle nasce nel 1906 nelle Ardenne belghe. Nel 1935 è capo del movimento nazional-popolare “Rex”. Partito volontario per il fronte orientale nel 1941, agli inizi del 1945 diviene Comandante della 28° SS Freiwillige Panzergrenadier Division “Wallonie”. È il solo straniero decorato col Cavalierato della Croce di Ferro con foglie di quercia. Dal 1945 sino al 1994, anno della sua morte, è vissuto esule in Spagna.


Articolo comparso originariamente su Lankelot, a firma Léon (che ringraziamo vivamente!)

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1 commento:

  1. Ne consiglio vivamente la lettura, un testo fondamentale edito dalle Edizioni di Ar > Léon Degrelle - Milita

    Anche Sentinella d'Italia pubblicò parecchi testi
    di Léon Degrelle...

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